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CAPITOLO I
La vedova scaltra tra due riforme.
1.1 La riforma del teatro secondo Goldoni
Il contesto teatrale in cui si colloca l’operato di Goldoni è quello della
commedia dell'arte, un nuovo tipo di spettacolo che si sviluppò in Italia
intorno alla metà del XVI secolo, ottenne un successo strepitoso e dilagò
nel secolo successivo in tutta Europa per poi esaurirsi verso la fine del
'700.
14
L’originario nome di tale spettacolo era "commedia dell'improvviso" a
causa della sua caratteristica principale costituita dall'improvvisazione.
I "comici dell'arte" improvvisavano le loro battute sulla base di un
semplice scenario o canovaccio nel quale veniva esposto (in forma
narrativa) il contenuto di ogni atto; gli attori dovevano quindi costruire lo
spettacolo direttamente sul palcoscenico, trasformando le didascalie del
copione in dialoghi o monologhi.
14 Norbert Jonard, op. cit. p. 76.
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In realtà parlare d'improvvisazione in questo tipo di spettacolo teatrale
non deve far pensare ad una mancanza totale di metodo o di
preparazione da parte degli attori.
La loro spontaneità era il frutto di un lungo impegno di studio finalizzato
alla creazione di un vasto repertorio di battute, entrate, uscite, lamenti,
dichiarazioni da utilizzare al momento opportuno, coordinando i propri
interventi con quelli di tutti gli altri attori presenti sulla scena.
Una compagnia ben collaudata poteva allestire, in poco tempo, numerose
commedie, utilizzando le stesse maschere e limitandosi ad introdurre
qualche variante nella trama.
Il pubblico, d'altra parte, era contento di rivedere i propri personaggi
preferiti alle prese con situazioni diverse, esattamente come accade oggi
per alcuni noti personaggi del cinema e della televisione.
In linea con il grande rinnovamento che attraversò la società italiana del
Settecento, impegnata nell'assimilare le esigenze razionalistiche ed
illuministiche (tenendo sempre presente il riferimento dell’equilibrio
classico), Goldoni voleva ridare “verosimiglianza”, “naturalezza” e
“buon gusto” alla commedia e dignità artistica al testo, sottraendolo
all’improvvisazione degli attori e mettendolo totalmente per iscritto.
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Tuttavia, per andare a buon fine, questa "riforma" doveva essere
prudente nei tempi e nei modi: pertanto, Goldoni non “attaccò” la
Commedia dell’Arte ma lavorò gradualmente dentro di essa
sconvolgendola.
Egli salvò alcune maschere, ma espunse le buffonate e gli intrecci
assurdi; accettò il ritmo brioso e la vivacità delle trovate ma, allo stesso
tempo, propose intrecci naturali, “veri”, presi dal mondo.
Goldoni amava dire che "il teatro è il mondo ed il mondo è teatro" e,
perciò, metteva in scena commedie con personaggi che il pubblico
avrebbe potuto normalmente incontrare nella vita quotidiana (pescatori,
bottegai, piccoli borghesi e nobili decaduti, chiacchieroni e taciturni,
donne perbene e cortigiane).
I suoi lavori, sia che ritraessero caratteri sia che descrivessero ambienti,
si articolavano in scene molto naturali, realistiche, senza grandi conflitti,
senza grandi vizi o grandi virtù.
Goldoni aveva già assimilato le idee illuministe, ma non usò mai i propri
personaggi per propagandarle, focalizzando la propria attenzione sulla
loro comune umanità. Si intuisce che è dalla parte del "nuovo" ed, a
volte, basta lo svolgimento dell'azione ad esprimere la sua posizione:
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Se ancora oggi si parla tanto della riforma di Goldoni, è non solo perchè
Goldoni stesso ne fu con legittimo sentimento di fierezza il primo
propagandista nelle sue prefazioni e nei Mémoires, ma perchè la riforma
giunse in porto. Il termine, a dire il vero, ha dato luogo a parecchi
malintesi ai quali egli non fu del tutto estraneo. Senza arrivare a dire,
come alcuni critici, che non fu altro se non un mito polemico, ci si può
domandare se la parola sia la più appropriata, giacchè essa dà a intendere
che si trattò di ristabilire nella sua forma primitiva, o di ricondurre a una
forma migliore, un tipo di commedia che si supponeva compiuto,
degenerato nel corso dei secoli. In tealtà, secondo Jonard
15
, dalle
commedie del Rinascimento in avanti, erudite o popolari che fossero, la
commedia italiana aveva finito per identificarsi con la commedia
dell'arte. A differenza della commedia umanista, che aveva avuto
l'ambizione di resuscitare il teatro antico, essa era uscita dalle sale
principesche e dalle dotte accademie per guadagnare un pubblico più
vasto che si accalcava ad applaudire le pagliacciate degli zanni.
