bizzarrie del linguaggio e del comportamento. Nessuno di questi sintomi da solo
è patognomonico della schizofrenia. È la loro combinazione che permette di
diagnosticare la patologia. Inoltre, siccome la loro manifestazione è mutevole nel
corso del tempo, nello stesso paziente è necessario che la sintomatologia persista
per un periodo di tempo relativamente lungo. Il quadro clinico deve essere
accompagnato da compromissione delle attività sociali e della capacità lavorativa
del soggetto e non deve essere dovuto all’uso di sostanze o astinenza da esse o ad
una condizione clinica generale.
Secondo i criteri del DSM-IV la schizofrenia viene suddivisa in 5 sottotipi,
a seconda del pattern sintomatologico dominante. Così, in presenza di sintomi
catatonici rilevanti, la schizofrenia è di tipo catatonico. In assenza di
sintomatologia catatonica ed in presenza di eloquio o comportamento fortemente
disorganizzato viene considerata di tipo disorganizzato. Nel caso che il paziente
non soddisfi i criteri per essere incluso in una delle due suddette categorie ed il
suo quadro clinico sia dominato da frequenti allucinazioni e deliri organizzati,
viene classificato nel tipo paranoide. Quando invece non può rientrare neanche
in quest’ultima forma, ma soddisfa i criteri diagnostici della schizofrenia, viene
definito di tipo indifferenziato. Infine, se al momento della valutazione clinica ci
sono alcuni dei sintomi della schizofrenia, ma in numero non sufficiente per
farne la diagnosi, e in anamnesi si riscontra almeno un episodio acuto di
schizofrenia, questa è considerata di tipo residuo.
La schizofrenia è caratterizzata dalla presenza di alterazioni psichiche
funzionali descritte da un gruppo di sintomi e definite dimensioni
psicopatologiche. Queste comprendono: la distorsione della realtà con il
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manifestarsi di deliri e allucinazioni, l’ impoverimento dell’ideazione e
dell’affettività che, dal punto di vista clinico, corrisponde ai sintomi negativi,
come l’alogia, l’anedonia, l’apatia, l’appiattimento affettivo e l’abulia, la
disorganizzazione del pensiero che si riflette sull’eloquio e sul comportamento.
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ALTERAZIONI MORFOLOGICHE E BIOCHIMICHE
La schizofrenia è un disturbo mentale e di conseguenza è dovuta ad una
alterazione del meccanismo encefalico. Per individuare e caratterizzare questa
modificazione cerebrale si è studiata la morfologia del cervello di soggetti
schizofrenici, sia direttamente, studiando l’anatomia cerebrale, sia
indirettamente, concentrandosi su parametri biochimici.
I primi studi erano studi necroscopici nell’ambito dell’anatomia patologica,
che progressivamente si è arricchita di tecniche come l’immunoistochimica, fino
ad arrivare a studi sull’espressione genica nelle diverse aree cerebrali. Negli
ultimi anni è stata importante l’introduzione di tecniche di neuroimaging, prima
con l’utilizzo della tomografia computerizzata e della risonanza magnetica
nucleare, e poi con gli strumenti di neuroimaging funzionale, come la PET, la
SPECT e la risonanza magnetica nucleare funzionale. Queste tecniche hanno
fornito una visione della patologia “in vivo”, completando i dati scoperti dagli
studi “post-mortem” e chiarendo alcuni degli aspetti fisiopatologici della
sindrome. Neanche questo approccio, però, è stato in grado di risolvere in modo
definitivo le domande sull’eziologia e sulla patogenesi della schizofrenia, poiché
molti di questi studi rimangono non confermati o sono addirittura discordanti tra
di loro. Questi problemi possono essere attribuiti all’attendibilità dei singoli
lavori, ma anche alla probabile eterogeneità della patologia ed alla complessa
struttura delle diverse stazioni encefaliche che interagiscono e si influenzano tra
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di loro, in modo tale che risulta estremamente difficile individuare le alterazioni
primarie da quelle secondarie che si sviluppano a scopo compensatorio.
