italiana ed angloamericana, seguendo lo schema di analisi proposto nel capitolo
precedente si prenderà in considerazione la capacità di “significare” inscritta
nella rivista stessa indipendentemente dalla sua versione. Sarà così possibile
evidenziare le differenze e le continuità nello sviluppo delle riviste e nella loro
evoluzione globale e sottolineare le intenzioni che le due edizioni si
propongono, soprattutto in materia di scelte linguistiche specifiche.
Il luogo dell’analisi linguistica e dell’esame semiotico di questa ricerca è un
corpus costituito dalle testate di Vanity Fair prendendo in considerazione le
pubblicazioni che si riferiscono, per quanto riguarda la versione italiana, ai
quattro numeri settimanali di Marzo 2009 (Vanity Fair Italia n.9, 4 Marzo 2009;
Vanity Fair Italia n.10, 11 Marzo 2009; Vanity Fair Italia n.11, 18 Marzo 2009 e
Vanity Fair Italia n.12, 25 Marzo 2009) mentre per quanto concerne la versione
angloamericana al numero mensile di Marzo 2009 (“Vanity Fair International” n.
583, 1 March 2009). Oltre a questo periodo di studio specifico, la rivista è stata
oggetto di lettura privata personale della Candidata dal 2004, che ha quindi
avuto la possibilità di approfondire particolarmente l’argomento trattato nella
Memoria.
L’analisi si prospetterà particolarmente interessante proprio perché le due
edizioni hanno una periodicità di uscita diversa. Infatti la versione
angloamericana della rivista è fin dalle sue origini ad un mensile. L’Italia è
invece l’unico paese in cui la pubblicazione esce con cadenza settimanale,
anche se inizialmente nel 2003, la rivista era stata lanciata sul mercato italiano
come mensile ma a livello di concorrenza il mercato italiano era saturo di
mensili di questo tipo e, anche dal punto di vista pubblicitario, la fetta di mercato
che sarebbe stato possibile spartirsi era molto esigua: per questo motivo dopo
pochi mesi è stato trasformata in settimanale, formula nella quale ha trovato
una collocazione precisa nel panorama italiano, che non era particolarmente
ricco di settimanali a tutto campo.
6
Capitolo 1: Il percorso storico
1. La storia di Vanity Fair
7
VANITY FAIR
Formerly “Dress&Vanity Fair”
Fashions
The Stage-Society-Sportax
The Fine Arts
Copertina del primo numero,
Gennaio 1914
Vanity Fair
1
è un periodico di costume, cultura, moda e politica edito da Condé
Nast Publication, che è nato nel 1913 negli Stati Uniti d’America. Nel 1913 infatti
l’imprenditore Condé Nast acquista la rivista di moda maschile Dress,
rinominandola Dress and Vanity Fair e ne pubblica quattro numeri. Viene
riportato che siano stati pagati 3.000 dollari per i diritti di utilizzo del nome
“Vanity Fair” negli Stati Uniti ma non si sa se i diritti fossero detenuti in
precedenza da una prima rivista inglese o da altri. Durante l’anno
successivo,cioè nel 1914, dopo un breve periodo di inattività, la rivista viene
rilanciata, perdendo la prima parte del suo nome, diventando nota col suo titolo
attuale. La rivista acquista nel giro di poco tempo grande popolarità e diviene un
grosso successo commerciale sotto la direzione di Frank Crowninshield,
attirando un elevato numero di investitori: nel 1915 arrivò a risultare la rivista
con il maggior numero di pagine pubblicitarie negli Stati Uniti. Nel 1919 viene
nominato caporedattore Robert Benchley, che nomina come responsabile della
sezione spettacolo Dorothy Parker, scrittrice e poetessa di grande fama, che
lavorava in quel momento per la redazione di Vogue; inoltre Benchley assume
anche il futuro drammaturgo Robert E. Sherwood, il quale aveva da poco fatto
ritorno dalla Prima Guerra Mondiale. Benchley, Parker e Sherwood sono anche
stati tra i membri fondatori della famigerata tavola rotonda dell’Algonquin, cioè
un circolo di scrittori, poeti e giornalisti che erano soliti riunirsi presso
l’Algonquin Hotel di Manhattan, nello stesso edificio sulla 44esima strada dove
hanno sede gli uffici della Condé Nast Publication. Come scrive Yagoda (2000),
Crowninshield riesce ad avere come collaboratori i migliori autori dell’epoca,
come Aldous Huxley, T.S. Eliot, Ferenc Molnár, Gertrude Stein, Djuna Barnes,
Thomas Wolfe, P.G. Wodehouse, che hanno iniziato tutti la loro collaborazione
con la rivista nella preparazione del numero di Giugno 1923, e con le recensioni
teatrali della Parker e le fotografie di Edward Steichen. Nel 1925, sotto la
direzione di Claire Boothe Luce, la rivista entra in competizione con The New
Yorker, proprio perché gli articoli firmati dagli autori sopracitati la fanno
diventare molto popolare tra gli appartenenti alla classe borghese americana.