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Questa fu la sua forza ed al tempo stesso la sua debolezza, visto che non
si può piacere impunemente a chiunque. Quando si blandisce il pubblico,
15 Norbert Jonard, op. cit. p. 88.
16 Norbert Jonard, op. cit., p. 42.
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ci si rivolge alla sua parte migliore. In ogni modo, le cause della
decadenza della commedia dell'arte sono molteplici, diverse, variabili nel
tempo e nello spazio, in altre parole, relative, in quanto per apprezzare la
commedia dell'arte disponiamo solo di sondaggi d'opinione effettuati per
la maggior parte su un campionario di letterati poco portati
all'indulgenza verso questo genere di spettacolo, che rimaneva innanzi
tutto un teatro popolare quando non addirittura plebeo.
Sembra tuttavia che nella prima metà del XVIII secolo, al momento in
cui Goldoni si sentì attratto dalla carriera teatrale, la commedia dell'arte
fosse alla ricerca di una seconda vita, anche se la testimonianza che egli
ne dà è viziata dalla parzialità:
Non correvano sulle pubbliche scene se non sconce Arlecchinate, laidi e
scandalosi amoreggiamenti e motteggi; favole mal inventate, e peggio condotte,
senza costume, senza ordine, le quali, anzichè correggere il vizio, come pur è il
primario, antico e più nobile oggetto della Commedia, lo fomentavano, e
riscuotendo le risa dalla ignorante plebe, dalla gioventù scapestrata e dalle genti
più scostumate, noia poi facevano ed ira alle persone dotte e dabbene [...].
17
Evidentemente Goldoni tira l'acqua al suo mulino, dato che la commedia
dell'arte non ha mai avuto la pretesa di essere una scuola di buone
17 Cit. in Ibidem, p. 50.
14
maniere. Solo che la situazione si era notevolmente degradata, tanto
numerosi erano i rimproveri di immoralità che le venivano indirizzati.
L'attore comico, mirando basso, sapeva di mirare giusto. Così, sia per
mancanza di spirito, sia per mancanza di ispirazione, attingeva a piene
mani al repertorio dei lazzi a volte grossolani e osceni. Perciò il
problema era come ricondurre a una maggiore decenza un teatro che
sempre più spesso faceva affidamento sulla comicità triviale.
Non bisognerebbe tuttavia dimenticare che, anche moralizzata, la
commedia dell'arte sarebbe sempre rimasta una forma teatrale fondata
sull'improvvisazione, sia pur parziale, senza altra esistenza che la vita
effimera di una rappresentazione. Ora, -commenta Jonard
18
- quando uno
ha come Goldoni, una vocazione d'autore comico tale da non esitare, pur
nella riprovazione generale, ad abbandonare una onorevole carriera di
avvocato, non ci si può accontentare di voler riformare la commedia
dell'arte scrivendo delle opere più decenti o meglio strutturate. Per uscire
dall'anonimato che era la sorte comune a tutti i poeti di teatro, egli
doveva diventare un vero e proprio creatore e non riformatore di una
commedia inesistente.
18 Op. cit., p. 44.
15
Solo la commedia dell'arte raggiungeva gli spettatori di tutti i ceti sociali.
Così, non sorprende se i principali tentativi intrapresi per porre fine alla
crisi dell'arte drammatica scaturissero da questa forma di commedia.
