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Nel terzo capitolo sono esposti i modelli della comunicazione e della
collaborazione influenzati dalla comparsa del computer e viene inquadrato il
passaggio del computer da “cognitive tool” (strumento cognitivo) a “social tool”
(strumento sociale) (Mantovani, 2000). Infine viene descritto il modello che sta
alla base del nostro studio: il significato condiviso, la sua costruzione e
negoziazione in ambito comunicativo e collaborativo.
Il quarto capitolo è interamente dedicato alla descrizione del setting
sperimentale, dai dispositivi input-output alla tecnica del video spilt-screen.
Viene spiegata la metodologia di ricerca, l’arrivo in laboratorio dei partecipanti e
la loro immersione nell’ambiente condiviso e viene definito il metodo di analisi
qualitativa utilizzata: le video-registrazioni e l’analisi dei video.
Nel quinto capitolo vengono presentati i risultati dalla descrizione delle
interazioni cooperative a quelle comunicative e le categorie estrapolate dai
protocolli verbali analizzati.
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CAPITOLO 1
LA REALTÀ VIRTUALE
1. 1. LA STORIA DELLA REALTÀ VIRTUALE
Non è facile datare l’inizio del fenomeno “Realtà Virtuale” (Virtual Reality o
VR) nel tempo come è avvenuto per altre invenzioni tecnologiche. La realtà
virtuale, infatti, è un insieme di più invenzioni nel campo della cibernetica.
La prima intuizione, sembra strano a dirsi, la ebbe un produttore
cinematografico, Morton Heilig, che nei primi anni ’60 creò un dispositivo
virtuale, il Sensorama Simulator. Questo prototipo era composto da un video tri-
dimensionale (3D), da un apparecchiatura per il suono stereofonico, da
ventilatori che simulavano il vento e da alcuni diffusori che disperdevano odori.
Questo simulatore utilizzava quattro dei cinque sensi dell’uomo per rappresentare
dei filmati, ad esempio, che simulavano una corsa in motocicletta con la
sensazione di vento o filmati che riproducevano altre situazioni reali e le
caratteristiche sensoriali in queste rappresentate (Tate, 1996).
Le simulazioni del Sensorama erano ancora ‘grezze’ e limitate, e solo alla
fine degli anni ’60 inizi anni ’70 Ivan Sutherland, considerato negli Stati Uniti il
padre della computer grafica, ideò in collaborazione con la sua equipe del
Massachusetts Institute of Tecnology, il primo caschetto immersivo (Head
Mounted Display, HMD). Questo dispositivo era composto sia da schermi
catodici posizionati ai lati del casco che, tramite un gioco di specchi, facevano in
modo che l’immagine si riflettesse verso gli occhi dell’utilizzatore sia da un
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tracciatore o tracker che abbinava i movimenti dell’immagine a quelli della testa
(Jolivat, 1999).
L’interesse per questo settore esplose tanto rapidamente da portare la NASA
(National Aeronautics and Space Administration) ad incoraggiare le ricerche di
Sutherland allo scopo di ottenere uno strumento per simulare le condizioni di
attività nello spazio.
Le prime applicazioni della VR risalgono tuttavia alla fine degli anni ’70,
quando le industrie militari e non solo ricorsero a tale strumento per replicare
ambienti di lavoro altamente interattivi come i simulatori di volo (virtual
cockpits) e altri tipi di stazioni di lavoro (virtual workstation).
Con il passare del tempo si sviluppò un filone di studi e ricerche che ebbe
come fulcro del lavoro lo sviluppo di un’interfaccia tra operatore e computer non
più circoscritta a tastiera e schermo.
La prima esperienza in questo settore ha la firma di Myron Krueger che
sviluppò la “Realtà Artificiale” (AR). Questa tecnologia ha come fine il
consentire “una partecipazione di tutto il corpo ad eventi simulati dal computer
così efficacemente da costringere le persone ad accettarli come esperienze reali”
(Krueger, 1991).
In seguito, a metà degli anni ’80, ha origine la cosiddetta prospettiva cyber.
Nel 1984 William Gibson nel suo romanzo di fantascienza Neuromancer crea e
adotta per la prima volta la parola ‘cyberspazio’. Il termine indica l’universo
delle reti digitali da lui descritto come campo di battaglia tra multinazionali.
(Gibson, 1984). Il termine viene immediatamente ripreso dagli utenti e dai
progettisti di reti digitali.
Sempre in questi anni Thomas Zimmerman (fine anni ’70) inventa e brevetta
un guanto dotato di sensori a fibre ottiche, il così detto “Dataglove”, che rileva il
movimento della mano e lo riproduce all’interno dell’ambiente virtuale.