1
Per la parte dell’elaborato riguardante il percorso storico della rivista si fa riferimento al sito
ufficiale di Vanity Fair USA, in particolare alla pagina web
http://www.vanityfair.com/magazine/vintage/oneclickhistory
8
Come riportano gli articoli dell’epoca del New York Times (1935) e del Wall
Street Journal (1935) questo successo purtroppo non è stato sufficiente per
sfuggire agli effetti della Grande Depressione del 1929 : infatti a causa del calo
degli investimenti pubblicitari, sebbene le vendite fossero al loro culmine
raggiungendo le 90.000 copie vendute, si era pensato di cambiare stampo alla
rivista e cambiarle il nome in Beauty ma alla fine venne annunciato dalla Condé
Nast Publication nel Dicembre del 1935 che Vanity Fair sarebbe stato assorbito
da Vogue, che aveva una diffusione di 156.000 copie, e cessò di essere
pubblicato da quando venne definitivamente accorpato alla rivista con il numero
di Marzo 1936. Grazie ad un rilancio promosso dal proprietario della Condé
Nast Publication in persona, il celeberrimo Si Newhouse, nel 1981 la rivista
torna ad essere pubblicata ed assume la sua forma attuale. Il primo numero del
Febbraio 1983 viene pubblicato sotto la direzione di Richard Locke, che aveva
già lavorato a The New York Times Book Review, e la notizia esce sul New
York Times (1983), ma dopo tre numeri viene sostituito da Leo Lerman, già
famoso per essere stato responsabile editoriale di Vogue, il tutto riportato da
The Washington Post (1983). Assume poi la sua direzione la giornalista
britannica Tina Brown nel periodo dal 1984 al 1992, ed infine subentra dal 1992
Graydon Carter, il quale è ancora l’attuale direttore.
La rivista annovera giornalisti e scrittori del calibro di Sebastian Junger,
Micheal Wolff, Christopher Hitchens, Dominick Dunne e Maureen Orth e scatti
dei migliori fotografi del mondo, come Bruce Weber, Annie Leibovitz, Mario
Testino e Herb Ritts, che hanno ritratto innumerevoli celebrità fornendo alla
rivista importanti copertine; tra queste si ricorda una intitolata “More Demi
Moore” che ritraeva Demi Moore incinta e seminuda, destinata a diventare una
vera e propria icona pop (Vanity Fair, Agosto 1991).