Quel che è certo in ogni caso è che a Venezia i rapporti fra la nobiltà e la
borghesia si iscrivevano in un contesto assai diverso da quello vigente
altrove, se non altro perchè non esistevano corporazioni o gilde di
negozianti opposte al potere e da esso indipendenti. L'uguaglianza fra le
due categorie non si manifestava solo esteriormente con il vestire allo
stesso modo, ma con la fiscalità.
Preso da una duplice esigenza, quella di adempiere scrupolosamente agli
obblighi stabiliti dal contratto che lo vincolava all'impresario, e quella di
soddisfare i gusti, talvolta contraddittori, di un pubblico composito,
Goldoni fu costretto a destreggiarsi: "La necessità di far molte commedie
in un anno mi obbliga a variare nella maniera di scrivere. Così a chi una
non piace, l'altra soddisfa meglio".
19
Da qui una riforma frastagliata, la
cui logica appare difficile da seguire se ci si pone in un'ottica
strettamente ideologica. Per contro, considerando che Goldoni aveva a
che fare con dei professionisti dell'improvvisazione, si comprenderà più
19 C.Goldoni, prefazione ai Puntigli domestici. Cit. In Jonard, op. cit.
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agevolmente la dipendenza nella quale si trovava rispetto alla compagnia
di cui disponeva.
In effetti, dovendo credere al Teatro comico, sembra che gli attori fossero
poco disposti ad imparare un testo a memoria: "Un povero commediante
– si lamenta di Pantalone Tonino – che ha fatto el so studio segondo
l'arte, e che ha fatto l'uso de dir all'improvviso ben o mal quel che vien,
trovandose in necessità de studiar e de dover dir el premedità, se el gh'ha
reputazion, bisogna che el ghe pensa, bisogna che el se sfadiga a studiar,
e che el trema sempre, ogni volta che se fa una nova commedia,
dubitando o de non saverla quanto basta, o de no sostegnir el carattere
como xe necessario" (I,45).
La pigrizia non era la sola causa, essendo in gioco anche la fama che
l'attore poteva aver acquisito abbandonandosi alla foga della propria
immaginazione. Entro i limiti imposti dalle convenzioni del genere, egli
era a suo modo un autentico creatore. V olergli imporre un testo,
significava non soltanto imbrigliarne la fantasia, ma obbligarlo a
rispettare una disciplina che avrebbe finito per distruggere la stessa
commedia all'improvviso.
D'altra parte, se il portare la maschera contribuiva ad irrigidire il
17
carattere, ciò favoriva anche l'identificazione della persona con il
personaggio. Jacques Copeau scrive: "L'attore che recita sotto la
maschera riceve da questo oggetto di cartone la realtà del proprio
personaggio. Egli è da lei comandato ed a lei obbedisce irresistibilmente.
Appena la indossa, egli sente fluire in sé un'esistenza di cui era vuoto,
che neanche sospettava. Non è solo il suo invito a esserne modificato,
ma tutta la sua persona".
20
La pertinenza dell'osservazione è avvalorata
da Goldoni che ci spiega che la commedia cadde a causa del Pantalone
Francesco Rubini, attore eccellente ma che senza la maschera fu
pessimo: "Avvezzo sempre a recitar colla maschera, e all'improvviso, si
trovò talmente imbarazzato e confuso che parea un principiante, e in
luogo di animare le cose, come era solito, le faceva miseramente
languire".
21
A viso scoperto, egli si rivelò inferiore alle aspettative, non
riuscendo più a provare ed a fingere i sentimenti che la maschera gli
dettava.
Sopprimere la maschera significava mettere in scena individui nei quali
gli spettatori potessero riconoscersi, ponendo così fine a
quell'opposizione puramente dinamica di forze elementari che
20 J. Copeau, Réflexion d'un comédien sur le Paradoxe de Diderot. Cit. In Ibidem.
21 C. Goldoni, prefazione al Vecchio bizzarro. Cit. In Ibidem.
18
caratterizzava la commedia dell'arte, i cui tipi altro non erano che
astrazioni comiche.