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L’incontro con Jaron Lanier, uno dei padri della Realtà Virtuale, fece sì che
quest’invenzione potesse essere ulteriormente perfezionata. Al guanto venne
abbinato il casco per visione stereoscopica (Eyephone) e una particolare tuta
(Datasuit) in grado di riprodurre in tempi reali i movimenti corporei; così
facendo il cybercorredo classico per la navigazione in un ambiente virtuale viene
completato (Jolivat, 1999).
Con l’aiuto degli ultimi sviluppi tecnologici si arriva a poter ricostruire una
realtà simulata non più solamente mediata da uno schermo, ma costruita da
ambienti virtuali tridimensionali con cui l’uomo può interagire proficuamente
grazie agli strumenti sopra descritti.
Secondo la letteratura esistono oggi differenti tipi di realtà virtuale che si
distinguono a seconda del grado di immersione e di coinvolgimento.
La realtà virtuale su desktop (Desktop Virtual Reality) è la forma più comune
e più economica. L’ ambiente virtuale è simulato su un monitor tradizionale che
riproduce le immagini tridimensionali, ma in questo modo la sensazione di
coinvolgimento appare debole perché l’utente non è “isolato” dal mondo reale.
Con la realtà virtuale immersiva (Immersive Virtual Reality) si ha una
completa immersione in un ambiente virtuale che è caratterizzata dal fatto che
l’utente indossa speciali strumenti come i dataglove, l’head mounted display
(HMD) e i tracker. È grazie a questi strumenti che l’utente è immerso
completamente nel mondo virtuale. Questa forma crea una forte sensazione di
immersione perché l’ambiente virtuale è esplorabile visivamente ed in più tale
sensazione è aumentata dal fatto che vi è la possibilità di interagire con gli
oggetti raffigurati nell’ambiente.
Nei primi anni ’90 viene inventato un nuova tipologia di Realtà Virtuale, il
CAVE (Cave Audio Visual Environment). Questa forma di realtà virtuale è un
nuovo tipo di sistema dal punto di vista dell’ hardware. Le immagini vengono
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proiettate da dei videoproiettori, che ricevono i segnali video dalle workstations,
posti sulle tre pareti e sul pavimento del CAVE, usati come grandi schermi.
L’utilizzatore munito di leggerissimi occhialini si trova all’interno di questa
‘stanza’ ed è circondato dall’ambiente virtuale dove le immagini si muovono con
l’osservatore (Riva e Galimberti, 1997b).
Una delle ultime invenzioni è la Realtà Aumentata (Augmented Reality).
Questa è simile a quella immersiva, ma l’utente in questo caso continua ad avere
la percezione dell’ambiente reale. Infatti, l’utente interagisce in un ambiente
reale, ma vede simultaneamente un ambiente virtuale che lo aiuta
nell’interazione. Le immagini generate dal computer aumentano il contenuto
informativo del normale campo visivo del soggetto, non sostituiscono le
immagini reali come invece succede nell’immersione completa.
Dopo aver delineato a grandi linee la storia di questa nuova tecnologia è
importante specificarne i concetti che la rendono uno dei più importanti sogni
diventati realtà della storia.
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1.2. LA DEFINIZIONE DI ‘REALTÀ VIRTUALE’
La Realtà Virtuale (Rv o Virtual Reality,VR) è una tecnologia recente che
prevede l’uso di computer potenti e sofisticati che consentono un’interazione a
più livelli tra il soggetto agente e l’ambiente simulato.
Prima di parlare di Realtà Virtuale in termini di applicazioni e dispositivi
hardware e software o di presenza e immersione bisogna specificarne il
significato intrinseco racchiuso nelle parole che usiamo per definirla.
Levy in Cybercultura (1997) si sofferma su questo concetto. Secondo l’autore
la parola virtuale può essere intesa in diversi sensi: in senso filosofico, in senso
corrente e in senso puramente tecnico. Secondo la filosofia, nell’espressione
Realtà Virtuale esiste un’ambivalenza iniziale proprio nel significato stesso delle
parole. Da una parte, il ‘virtuale’ è qualcosa di ‘potenziale’, che è possibile ma
non esiste ancora, dall’altra il ‘reale’, invece, è ciò che è già in atto, che è
oggettivo e si basa su un fatto compiuto. Il virtuale, in senso filosofico, è una
dimensione della realtà, non il suo opposto. Secondo lo studioso, infatti,
l’opposto di virtuale è attuale non reale (Levy, 1997). Secondo l’autore nell’uso
corrente la parola ‘virtuale’ viene spesso associata al significato di irreale dando
così l’impressione di trovarci davanti ad un vero gioco di parole in quanto una
cosa può essere o reale o irreale (virtuale), non può avere entrambe queste
qualità. In questo caso l’abbinamento di ‘reale’ e ‘virtuale’ sembrerebbe
inammissibile per il fatto che le due parole hanno significati diametralmente
opposti. In senso tecnico la realtà virtuale è sempre stata considerata come un
mezzo ed è sempre stata studiata sotto il profilo puramente tecnologico (ibidem).
