nessuno o a entrambi i contesti sociali, culturali, politici ed economici delle due
sponde della migrazione; per sostenere la presenza di transnazionalismo non basta
rilevare pratiche condotte tra due Paesi distinti, ma si ha la necessità di individuare
l’esistenza di ciò che S.Vertovec
2
chiama “bifocalità”: il “duplice punto di vista da cui
i migranti elaborano decisioni, compiono investimenti, intrattengono rapporti,
definiscono la propria identità. La bifocalità può essere considerata uno schema
cognitivo, non necessariamente destinato a tradursi in attività e comportamenti
verificabili”
3
. In risposta alle critiche, perciò, i sostenitori dell’ottica transnazionale
affermano che si tratta di una nuova lente con cui soprattutto gli individui migranti
guardano alla loro realtà e che quindi anche gli studiosi devono adottare per indagare
tale realtà. In verità la concettualizzazione del termine non è stata la stessa fin dalle
nascita degli studi sul transnazionalismo, di cui A.Wimmer e N.Glick Shiller
4
individuano due fasi:
- Una prima fase caratterizzata da studi di inclinazione etnografica, è stata in
seguito criticata per il fatto di individuare nelle tecnologie dell’informazione il
motore dello sviluppo del transnazionalismo, non prendendo in considerazione
altri importanti fattori e dando vita ad una sorta di determinismo tecnologico;
inoltre tali studi sono stati criticati per la loro insistenza sulla stabilità del
passato, in contrapposizione con la contemporaneità caratterizzata da
ibridazione e continuo mutamento, non considerando che la globalizzazione ha
attraversato diverse fasi ed era già presente all’inizio del XX secolo.
- Secondo Wimmer e Glick Shiller la seconda ondata sarebbe caratterizzata dal
superamento del nazionalismo metodologico, ovvero della naturalizzazione
dello stato e dei confini, attraverso l’adozione del transnazionalismo come
prospettiva di studio.
L’obiettivo di chiarificazione del termine sembra essere stato raggiunto da
TransComm, infatti, a partire dal 2004, anno in cui la conduzione delle ricerche passa
al centro di ricerca COMPAS ancora presso l’Università di Oxford, la preoccupazione
principale di tale centro di studi non appare più quella della definizione e della
2
S. Vertovec, Migrant Transnationalism and Modes of Transformation, in “International Migration
Review”, vol.38, n.3, autunno 2004, pp.970-1001.
3
M. Ambrosini, Un’altra globalizzazione. La sfida delle migrazioni transnazionali, Bologna, Il
Mulino, 2007, pag.94.
4
A. Wimmer e N. Glick Shiller, Methodological Nationalism, the Social Science, and the Study of
Migration: An Essay in Historical Epistemology, in “International Migration Review”, vol.37, n.3,
autunno 2003, pp.576-609.
3
dimostrazione di validità scientifica del termine, che vengono dati per scontati, ma
l’elaborazione di ricerche utili per le politiche pubbliche, dimostrando perciò finalità
maggiormente applicative rispetto al più teorico TransComm. In tal senso è
illuminante il fatto che varie agenzie governative (per esempio il Ministero degli
Interni di diversi Paesi), sovranazionali (come la Commissione Europea, l’IMI,
l’UNHRC o altre) o organizzazioni private che agiscono in ambito internazionale
siano spesso ricorse alla consulenza di studiosi che hanno preso parte al progetto
COMPAS: ciò testimonia che il transnazionalismo è considerato ormai uno strumento
utile per le analisi sociologiche e non solo, la cui validità non è più da dimostrare, pur
tenendo presente che gli scienziati sociali devono costantemente sforzarsi di
controllare che il concetto sia adeguato per rappresentare la società e i suoi
cambiamenti.
4
1.
