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1. INTRODUZIONE
1.1 TOSSICOLOGIA EVOLUTIVA
La tossicologia evolutiva è lo studio degli effetti dei contaminanti chimici sulla struttura genetica
delle popolazioni naturali. Questa giovane disciplina utilizza le metodiche sperimentali tipiche dell’
ecotossicologia, ovvero la selezione di biomarcatori, la comparazione tra popolazioni di controllo e
popolazioni esposte e analisi della correlazione tra dose ed effetto. A livello concettuale si basa
sulla teoria evolutiva e sulla biologia della conservazione, con metodi analitici propri della genetica
di popolazione.
A livello tossicologico gli effetti dei contaminanti sulla struttura genetica delle popolazioni possono
essere diretti o indiretti. Nel primo caso ci si riferisce a contaminanti mutagenici, chiamati
genotossici, che causano danni diretti alla molecola di DNA attraverso processi quali sostituzioni di
basi, delezioni, duplicazioni e modificazioni strutturali dei cromosomi. Gli effetti indiretti sono
invece provocati da contaminanti non genotossici, ma, in ultima analisi, capaci di alterare la
struttura genetica e il potenziale evolutivo della popolazione. A partire dai numerosi lavori in
letteratura, è possibile riconoscere 4 tipologie di effetti indiretti a livello di genetica di popolazione,
che si manifestano singolarmente o in combinazione (Bickham 2011). Un tipo di effetto è l’erosione
genetica, ovvero la riduzione della variabilità genetica a seguito della drastica riduzione della
dimensione della popolazione; la forte diminuzione della fitness riproduttiva provoca la perdita di
variabilità per deriva genica (van Straalen e Timmermans 2002). Questo processo, avendo effetti
diffusi sull’intero genoma, può essere analizzato utilizzando marcatori genetici neutrali, come i
microsatelliti. Un secondo tipo di effetto è l’alterazione delle frequenze alleliche o genotipiche
causate dalla selezione direzionale indotta dal contaminante. In questo processo sono coinvolti i
geni essenziali per la sopravvivenza. Lo studio può quindi concentrarsi sull’individuazione e sulla
caratterizzazione di questi loci. Altro tipo di effetto è l’alterazione della capacità dispersiva o del
flusso genico, che possono modificare le relazioni genetiche tra le popolazioni. Lo studio della
distribuzione aplotipica tra diverse sottopopolazioni può portare, ad esempio, all’individuazione di
“aree pozzo” contaminate, nelle quali il basso successo riproduttivo non permette un ottimale flusso
genico all’interno dell’areale della popolazione. In un’ottica biogeografica, si genererebbero gli
stessi effetti causati dalla frammentazione di habitat o dall’insorgenza di una barriera riproduttiva.
Infine, un altro tipo di effetto è il cambiamento delle frequenze alleliche dovuto all’aumento del
tasso di mutazione. Talvolta la deriva genetica può essere compensata da un aumento del tasso di
mutazione, che può verificarsi, ad esempio, nei casi di eteroplasmia mitocondriale.
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In generale è stato dimostrato che la fitness è dipendente dalla variabilità genetica, in quanto
un’elevata variabilità è direttamente correlata ad una fitness riproduttiva maggiore (Hansson e
Westerberg 2002; Frankham 2005). Le conseguenze a lungo termine delle alterazioni a livello
genetico potrebbero essere una minor resistenza ad altri fattori di perturbazione, come esposizioni
ad ulteriori contaminanti o all’introduzione di nuovi patogeni o parassiti, una riduzione del
potenziale adattativo ed evolutivo della popolazione (Frankham 2005) e quindi una maggior
probabilità di estinzione.
Un studio completo di Tossicologia Evolutiva dovrebbe quindi includere: misurazioni sulla
presenza e le concentrazioni dei contaminanti negli ecosistemi, indicazioni della capacità del
contaminante di bioaccumulare nelle matrici biotiche e in particolare nel bioindicatore, marcatori
fenotipici per analizzare gli effetti somatici e analisi di genetica molecolare per inferire gli effetti
emergenti sulla struttura genetica della popolazione (Bickam 2011).