Tuttavia l’esistenza di studi concordanti permette di identificare alcune
alterazioni nella struttura del cervello dei pazienti schizofrenici. A livello
macroscopico si riscontra la riduzione del volume totale dell’encefalo con
l’allargamento dei ventricoli cerebrali, ed in particolare i ventricoli laterali ed il
terzo ventricolo e, meno frequentemente, l’ampliamento dei solchi e delle
scissure cerebrali (Brown et al., 1986). Inoltre l’asimmetria fisiologica tra
emisfero destro e sinistro è attenuata, soprattutto a livello del giro temporale
superiore (DeLisi et al., 1994). E’ stata inoltre osservata la riduzione del volume
del lobo frontale (Falkai et al., 1995), del giro temporale superiore,
dell’ippocampo, del giro paraippocampale, della corteccia entorinale,
dell’amigdala e del talamo (Bogerts et al., 1991). E’ ridotto anche il volume
cerebellare. Al contrario, sembrano aumentati di volume il globo pallido, il
putamen ed il nucleo accumbens (Lauer et al., 1997). Tutte queste aree sono
coinvolte nei processi affettivi ed emotivi.
Gli studi di neuroimaging funzionale hanno evidenziato modificazioni
dinamiche che riguardano l’attivazione delle differenti aree cerebrali. Il dato più
significativo consiste nella diminuita attivazione neuronale localizzata nel lobo
frontale, sede principale dei processi cognitivi, evidenziata in gruppi di pazienti
affetti da schizofrenia rispetto a controlli sani.
Le alterazioni macroscopiche delle diverse strutture cerebrali sono
accompagnate da altre a livello cellulare e subcellulare. Nella corteccia
prefrontale dorsolaterale si è osservata la riduzione del numero di cellule negli
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strati III e IV, associata ad un diminuzione del numero dei neuroni NADPH-
diaforasi positivi, neuroni glutammatergici che esprimono i recettori di tipo
NMDA (Inglis et al., 1996), mentre è aumentata la densità delle cellule
GABAergiche, che, però, presentano una ridotta espressione dell’mRNA della
glutammato decarbossilasi (GAD), enzima necessario per la sintesi del GABA
(Akbarian et al., 1995). Nella corteccia cingolata si nota invece un aumento della
densità dei neuroni glutamatergici (Benes et al., 1992) ed in questi neuroni si è
dimostrato un’aumentata presenza di molecole come la sintassina, la proteina di
membrana NCAM (Neural Cell Adhesion Molecule) e del rapporto
NCAM/sinaptofisina, indicativo di una immaturità sinaptica (Honer et al., 1997).
Un’altra alterazione è la significativa riduzione nella quantità di fosfatidilcolina e
fosfatidiletanolamina nel tessuto cerebrale, accompagnata da una forte riduzione
degli acidi grassi poliinsaturi (PUFA) e degli acidi grassi saturi. La riduzione dei
PUFA è attribuita soprattutto alla riduzione dell’acido arachidonico e, in misura
minore, dei suoi precursori acido linoleico e acido eicosadienoico. Questi sono
lipidi presenti nelle membrane cellulari e la loro alterazione è considerata come
conseguenza di un danno ossidativo (Yao et al., 2000).
Le alterazioni coinvolgono anche la sostanza bianca. Le dimensioni e la
densità cellulare delle cellule gliali è ridotta nella corteccia prefrontale
dorsolaterale (Harrison et al., 1999). Anomalie analoghe si riscontrano nella
sostanza bianca della corteccia temporale (Foong et al., 2000).
Nel liquido cefalorachidiano si nota una riduzione dell’acido omovanillico,
metabolita della dopamina. Altri studi riferiscono alterazioni del glutammato e
dei suoi metaboliti. Si è visto ancora l’accumulo di monociti/macrofagi che
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coincide con gli attacchi psicotici acuti e che si normalizza dopo la terapia con
neurolettici (Nikkila et al., 1999). Inoltre, è stato descrito l’aumento di mRNA di
virus endogeni nel liquor cefalorachidiano (Yolken et al., 2000).
E’ infine interessante notare che le alterazioni del sistema nervoso si
possono associare a delle alterazioni sistemiche. Da più studi è stato confermato
un aumento della perossidazione lipidica (Mahadik et al., 2001) ed una
deplezione di PUFA e degli acidi grassi omega 3 nelle membrane dei globuli
rossi (Laugharne et al., 1996). Alterazioni analoghe si osservano anche sulle
piastrine. I fibroblasti cutanei a loro volta presentano un rallentamento del ritmo
di crescita “in vivo”, ridotto attecchimento e crescita “in vitro” (Mahadik et al.,
1991) e riduzione dell’acido docosaexanoico e degli acidi grassi omega 3 totali
nelle membrane, ma non dell’acido arachidonico (Mahadik et al., 1996). Infine, a
livello plasmatico si nota un aumento di alcuni enzimi antiossidanti anche prima
dell’inizio della terapia (Mukerjee et al., 1996; Herken et al., 2001).