22
La riforma goldoniana fu, a detta di Jonard
23
, il risultato di un'evoluzione
e non di una rivoluzione, perchè Goldoni non partì dalla società per
giungere al teatro, ma dal teatro alla volta della società, minando
dall'interno la commedia a soggetto. In altre parole, ferme restando le
condizioni nelle quali egli si trovò a lavorare, la sua visione della realtà
fu, già dall'inizio, mediata dal gioco delle maschere.
Nella prefazione al tomo XI dell'edizione Pasquali, Goldoni infatti ci
confida che le opere da lui composte sono sempre state scritte per
persone conosciute "col carattere sotto gli occhi di quegli Attori che
dovevano rappresentarle". In quanto uomo del mestiere, sapeva bene che
il successo dipende tanto dagli attori quanto dalla commedia. La riforma,
dunque, presupponeva non soltanto la collaborazione attiva fra autore ed
attore, ma una visione teatrale dell'opera che comprendesse, nello stesso
tempo, messa in scena ed interpreti, dei quali l'autore doveva conoscere
le peculiarità, la fisionomia, la voce, in breve tutta la gamma delle loro
possibilità. Nella già citata prefazione al tomo XI dell'edizione Pasquali,
22 Norbert Jonard, op. cit., p. 100.
23 Ibidem.
19
Goldoni lo dice chiaramente: "Trovato l'argomento di una Commedia,
non disegnava da prima i Personaggi, per poi cercare gli Attori, ma
cominciava a esaminare gli Attori, per poscia immaginare i caratteri
degli Interlocutori".
Ora, riflettendo sulle conoscenze che ho acquisito sul teatro spagnolo nel
corso delle mie letture, mi sembra di dedurre che questo pensiero non si
discosta molto dall’atteggiamento con cui molti autori teatrali spagnoli, i
migliori, sia del “Siglo de Oro” che del Settecento, in primis Leandro
Fernández de Moratín, si accostarono alla commedia, adattando le
situazioni drammaturgiche alle caratteristiche personali degli attori che
avrebbero rivestito un determinato ruolo, il che spesso fu causa di grandi
conflitti tra drammaturgo e attori che si rifiutavano di accettare detto
ruolo.
Questo principio si rilevò essenziale, in quanto, se gli attori accettavano,
volenti o nolenti, di imparare un testo, essi rifiutavano però
ostinatamente di abbandonare un ruolo che di solito conservavano per
tutta la vita: "Quando il premeditato è prezioso e brillante – fa dire
Goldoni ad orazio nel Teatro comico – e bene adattato al carattere del
20
personaggio che deve dirlo, ogni buona maschera volentieri lo impara".
24
Lo spettatore crede così che l'attore sia fatto per il personaggio mentre è
vero il contrario. Di tale pratica era evidente il vantaggio, ma in egual
misura lo svantaggio, perchè così si ipotecava la libertà della creazione
artistica.
Goldoni quindi non poteva accontentarsi di rivitalizzare la commedia
dell'arte umanizzando gli zanni ed i loro padroni. Bisognava farli acceder
ad un'esistenza autonoma, non più eterna ma contingente, cioè
finalmente storica, integrando allo spettacolo una visione del mondo che
andava ben al di là dello spettacolo stesso. La riforma quindi non si
compì se non quando la commedia non cessò di essere un divertimento
gratuito in margine al reale per radicarsi nella città con lo scopo
dichiarato di riflettere una pratica sociale.
1.2 La riforma del teatro in Spagna.
A partire dagli anni trenta del Settecento in Spagna si fece avanti una
vena riformistica che persistette per tutto il secolo, e che si prefisse di
24 C. Goldoni, Teatro comico, (II,10).
21
dare un nuovo assetto al paese per evitare che il tradizionalismo e il
nazionalismo in cui era confinato la emarginassero dal resto d’Europa.
Tale movimento culturale, conosciuto in Spagna con il nome di
“Ilustración”, e diffuso anche in altre nazioni d’Europa come
l’Inghilterra, la Francia o l’Italia, in suolo spagnolo raggiunse l’apice del
suo sviluppo durante il regno di Carlo III di Borbone e, sotto l’aspetto
politico, prese il nome di “Dispotismo Ilustrado”
25
.