1.2 TEST MULTIGENERAZIONALE
I test di tossicità acuta e cronica danno importanti informazioni sulla pericolosità dei contaminanti a
diverse concentrazioni, determinando la relazione diretta concentrazione-effetto su organismi
modello. Negli ultimi anni è cresciuta la consapevolezza che i test acuti forniscono informazioni
parziali, poiché i risultati ottenuti sono scarsamente rappresentativi in scenari naturali. Per ottenere
dei dati più realistici, e quindi confrontabili con quello che accade in ambiente, sono state
sviluppate nuove tipologie di test basate per esempio, su esposizioni più lunghe e a concentrazioni
più basse (Ristola et al. 2001). Fra queste, il test cronico multigenerazionale risponde alla necessità
di evidenziare gli effetti a lungo termine provocati dall’esposizione a basse concentrazioni di
contaminanti.
I test multigenerazionali permettono di analizzare gli effetti su parametri di life-history, detti life-
traits, come sopravvivenza, sviluppo, crescita, capacità riproduttiva, e e su parametri genetici della
popolazione. Per esempio, Vandegehuchte et al. (2010) ha testato gli effetti dello zinco in un test
multigenerazionale su Daphnia magna, della durata di tre generazioni. Sono stati analizzati i
parametri di accrescimento e di fertilità ed è stato valutato il diverso livello di espressione di un set
di geni di rilevanza ecotossicologica tramite microarray. Tra la prima e la seconda generazione è
stata osservata una significativa variazione nell’espressione genica, mentre nella terza si è verificato
il ristabilirsi dei valori iniziali dei life-traitsed dell’espressione genica. Questi risultati sono stati
interpretati come effetto dell’acclimatazione delle popolazioni in risposta al contaminante.
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Nel campo dell’ecotossicologia la possibilità di individuare effetti di natura subletale risulta di
notevole importanza per valutare le conseguenze a lungo termine della contaminazione sulla
sopravvivenza della popolazione (Coutellec e Barata 2011). A tal fine, i test basati sulle variazioni
delle proprietà genetiche, invece che di espressione genica, rispondono all’esigenza di evidenziare
gli effetti permanenti sulla variabilità genetica ed, in ultima istanza, sul potenziale evolutivo di una
popolazione.
Questo tipo di approccio evolutivo sui test tossicologici ha subito diverse critiche. Prima tra tutte,
l’esposizione della popolazione in studio in condizioni di laboratorio allontana ancora dal realismo
ecologico. In particolare, si impone il compimento del ciclo vitale in condizioni standard, in
isolamento riproduttivo, eliminando così i vantaggi legati alle migrazioni di popolazioni non
esposte, come invece accade in natura. L’isolamento può anche provocare la riduzione della
variabilità genetica a causa di fenomeni di drift genico o inbreeding (Coutellec e Barata 2011). Va
considerato che le popolazioni maggiormente sensibili alle perturbazioni ambientali sono
notoriamente quelle piccole ed isolate, per le quali quindi le condizioni imposte nei test
multigenerazionali sono particolarmente valide. Tuttavia, per limitare al minimo i possibili errori di
interpretazione dei dati, si cerca di avere popolazioni di partenza con un’ampia variabilità genetica.
1.3 COMPOSTI PERFLUORURATI (PFAS)
I composti alchilici perfluorurati (PFAS) sono composti organici costituiti da una catena alchilica
idrofobica lineare o ramificata, di differente lunghezza (in genere da C4 a C16), completamente o
parzialmente fluorurata, e un gruppo idrofilico (Valsecchi e Polesello 2008).
Le particolari proprietà chimico-fisiche di queste molecole derivano dalla presenza di numerosi
legami carbonio-fluoro. I perfluorurati sono assai stabili e chimicamente inerti. Presentano un basso
punto di ebollizione e una debole tensione superficiale, e sono molto resistenti alle principali fonti
di degradazione: dal calore all’idrolisi, dalla fotolisi alla degradazione microbica (Minoia et al.