LA SOCIOLOGIA DELLE MIGRAZIONI E L’OTTICA
TRANSNAZIONALE
Definire la sociologia delle migrazioni è tanto arduo quanto definire la sociologia in
generale: ciò è imputabile alla difficoltà di dare confini all’oggetto della sociologia,
problema di cui si sono interessati i sociologici fin dalla nascita della disciplina. In tal
senso basta ricordare Durkheim, la cui finalità, diversamente da Comte e Spencer, non
è stata quella di individuare un posto per la sociologia tra le altre scienze come
“Scientia Scientiarum”, ma di identificarne più precisamente l’oggetto di studio nei
“fatti sociali” (istituzioni): “un fatto sociale si riconosce dal potere di coercizione
esterno che esso esercita o è suscettibile di esercitare sull’individuo”
5
; le istituzioni
hanno perciò le caratteristiche di essere esteriori all’individuo (sono qualcosa di più
della semplice somma delle azioni individuali) e costrittivi verso questo. Proprio in
base al tipo di fatti sociali analizzati si distinguono le varie branche della sociologia,
in cui rientra la sociologia delle migrazioni.
Un’ulteriore difficoltà per la delimitazione del campo di studi sociologico deriva dal
fatto che esso si sovrappone a quello di altre scienze sociali (economia, demografia,
statistica, antropologia, psicologia, psicologia sociale, scienze politiche…), che si
occupano dello stesso oggetto, la società, anche se partendo da punti di vista diversi:
lo studio dei legami interpersonali, dei fattori meta-biologici che influiscono sul
comportamento umano, dei caratteri demografici della popolazione e le cause del loro
cambiamento, della riproduzione dei codici culturali di vari popoli, della formazione
di usi e costumi sono soltanto alcuni dei temi affrontati. Infatti, ciò che distingue
queste scienze tra loro è il punto di vista adottato per l’analisi, la metodologia, ovvero
la cornice concettuale in cui tali studi si inseriscono e ne definisce obiettivi e tecniche
di ricerca, non l’oggetto: la sociologia, in particolare la sociologia delle migrazioni, si
distingue poiché pone attenzione ai legami sociali che caratterizzano il processo
migratorio, piuttosto che ai dati demografici dei migranti o solamente alle loro
percezioni soggettive della realtà. Ciò è chiarito da L. Zanfrini, sostenendo che
l’analisi delle migrazioni può essere condotta a partire da tre registri:
5
E. Durkheim, Le regole del metodo sociologico, 1895.
5
1. sociologico o storico: si basa sull’analisi delle differenze culturali che
caratterizzano il processo migratorio, la loro produzione e riproduzione, le
caratteristiche e i problemi della vita sociale e i significati che assumono per
gli attori;
2. filosofico: elabora concezioni su cosa sia bene e giusto fare in proposito, sulla
base della ragione e della morale;
3. delle scienze politiche e giuridiche: basandosi sui risultati ottenuti sia
dall’ambito sociologico che filosofico, ma anche considerando fattori di altro
aspetto, come economici o di opportunità politica, viene stabilito quali
modalità di azione e strumenti utilizzare per realizzare provvedimenti.
6
L’ottica sociologica sulla migrazioni situa perciò l’analisi ad un livello MESO: le
motivazioni, le caratteristiche, le vicende individuali (livello micro, non ulteriormente
scomponibile) vengono connesse al livello macro, il livello dello studio della società
nel suo insieme, o di società abbastanza grandi da essere “autosufficienti” dal punto di
vista delle funzioni sociali fondamentali (della conservazione e riproduzione della
formazione sociale), che includono insiemi di relazioni complesse non direttamente
osservabili, per esempio il sistema politico e giudiziario o le caratteristiche della
popolazione
7
. Il livello meso, invece, è un livello intermedio che analizza contesti di
interazione tra individui che possono essere inclusi in formazioni di livello più elevato
(dalla famiglia alle reti transnazionali): si ha perciò una particolare attenzione alle
reti/networks di relazioni tra gli attori, tra questi e i sistemi economici, politici,
culturali e sociali in senso stretto.
Sebbene il periodo iniziale della disciplina sociologica sia stato caratterizzato da un
prevalenza dell’analisi macro, oggigiorno si assiste ad una ribalta sia del livello micro
che meso. Comunque, in particolare per la sociologia delle migrazione, affinché tale
tipo di analisi si sia affermata, sono stati superati vari paradigmi
8
riguardo la causa e
la perpetuazione delle migrazioni.