Questo fenomeno si riduce, quindi, semplicemente al possesso di sofisticati
macchinari. Le definizioni ‘tecnologiche’ più diffuse fanno sempre riferimento
ad un computer capace di una simulazione grafica tridimensionale in tempo
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reale, controllato da strumenti quali guanti tattili (Dataglove), da un cursore di
posizione (tracker) e da un casco stereoscopico per la visualizzazione (Head
Mounted Display o HMD). Greenbaum (1992) vede la realtà virtuale come “un
mondo alternativo caratterizzato da immagini generate da un computer che
rispondono a movimenti umani. Questi ambienti simulati vengono solitamente
visitati grazie ad una costosa tuta e da occhialini stereoscopici e guanti tattili”.
Anche autori come Biocca (1992a) e Balboni (1995) fanno riferimento alla
realtà virtuale dichiarando che lo sviluppo delle tecnologie informatiche e della
comunicazione ha come obiettivo il tentativo di far accettare al sistema
percettivo-cognitivo umano un’illusione generata dal computer, come fosse reale.
L’espressione Realtà Virtuale fu proposta nel 1989 da Jaron Lainer,
fondatore, ricercatore e presidente del consiglio di amministrazione, della VPL,
una delle più importanti case costruttrici americane di tecnologia VR.
Anche se Lanier viene considerato il padre della realtà virtuale, altri studiosi
come Krueger o Gibson, avevano già fatto riferimento ad ambienti simulati per
definire il fenomeno che stava prendendo piede. Infatti, Krueger definisce la
Realtà Artificiale come una tecnologia finalizzata a consentire “una
partecipazione di tutto il corpo ad eventi simulati dal computer così
efficacemente da costringere le persone ad accettarli come esperienze reali”
(Krueger, 1991,p.XIII). Il termine “cyber”, invece, fa la sua effettiva comparsa
nel famoso romanzo di Gibson, Neuromancer (1984), anche se già, nel 1982, nel
suo precedente libro Burning Chrome, l’autore aveva già menzionato la parola
che ha influenzato e tuttora influenza correnti letterarie, musicali, artistiche. Il
termine “cyber” viene applicato immediatamente alla realtà virtuale ed in
particolare a quelle applicazioni che si basano su scambi di dati tra siti lontani.
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Come si può dedurre dalle righe precedenti, il termine realtà virtuale si
riferisce ad un’ampia mole di progetti e di applicazioni che vanno dalla realtà
artificiale, interessata alla creazione di realtà sintetiche, fino all’approccio cyber,
che guarda alla comunicazione e punta al superamento dei limiti corporei
(Mantovani, 1995a).
Fin qui abbiamo delineato la storia della definizione della realtà virtuale,
senza però tener conto di alcuni concetti importanti come presenza (presence) e
immersione (immersion), che ci aiuteranno a osservare questo concetto sotto un
profilo diverso.
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1.3. PRESENZA E IMMERSIONE
Per definire quindi la realtà virtuale in termini di esperienza umana, abbiamo
già detto, bisogna introdurre il concetto di presenza.
Nel 1986 J.J. Gibson quando dell’esperienza del proprio ambiente fisico si
riferisce a come l’ambiente viene percepito e mediato dai processi mentali. Per
presenza quindi si intende “il senso di essere in un ambiente” (Steuer, 1992).
Slater et. al. (1995, 1996) definiscono la presenza come uno stato di
consapevolezza, come il senso (psicologico) di essere in un ambiente virtuale
(virtual environment). Sempre Slater e colleghi (1996) classificano la presenza in
presenza personale (personal presence) e co-presenza (co-presence). La presenza
personale è collegata al senso soggettivo di noi stessi di essere lì, in un ambiente
virtuale; la co-presenza, invece, è spiegata come il senso che altri partecipanti
siano presenti con noi in un ambiente virtuale. La co-presenza viene chiamata da
questi autori anche come presenza condivisa o shared presence (Casanueva,
1999).
Biocca (1997), invece, parla di un continuum, quello del tempo, per definire
la presenza. Egli considera che il livello di presenza provato dipenda dal tempo
che il soggetto è presente all’interno dell’ambiente virtuale.