Il re, che governò dal 1759 al 1788, si fece aiutare nell’amministrazione
del paese da una cerchia di uomini politici e di cultura che avevano una
profonda fiducia nel progresso, che cercarono di mettere in pratica con
un’azione riformatrice. Tra queste figure ricordiamo il conte di Aranda,
Campomanes e Floridablanca: insieme operarono per rinnovare il paese
attraverso delle riforme nel settore militare, economico e sociale.
Verso la fine del regno di Carlo III e poi definitivamente con il regno di
Carlo IV (1788-1808), che ebbe dei consiglieri tutt’altro che innovativi,
la spinta riformatrice andò scemando fino a scomparire.
La vena riformistica che interessò la Spagna nel Settecento non si limitò
25 Benigno F., L’età moderna (dalla scoperta dell’America alla Restaurazione),
Bari, Laterza, 2005, pp. 290-294; Checa Beltrán J.,“La teoría teatral neoclásica” in
J. Huerta Calvo, Historia del teatro español, V ol. II, Madrid, Gredos, 2003, pp
1519-1521.
22
al solo ambito politico, ma toccò tutte le arti, incluso il teatro, che ancora
nel XVIII secolo era l’intrattenimento pubblico preferito, nonostante la
Chiesa continuasse a ribadire il suo presunto carattere licenzioso. Questo
atteggiamento insofferente da parte della Chiesa si portò avanti per tutto
il secolo e si concretizzò in veri e propri atti organizzati dai religiosi
stessi per ostacolare le rappresentazioni teatrali attraverso parole
intimidatorie mirate a convincere il pubblico a non recarsi agli
spettacoli.
26
Non mancarono neanche i religiosi che andarono oltre
questa disapprovazione di tipo teorico, mettendo addirittura per iscritto il
loro disappunto nei confronti del teatro in quanto fonte di peccato e
chiedendo alle istituzioni la sua chiusura, come fece il prete cappuccino
Fray Diego de Cádiz nella sua serie di Cartas.
27
I riformisti neoclassici del XVIII secolo, invece, non criticavano il teatro
in sé, bensì lo stato decadente in cui era giunto nel secolo precedente, per
questo si proposero di rinnovarlo. La loro opinione al riguardo, infatti,
era più che positiva: consideravano il teatro un ottimo mezzo da sfruttare
26 Cfr. Domínguez Ortiz A., La batalla del teatro en el reinado de Carlos III (I), edición digital a
partir de Anales de Literatura Española, núm. 2 (1983), Alicante, Universidad, Departamento de
Literatura Española. (www.cervantesvirtual.com).
27 Palacios Fernández E., “El teatro en el siglo XVIII (hasta 1808)”, in Díez Borque
J. M. (ed.), Historia del teatro en España, Tomo II, Madrid, Taurus, 1988, cap. II,
p. 191.
23
per diffondere i principi neoclassici ed educare il pubblico, formato in
gran parte da illetterati, attraverso la riforma dello stesso.
I neoclassicisti si rifacevano a una serie di canoni, contrastanti con quelli
barocchi, che nel loro insieme costituivano la cosiddetta ideologia
neoclassica. In primo luogo, essi progettavano qualsiasi opera letteraria
in funzione di un ideale di bellezza raggiunto attraverso la perfezione e
l’unità all’interno della stessa; per arrivare a tale perfezione, non
bisognava fare affidamento sull’“ingenio”, com’erano soliti fare gli
autori barocchi, ma ad un sapere profondo, a cui si ricollegava il gran
valore che riponevano nello studio e nell’apprendimento; allo stile
barocco, pomposo, esagerato e ricco di figure retoriche,
contrapponevano un linguaggio basato sulla “claridad, sobriedad,
naturalidad y elegancia”
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dei concetti, mettendo a primo posto il
contenuto sulla forma. Questo contenuto avrebbe dovuto rispettare il
principio di “imitación”, riflettendo in maniera più naturale possibile la
realtà in tutti i suoi aspetti, sia fisici che ideologici ed umani, in modo da
rispettare il principio di verosimiglianza. Per ultimo, ma non meno
importante, l’opera avrebbe dovuto avere un fine didattico-
28 Checa Beltrán J., “La teoría teatral…” in Javier Huerta Calvo, op.cit, pag. 1525.