6
L. Zanfrini , Sociologia delle migrazioni, Roma-Bari, Laterza, 2007, pp.10-11.
7
In questo caso si parla di livello aggregato, poiché derivante dall’analisi aggregata della caratteristiche
degli individui che fanno parte della formazione sociale analizzata.
8
Secondo P. Corbetta, che parafrasa il pensiero di Kuhn (T. Kuhn, The structure of scientific
revolution, Chicago, Chicago University Press, 1962, 1970 seconda ed.), un paradigma è : “una
prospettiva teorica: a) condivisa e riconosciuta dalla comunità di scienziati di una determinata
disciplina; b) fondata sulle acquisizioni precedenti della disciplina stessa; c) che opera indirizzando la
ricerca in termini sia di c1)individuazione e scelta dei fatti rilevanti da studiare, sia in c2) formulazione
di ipotesi entro le quali collocare la spiegazione del fenomeno osservato, sia di c3) approntamento delle
6
Per quanto riguarda l’analisi delle cause della migrazione, L. Zanfrini scompone il
tema, sulla base del pensiero di D.S. Massey, in quattro possibili ambiti di studio,
derivanti dal collegamento tra due diversi temi e due prospettive di analisi: lo studio
dell’origine dei flussi da una parte e quello dei fattori che causano la loro
perpetuazione dall’altra, possono infatti essere indagati sia ponendo attenzione ai
fattori individuali, motivazionali, contestuali, che al livello familiare, comunitario,
nazionale o internazionale
9
. Diversi paradigmi sono stati adottati per analizzare
l’argomento, tra cui il Paradigma Neoclassico dell’Economia: nelle teorie che lo
compongono il focus si incentra sul livello micro dell’Homo Economicus, mettendo in
evidenza il processo razionale di confronto tra eventuali vantaggi e costi della
migrazione, considerato l’unica causa del fenomeno migratorio. Tale paradigma è
stato perciò criticato da molte parti, dal momento che non prende in minima
considerazione l’aspetto socialmente embedded della decisione di emigrare.
Il Paradigma Neoclassico è stato infatti sostituito dalla Nuova Economia delle
Migrazioni negli anni Ottanta, di cui principali esponenti sono O. Stark e D. Bloom
10
:
essi spostano l’attenzione dalla finalità di massimizzazione dei guadagni da parte di
un singolo individuo alle strategie familiari di minimizzazione dei rischi, dovuti
soprattutto all’assenza di un sistema di welfare. In questo senso la decisione di
emigrare non sarebbe mai una scelta individuale, anche se a compiere l’azione è un
solo membro della famiglia e, a differenza del Paradigma Neoclassico, la migrazione
non viene considerata permanente con la totale rescissione dei legami con il paese di
origine, bensì temporanea, in base all’analisi dei rapporti che permandono tra il
migrante e la famiglia left behind (sottoforma in particolare di rimesse e trasferimenti
una tantum). Come per il Paradigma Neoclassico, comunque, l’attenzione degli
studiosi è ancora rivolta ai fattori push (del paese di origine) e al livello micro.
Altro punto di vista, emergente anch’esso negli anni Ottanta, è la Teoria del Mercato
del Lavoro Duale, di cui il capostipite può essere considerato Piore con “Birds of
passage”
11
, pubblicato già nel 1979 e importanti esponenti Harris con “The new
tecniche di ricerca empirica necessarie.” P. Corbetta, Metodologia e tecniche della ricerca sociale,
Bologna, Il Mulino, 1999, p.17-20.
9
L. Zanfrini , Sociologia delle migrazioni, Roma-Bari, Laterza, 2007, pp.82-83, sulla base di D.S.
Massey et al., “Worlds in Motion: Understanding International Migration at the End of the
Millennium”, Oxford University Press, New York, 1998.
10
O. Stark e D. Bloom, The new economics of labor migration, in “American Economic Review”,
LXXV, 1985, pp.156-168 e O. Stark, The Migration of Labor, Basil Blackwell, Cambridge, 1991.
11
M.J. Piore, Birds of Passage, Cambridge University Press, New York, 1979.