2008).
Queste caratteristiche hanno fatto sì che i composti perfluorurati venissero ampiamente utilizzati già
a partire dagli anni cinquanta come emulsionanti, tensioattivi, prodotti per la pulizia di tappeti,
tappezzerie, pelli e tessuti. Hanno trovato impiego anche nella produzione di rivestimenti protettivi
ed idrorepellenti, nei fitofarmaci e nella produzione di vernici e adesivi, prodotti per stampanti,
pellicole fotografiche, strumenti di microelettronica, shampoo, dentifrici e schiume antincendio. Si
ritrovano anche negli imballaggi alimentari, come quelli dei fast food, e nei cartoni del cibo
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d’asporto. Persino in cucina siamo costantemente esposti ai perfluorurati: sono infatti utilizzati
come trattamento antiaderente per pentole e carta da forno.
Tra le caratteristiche che hanno reso questi prodotti così famosi si annoverano anche quelle, meno
positive, che li hanno portati all’attenzione di enti di ricerca che si occupano di analisi ambientali,
tra cui il CNR IRSA Istituto di Ricerca sulle Acque di Brugherio (MB), presso il quale è stato
svolto il presente lavoro.
I perfluorurati sono, infatti, altamente resistenti alla degradazione, molto solubili in acqua, e
possono essere trasportati a lunga distanza attraverso il comparto acquatico. La loro presenza è stata
riscontrata in tutto il mondo, dagli ambienti biotici a quelli abiotici, persino ai poli, e in particolare
al Polo Nord, dove se ne sono rinvenute tracce nel sangue degli orsi polari. Inoltre, i PFAS sono
presenti nell’acqua di falda e nelle acque di rete, ponendo quindi problemi per la salute umana.
Negli ultimi decenni l’US EPA (United States Environmental Protection Agency) e l’Unione
Europea hanno deciso per la riduzione della produzione di alcuni composti, tra i quali l’acido
perfluoroottansolfonico (PFOS) e l’acido perfluorottanoico (PFOA). Il PFOS, nello specifico è, già
dal 2006, compreso nella categoria degli inquinanti organici persistenti (POP) secondo la
Convenzione di Stoccolma ed è stato inserito nell’elenco delle sostanze prioritarie (Direttiva
europea 2013/39/UE). Il PFOA è invece attualmente al vaglio della comunità scientifica per la
definizione di opportuni standard di qualità. A dispetto di queste restrizioni, questi composti si
possono rinvenire nella pressoché totalità degli ambienti acquatici, dai corpi idrici superficiali alle
acque sotterranee.
Nonostante i livelli di tossicità acuta di questi composti risultino spesso poco elevati, rimane assai
ridotta la conoscenza degli effetti cronici. Questa tesi si pone dunque l’obiettivo di indagare gli
effetti tossici a lungo termine di tre composti largamente riscontrati nel panorama degli ecosistemi
fluviali italiani: PFOS, PFOA e acido perfluorobutansolfonico (PFBS).
1.3.1 Ecotossicologia dei PFAS
L’elevata persistenza dei PFAS è riconducibile alla considerevole stabilità chimica che li
contraddistingue, caratteristica che, sommata alle altre, li ha resi inquinanti ubiquitari: sono stati
rilevati in fiumi europei (McLachlan et al. 2007), americani (Kannan et al. 2005), giapponesi
(Taniyasu et al. 2003), nonché nelle acque potabili (Ullah et al. 2011).
Per via delle considerevoli capacità di bioaccumulo e della conseguente biomagnificazione, i PFAS
sono stati ritrovati nei tessuti di organismi acquatici (Kannan et al. 2002; Ahrens et al. 2009; Becker
et al. 2010), compresi quelli consumati dall’uomo come i pesci. Recenti studi hanno riscontrato