Altri autori, come Zahoric e Jenison (1998), utilizzano il concetto di azione
per definire la presenza. Dichiarano, infatti, che il grado di presenza, che un
ambiente virtuale può fornire, è relato alla possibilità di agire all’interno di tale
mondo; maggiore è la possibilità di azione, maggiore sarà il grado di presenza.
Mantovani e Riva (1999) propongono un approccio culturale del concetto di
presenza. Secondo questi autori si prova presenza in un ambiente sia esso reale o
virtuale quando gli individui possono percepire se stessi, gli oggetti e le altre
persone non solo come situate in uno spazio esterno ma anche come immerse in
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una rete socioculturale nella quale ‘sono collegati’ oggetti, persone e le loro
interazioni. Essi assumono l’esistenza di un mondo di artefatti sia fisici (ad
esempio le componenti fisiche di una rete di computer) che concettuali (ad
esempio le norme sociali che stanno alla base di un utilizzo organizzativo della
rete di computer) che mediano tra gli attori e tra questi e gli oggetti creando una
possibile comunicazione e cooperazione. Gli ambienti reali e virtuali sono
considerati spazi pubblici nei quali si sviluppa una interazione sociale mediata da
artefatti. Secondo gli autori, gli attori che si muovono in un ambiente virtuale
sono consapevoli del fatto che stanno interagendo con un ambiente sintetico e
l’artificialità di questo gli è perfettamente chiara prima, durante e dopo
l’esperienza. Propongono un concetto culturale di presenza come una costruzione
sociale (Mantovani e Riva, 1999). Concetti basilari di questo approccio sono che
la “realtà” non è lì fuori nel mondo, ma è co-costruita in una relazione tra gli
attori e i loro ambienti attraverso le negoziazione sociale e la mediazione di
artefatti (Mantovani, 1996; Riva e Galimberti, 1997a; Riva e Mantovani, 1999).
Presentano una nuova definizione di presenza che: ammette il carattere mediato
di ogni possibile esperienza di presenza, concepisce sempre l’esperienza come
immersa in un contesto sociale, sottolinea la componente di ambiguità inerente
alle situazioni quotidiane e mette in evidenza la funzione di spiegazione che la
cultura svolge (Mantovani e Riva, 1999). Gli utenti di un sistema di realtà
virtuale provano un senso di presenza se e solo se possono usare la realtà virtuale
per interagire (Riva, Castelnuovo, Giaggioli e Mantovani, F., 2002).
Spagnolli e Gamberini (2002) hanno studiato la presenza in un ambiente
virtuale in relazione ad un problema tecnico. Secondo gli autori l’ibridità è una
delle caratteristiche della presenza. Per ibridità si intende un setting ampliato nel
quale convogliano gli elementi di diversi ambienti. Come ci spiegano gli autori,
la presenza in una simulazione non esclude gli aspetti del mondo reale: gli utenti
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ad esempio controllano la posizione del proprio corpo e prestano attenzione alle
istruzioni dal laboratorio. La molteplicità delle azioni, altra caratteristica del
concetto di presenza, fanno parte del setting virtuale; come gli autori ci fanno
notare da alcuni esempi, prima il partecipante si muove nell’ambiente virtuale,
poi pone una domanda allo sperimentatore. La variazione del setting è
sottolineata dal fatto che il partecipante interrompe l’azione di camminare e dal
diretto coinvolgimento del ricercatore nella conversazione.
Quando la percezione dell’ambiente è mediata da una tecnologia della
comunicazione il soggetto percepisce due ambienti separati e diversi, quello
fisico e quello mediato. Il termine di telepresenza (telepresence) viene quindi
utilizzato per definire questa seconda condizione. La telepresenza viene definita
come “l’esperienza di essere in un ambiente per mezzo di un mezzo di
comunicazione” (Steuer, 1992) e le variabili più importanti, che determinano se
una situazione mediata possa indurre un senso di telepresenza, sono la vividezza
o vivacità e l’interattività.
Per vividezza si intende l’abilità di una tecnologia di produrre un ambiente
mediato sensorialmente ricco e con interattività ci riferiamo, invece, al grado con
cui gli utenti di un mezzo possono influenzare la forma o il contenuto di un
ambiente mediato (ibidem).
Questa esperienza di ‘essere lì’ è supportata tecnologicamente e sensorialmente
dall’ immersione.
Per quanto riguarda il concetto di immersione (immersion), autori come
Slater e Usoh (1993) la definiscono come una condizione necessaria, ma non
sufficiente per la presenza. Tali autori quando parlano di immersione descrivono
un tipo di tecnologia e quando parlano di presenza si rifanno a concetti quali lo
stato di consapevolezza legato all’esperienza.