7
untouchable”
12
, 1995 e Sassen, con per esempio “The Global City: New York,
London, Tokyo”
13
, 1991. Tale paradigma sottolinea l’importanza dello studio dei
fattori pull della migrazione, in una prospettiva macro: ciò che spinge a migrare non
sono solo le difficoltà economiche o i rischi da affrontare nel paese di partenza, ma
anche la richiesta di manodopera da parte dei paesi ricchi. La richiesta di manodopera
immigrata si situerebbe ai livelli estremi di qualificazione: sia lavoratori con bassa
qualifica che quelli altamente specializzati sarebbero richiesti dal mercato del lavoro
dei paesi di arrivo, ma soprattutto i primi costituirebbero la stragrande maggioranza,
poiché disponibili ad accettare mansioni di basso prestigio sociale, con bassi salari e
spesso irregolari, che la manodopera autoctona non è più disposta a svolgere. Tali
mansioni, d’altra parte, non vedrebbero un aumento di salario conseguente alla
scarsità dell’offerta di lavoro, a causa del fenomeno dell’ “inflazione strutturale”,
ovvero del fatto che un aumento di salario in occupazione a basso prestigio sociale ne
porterebbe un aumento in tutte le altre con profilo più elevato. La migrazione dei
lavoratori contribuirebbe perciò alla segmentazione del mercato del lavoro in due
settori, uno primario, composto da lavoratori qualificati a riparo dalla concorrenza
della manodopera immigrata, con alti salari, alto prestigio sociale e sicurezza del
posto di lavoro e uno secondario, in cui la manodopera autoctona e immigrata
concorrerebbero per aggiudicarsi posto di lavoro più precari e meno remunerati.
In questa visione caratterizzata dai concetti di centralità e marginalità si inserisce la
Teoria del Sistema Mondo di Wallerstein
14
(World System Theory), risalente agli anni
Settanta, che imputa la causa del sottosviluppo dei paesi poveri ai paesi sviluppati, in
linea con il Paradigma della Dependencia (la cui massima espansione si ha negli anni
Sessanta): lo sviluppo del capitalismo, non inteso dall’autore come un fenomeno
diffuso soltanto in Occidente, ma in tutto il pianeta a partire già dalla metà del 1500
15
,
sarebbe caratterizzato da un’unica divisione internazionale del lavoro. Nonostante il
12
N. Harris, The New Untouchable: Immigration and the New World Worker, I.B. Tauris, New York,
1995 (trad.it “I nuovi intoccabili. Perché abbiamo bisogno degli immigrati”, Milano, Il Saggiatore,
2000).
13
S. Sassen, The Global City: New York, London, Tokyo, Princeton, Princeton University Press, 1991
(trad. it. “Le città globali”, Torino, Utet, 1997).
14
I. Wallerstein, The Modern World-System: Capitalist Agriculture and the Origins of the European
World Economy in the Sixteenth Century”, New York, Academic Press, 1974.
15
I. Wallerstein chiama il periodo alla metà del 1500 alla metà del 1600 “il lungo sedicesimo secolo”,
in cui si pongono le basi dell’economia – mondo: nasce una divisione del lavoro europea e
l’articolazione in centro, periferia e semiperiferia (basta pensare alla divisione del lavoro tra colonie e
paesi colonizzatori), iniziano ad emergere criteri di gestione capitalistica in agricoltura, per esempio e
in alcuni regioni europee nasce un apparato burocratico (I. Wallerstein, ibidem)
8
processo di decolonizzazione e l’indipendenza di molte ex colonie, raggiunta per la
maggior parte dopo la Seconda Guerra Mondiale, i paesi sottosviluppati
continuerebbero ad essere dipendenti economicamente dal “centro”, core, e
baserebbero le loro strategie di crescita economica sul fornire ai paesi più ricchi
manodopera a basso costo, lo sfruttamento delle proprie risorse e mercati per
l’esportazione di prodotti dell’industrializzazione, con conseguenze negative
sull’economia tradizionale, sulla disponibilità di manodopera per l’agricoltura, sulla
propensione all’emigrazione, sempre maggiore (e possibilità di care drain, brain
drain, brain wasting).