D’altra parte ci sono evidenze di alterazioni a carico del sistema
immunitario. È stato osservato un aumento della concentrazione plasmatica di
alcune citochine e una riduzione di altre (Katila et al., 1994; Cazzullo et al.,
2001; Cazzullo et al., 2002; Kim et al., 1998). Inoltre è evidenziato un aumento
dell’attività dei Natural Killers. Paradossalmente, però, i linfociti “in vitro”
hanno una risposta ridotta alla fitoemoagglutinina (PHA), un stimolatore della
duplicazione cellulare (Sekoian et al., 1975). Alcuni studi sostengono
l’incremento di auto-anticorpi nei pazienti schizofrenici. Ma ci sono anche dati
che suggeriscono un meccanismo infettivo. Infatti esiste una significativa
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differenza di anticorpi verso il Bornavirus e della presenza del suo genoma nel
sangue degli schizofrenici rispetto ai controlli (Planz et al., 1998).
Analisi di microarray effettuate post-mortem sul cervello di pazienti
schizofrenici hanno evidenziato la diminuzione nel numero di trascritti
codificanti per proteine che regolano la funzione sinaptica (Mirnics, 2001).
Questi dati suggeriscono che un’alterazione nella trasmissione sinaptica durante
l’infanzia e l’adolescenza determina le condizioni per l’insorgenza della malattia
in età adulta.
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FATTORI COINVOLTI
NELLA PATOGENESI DELLA SCHIZOFRENIA
Studi epidemiologici hanno dimostrato che la schizofrenia, come molte
altre malattie psichiatriche, è una malattia complessa e che la sua insorgenza è
dovuta a una combinazione di fattori genetici e ambientali.
Fattori genetici
L’osservazione che soggetti appartenenti allo stesso albero genealogico di
un paziente schizofrenico presentano un aumentato rischio di essere affetti dalla
schizofrenia, ha evidenziato l’ereditarietà come una componente fondamentale
della eziopatogenesi di questa malattia. Infatti, mentre nella popolazione generale
la frequenza della malattia è all’incirca dell’1%, si è visto che: nei parenti di
primo grado di un soggetto schizofrenico è del 10-15%, scende al 4% nei parenti
di secondo grado e diventa del 2% per quelli di terzo grado (Moldin et al., 1998).
Se questi dati rilevano l’influenza della famiglia, non sono in grado da soli
di distinguere se è dovuta ad un fattore ereditario o ad un fattore psicologico o
comportamentale esistente nell’ambiente familiare. Infatti, negli anni di
predominio della visione psicoanalitica nella schizofrenia si pensava di più ad
una famiglia schizofreniogena che all’ereditarietà. Questa ipotesi, però, è stata
abbandonata dopo la dimostrazione che il rischio di essere affetti da schizofrenia
rimaneva agli stessi alti livelli per individui nati da madri biologiche
schizofreniche e adottati da famiglie negative per la schizofrenia. Questi dati
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identificano un fattore patogenetico fondamentale che si colloca temporalmente a
livello peri-natale o pre-natale, ma non sono comunque sufficienti a confermare
il ruolo dei geni, in quanto l’agente determinante potrebbe essere una noxa
esogena che agisce sul soggetto durante la vita intra-uterina o nel periodo peri-
natale. Considerando, però, che la concordanza tra gemelli monozigotici, dove
almeno uno dei due gemelli è schizofrenico, è circa del 50%, mentre tra i gemelli
dizigotici è del 17%, cioè simile a quella dei fratelli non gemelli, si può
affermare che l’ereditarietà assume un ruolo determinante nella genesi della
schizofrenia (Moldin et al., 1998).
Questi dati, pur dimostrando in maniera inconfutabile il ruolo svolto dai
fattori genetici, mostrano altrettanto chiaramente che la schizofrenia non segrega
come una malattia mendeliana semplice. Sebbene le modalità di trasmissione
della malattia non siano ancora state completamente chiarite, attualmente si
pensa che l’ereditarietà della schizofrenia sia meglio inquadrabile in un modello
poligenico, dove ciascun gene conferisce un certo grado di suscettibilità alla
malattia, o con un modello misto, con un gene maggiore di suscettibilità e altri
geni che contribuiscono in misura inferiore all’insorgenza della malattia. Si è
anche cercato di attribuire un peso relativo alle differenti componenti che
concorrono alla schizofrenia. Per il modello poligenico questi pesi sarebbero
distribuiti nella seguente maniera: l’insieme di geni contribuirebbe all’81.9%,
l’ambiente familiare al 6.9% e gli altri fattori ambientali casuali al 11.2%. Nel
modello misto, invece, le diverse componenti influenzerebbero nelle seguenti
proporzioni: il singolo locus maggiore partecipa per il 62.9%, l’insieme degli
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altri geni coinvolti per il 19.5%, l’ambiente familiare per il 6.6% e gli altri fattori
ambientali casuali per il 11% (Murray et al., 1985).