Per quanto riguarda l’attenzione alla perpetuazione delle migrazioni, molto
promettente appare la Teoria dei Network, che riesce a dare spiegazioni per fenomeni
che risultano incomprensibili per i paradigmi economici (per es. perché le migrazioni
verso un determinato Paese o regione non cessano col venir meno dei benefici dei
fattori che ne sono la causa, ovvero che danno ai migranti la possibilità di migliorare
le proprie condizioni di vita). Le analisi di questo paradigma si concentrano sul livello
meso: sono studiate le reti di relazioni che si instaurano a cavallo tra paese di arrivo e
paese di origine collegando migranti già insediati – nuovi migranti – non migranti,
mettendo in evidenza l’importanza del capitale sociale (l’insieme di risorse cognitive -
informative, adattive, selettive- ma anche materiali) che scaturisce da tali reti e che a
sua volta le modifica e ne crea di nuove. Di conseguenza, a proposito della
perpetuazione delle migrazioni, tale argomento non può essere chiarito solamente
facendo riferimento ai vantaggi economici della migrazione, ma soltanto analizzando
i networks e la loro funzione di riduzione dei costi economici, sociali e psicologici e
dei rischi delle migrazioni.
Una rivalutazione implicita di Durkheim realizzata attraverso una nuova attenzione
alle istituzioni si manifesta nella Teoria Istituzionalista, che si occupa dell’analisi
della funzione delle istituzioni governative e non, legali o meno, nel favorire la
nascita e perpetuazione dei flussi di migranti.
Un approfondimento delle implicazioni della teoria dei Network e di quella
Istituzionalista è la Teoria della Causazione Cumulativa: già Myrdall
16
nel 1957, poi
Massey
17
nel 1994 affermano che alla base della perpetuazione dei flussi migratori vi
16
G. Myrdal, Rich Lands and Poor, New York, Harper and Row, 1957.
17
D.S. Massey et al., An Evaluation of International Migration: The North American case, in
“Population and Development Review”, XX, 4, 1994, pp.699-751.
9
sono sia i fattori di push (deprivazione relativa, cultura della migrazione, mancanza di
posti di lavoro, mancato sviluppo economico, anche causato dal brain drain), sia
fattori di pull (mercato del lavoro duale nei paesi di immigrazione e divisione
internazionale del lavoro). Secondo gli autori, perciò, la migrazione influenza
entrambe le due sponde del fenomeno, essendo l’azione di migrare non una scelta
individuale, bensì un’ “azione collettiva” che coinvolge sia la società di arrivo che
quella di accoglienza. Tale prospettiva pone le basi per lo sviluppo del concetto di
transazionalismo, considerando quanto afferma A. Sayad: “immigrazione qui ed
emigrazione là sono due facce indissociabili di una stessa realtà, non possono essere
spiegate l’una senza l’altra”
18
.
Conseguenza di queste teorie e della loro evoluzione è la Teoria del Sistema
Migratorio (elaborata come analisi del movimento tra campagna e città da A.L
Mabogunje
19
nel 1970 e poi sviluppata, applicandola al sistema migratorio
internazionale, da J.T Fawcett e F. Arnold
20
, A. Portes
21
, ecc…), che riesce a spiegare
attraverso il concetto di reti migratorie, non solo la perpetuazione dei flussi come la
Teoria della Causazione Cumulativa, ma anche la loro origine: l’attenzione secondo
gli studiosi va posta ai legami coloniali e post-coloniali tra paesi ricchi e paesi poveri,
per giungere alla conclusione che le migrazioni sarebbero l’effetto visibile della
presenza su scala planetaria dello sfruttamento delle categorie sociali più deboli da
parte di quelle più forti. Comunque l’idea condivisa da tutti gli studiosi che
appartengono a tale paradigma è che le migrazioni non obbediscono a leggi
universalmente valide, bensì risentono dei cambianti storici, politici, economici e
culturali dell’assetto internazionale (per es. mentre in passato l’influenza del
colonialismo era molto più forte, oggi è la diffusione degli stili di vita e consumo di
USA ed Europa che caratterizza i fenomeni migratori mondiali). Nonostante ciò, le
teorie elaborate segnalano la stabilità e struttura dei flussi, i quali danno quindi vita a
“sistemi migratori internazionali stabili”: “sistemi composti da una regione di
destinazione centrale (che può essere in un paese o in un gruppo di paesi) e da un
18
A. Sayad, La double absence, Paris, Seuil, 1999 (trad. it.: « La doppia assenza. Dalle illusioni
dell’emigrato alle sofferenze dell’immigrato », Milano, Cortina, 2002).
19
A.L. Mabogunje, Systems Approach to a Theory of Rural-Urban Migration, in “Geographical
Analysis”, II, 1, 1970, pp. 1-18.
20
J.T. Fawcett e F. Arnold, Explaining diversity: Asian and Pacific immigration systems, in “pacific
Bridges: The new Immigration from Asia and the Pacific Islands”, a cura di J.T. Fawcett e B.V. Carino,
New York, Staten Island, Centre for Migration Studies, 1987, pp.453-473.
21
A. Portes e J. Borocz, Contemporary Immigration: Theoretical Perspectives on its Determinants and
Modes of Incorporation, in “International Migration Review”, XXIII, 3, 1989,pp.606-630.
10
gruppo di aree d’origine legate ad essa da flussi particolarmente consistenti”
22
(flussi
non solo di persone, ma di beni, idee, capitali).
Da questa teoria emerge l’idea che le migrazioni siano caratterizzate da molteplici
flussi bidirezionali tra il paese di arrivo e di partenza, che si svolgono attraverso la
mediazione dei migranti, delle loro reti o comunità; si pongono quindi le basi per
poter parlare di transnazionalismo, il cui nucleo costitutivo e di indagine scientifica
sono le reti: in tal senso C. Tilly
23
sostiene che non sono gli individui a migrare, ma i
network. Concetti significativi in tale campo di studi sono quelli di “embeddedness” e
di “capitale sociale”, che indicano rispettivamente la collocazione delle azioni
(individuali o collettive) in una cornice strutturale e cognitiva che le influenza (aspetto
statico delle reti) e tali risorse incastonate nelle reti, che l’attore può utilizzare a suo
vantaggio (aspetto dinamico). Il transnazionalismo può quindi essere definito come
“il processo mediante il quale i migranti costruiscono campi sociali che legano
insieme il paese d’origine e quello di insediamento” (Glick Schiller
24
); di
conseguenza scompaiono dall’analisi le categorie di emigrato-immigrato per essere
sostituite da quella di “trasmigrante”, dal momento che il punto di vista
dell’osservatore scientifico e del migrante stesso non si situano più su una delle due
sponte della migrazione, ma al di sopra di questo metaforico ponte tra entrambe,
creando una partecipazione simultanea a due o più contesti sociali, economici, politici
e culturali, oltre ad un eventuale frequente pendolarismo.
Oggi il transnazionalismo è inteso come prospettiva di studio, un nuovo punto di vista
su pratiche già in parte esistenti in passato, di cui è recentemente aumentata la
quantità e l’intensità grazie all’evoluzione dei mezzi di comunicazione e di trasporto,
sempre più veloci e con costi ridotti. Come già accennato nell’introduzione, l’uso del
termine “transnazionalismo” è stato criticato da diversi punti di vista:
- a livello teorico alcuni studiosi, tra cui Kivisto
25
, sostengono che il termine sia
indefinito, in riferimento alla sua estensione, alla collocazione temporale,
spaziale e rispetto ad altri termini come globalizzazione, assimilazione, ecc..
22
L. Zanfrini , Sociologia delle migrazioni, Roma - Bari, Laterza, 2007, pp-109-110.
23
C. Tilly, Transplanted Networks, 1990 in V. Yans-McLaughlin, “Immigration Reconsidered:
History, Sociology, Politics”, (a cura di), New York, Oxford University Press, 1990.
24
N. Glick Shiller et al., Towards a Transnationalization of Migration: Race, Class, Ethnicity and
Nationalism Reconsidered, in “The Annals of New York Academy of Science”, vol. 645,1992, pp.1-
24.
25
P. Kivisto, Theorizing Transnational Immigration. A critical review of Current Efforts, in “Ethnic
and Racial Studies”, a. 24, n. 4, 2001, pp.549-577.
11