Fattori ambientali
Il ruolo della componente genetica risulta inconfutabile dagli studi sopra
descritti. Nel contempo questi studi indicano che la componente genetica non è
l’unico fattore responsabile nella patogenesi. Infatti, nei gemelli monozigotici,
caratterizzati da un patrimonio genetico identico, la concordanza fluttua attorno
al 50%. Non si può trascurare nemmeno il fatto che la prevalenza non si discosta
significativamente dall’1%, né tra popolazioni rurali e urbane, né tra le diverse
aree geografiche. Tuttavia nelle società più piccole e meno urbanizzate le forme
sono più attenuate e il deterioramento che contraddistingue la schizofrenia è
minore. In più la stessa istituzionalizzazione prolungata anche per tutta la vita dei
pazienti, praticata fino a tempi non molto lontani, e la conseguente riduzione di
stimoli sociali determinavano un quadro clinico peggiore. Si evidenzia, quindi,
come il coinvolgimento ambientale possa condizionare l’insorgenza e
l’andamento della patologia. Per individuare i fattori ambientali la ricerca si è
avvalsa dell’epidemiologia (Bromet et al., 1999).
Uno dei più consistenti dati epidemiologici è la relazione tra la classe
sociale, alla quale appartiene l’individuo, e il rischio di ammalarsi di
schizofrenia. Infatti, si è visto che il rischio è inversamente proporzionale alla
classe sociale. Nelle classi più basse il rischio è tre volte più alto rispetto a quelle
alte. Ci sono due ipotesi per spiegare questo fenomeno. La prima riguarda le
condizioni ambientali avverse che potrebbero influenzare l’esordio della malattia.
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La seconda ipotizza che la stessa malattia, ancora prima dell’esordio clinico,
provocherebbe una compromissione lavorativa e sociale tale da non permettere il
raggiungimento delle classi più alte.
La stagione di nascita di un soggetto potrebbe influenzare, seppure
debolmente, il rischio di insorgenza di schizofrenia. Alcuni studi hanno infatti
mostrato un aumento delle nascite di soggetti schizofrenici nei mesi invernali o
nei primi mesi di primavera dal 5 al 15% in più rispetto ai rimanenti mesi
dell’anno. Questa associazione è più forte nei pazienti con familiarità negativa e
nelle donne. È difficile, però, risalire alle cause di questo dato, perché il fattore
“stagione” include variabili come le infezioni virali, la dieta ed altri fattori che
possono influire sullo sviluppo fetale.
Un altro fattore ambientale che potrebbe condizionare l’insorgenza della
schizofrenia sono le complicanze durante la gestazione e nel periodo perinatale.
Studi epidemiologici affermano che il rischio di sviluppare la malattia è superiore
nei soggetti che sono andati incontro a danno cerebrale prenatale, a infezione
influenzale prenatale e ad ipossia durante il parto.
Una variabile che condiziona il decorso della schizofrenia è il genere.
Infatti i maschi tendono a manifestare i primi sintomi più precocemente e
presentano un quadro clinico peggiore. Tuttavia il rischio di sviluppare la
malattia nell’intero arco della vita è uguale per entrambi i sessi.
Infine, esistono alcuni fattori che potrebbero condizionare il rischio di
sviluppare la schizofrenia, ma hanno probabilità inferiore di essere coinvolte
rispetto ai fattori precedenti. Un rischio superiore di ammalarsi è stato riportato
per i soggetti che abusano di cannabis. In realtà, però, non è chiaro se questo
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comportamento debba essere incluso tra le concause o tra le conseguenze della
patologia.
Un altro fattore che potrebbe essere coinvolto è lo stress, sia subito
direttamente che indirettamente, durante la gravidanza. L’esposizione a fattori
stressanti ambientali comporterebbe una prognosi peggiore, ma sembra non
influire sull’insorgenza della malattia. L’esposizione della madre durante la
gravidanza a situazioni stressanti come possibile fattore di rischio è suggerito da
due studi, secondo i quali i soggetti che si trovavano in utero, nel primo semestre
di gravidanza, durante periodi di guerra, hanno mostrato maggiore rischio di
ammalarsi. L’interpretazione di questi dati, però, è complicata, perché a questo
fattore sottostanno variabili come alterazioni endocrinologiche della madre,
scarse condizioni igieniche e parto pretermine (Bromet et al., 1999).
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