La rivista è nota anche per i suoi articoli esclusivi e di alta qualità: nel 1996
la giornalista Marie Brenner ha scritto un articolo di denuncia sull’industria del
tabacco intitolata “The Man Who Knew Too Much” e dall’articolo è stato poi
tratto il film “Insider – Dietro la verità” (1999) con Al Pacino e Russel Crowe. La
rivista ha rivelato inoltre, nel maggio 2005, dopo più di trenta anni di mistero, il
nome della persona che informò The Washington Post dello scandalo
9
Watergate, cioè W. Mark Felt, causando nel 1974 le dimissioni dell’allora
presidente americano Richard Nixon. La rivista ha anche pubblicato molte
interviste di celebrità tra cui la prima rilasciata da Jennifer Aniston dopo il
divorzio da Brad Pitt, che ha fatto di quel numero della rivista il più venduto
della storia di Vanity Fair (700 mila copie solo in edicola) ; mentre il secondo
numero più venduto (più di 600 mila copie) è stato quello di Ottobre 2006 che
mostrava le fotografie esclusive scattate durante l’Agosto 2006 dalla fotografa
Annie Leibovitz in Colorado a casa di Tom Cruise e Katie Holmes, nelle quali
era ritratta la coppia con la figlia Suri Cruise, che era stata nascosta dai genitori
ai media fino a quel momento e la cui reale esistenza era stata messa in
dubbio.
Vi sono però anche delle polemiche che ruotano intorno ad alcuni casi di
foto controverse: esse sono relative agli scatti presenti nel numero di Aprile
1999, che mostrava l’attore Mike Myers vestito come una divinità indù in una
foto di David LaChapelle: dopo le critiche sia il fotografo che la rivista si sono
scusati nell’articolo SAJA di Vanity Fair del 9 Giugno 2000. Altre copertine
contestate sono state quella di Marzo 2006 per il “Tom Ford’s Hollywood Special
Edition” in cui Keira Knightley e Scarlett Johansson apparivano nude insieme a
Tom Ford vestito, fotografati da Annie Leibovitz, e quella di Dicembre 2006, il
primo “Art Issue” della rivista, in cui appariva Brad Pitt in boxer bianchi, il quale
dichiarò che quella foto non doveva essere pubblicata in copertina. Inoltre ha
destato scalpore nel 2005 la causa nella quale Vanity Fair fu ritenuta colpevole,
cioè il caso dell’articolo uscito nel 2002 sul regista Roman Polanski in cui si
sosteneva che egli avesse fatto delle avance a una giovane modella dicendole
che l’avrebbe resa la nuova Sharon Tate, sua defunta moglie, ma fu poi
dimostrato che l’accusa era infondata. Infine nel Gennaio 2006 l’attenzione è
stata puntata su un’intervista pubblicata quell’inverno su Lindsay Lohan, nella
quale ella ammetteva di aver consumato droghe e di essere stata bulimica per
un periodo della sua vita, pur avendo sempre negato totalmente questi fatti fino
a quel momento; l’attrice ha cercato quindi di agire legalmente per tutelare ciò
che lei sosteneva di non avere mai detto, ma la rivista dimostrò la veridicità
delle informazioni grazie alla registrazione integrale su supporto audio
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dell’intervista. Questa questione è stata oggetto di cronaca anche da parte di
USA Today (2006).
2. Il richiamo letterario
Come riporta nel suo articolo David Friend (2008), la scelta del nome della
rivista ricade su “Vanity Fair” perché esso originariamente significava “a place or
scene of ostentation or empty, idle amusement and frivolity”, cioè la “fiera
decaduta” ed il “luogo peccaminoso”, facendo riferimento ad uno dei luoghi
dove si svolge l’azione nell’allegoria in prosa The Pilgrim’s Progress (Il
Pellegrinaggio del Cristiano) di John Bunyan, predicatore, teologo e scrittore
inglese, che la scrisse nel 1678; l’allegoria è un procedimento retorico grazie al
quale si dice una cosa con l’intenzione di scriverne un’altra e garantisce in
questo modo due piani di lettura del discorso: uno esplicito (o letterale), dove le
cose sono esattamente quelle che le parole esprimono nel linguaggio comune;
e uno invece sottinteso, implicito, dotato però di un significato più profondo di
quello apertamente manifestato dal testo. Solo sicure e rigorose chiavi
interpretative consentono il trasferimento del significato dal primo piano del
discorso, quello letterale, al secondo, quello allegorico. È infatti essenziale
conoscere a fondo sia il testo in questione, sia la lingua e lo stile dell’autore, e
soprattutto il contesto culturale entro il quale l’opera è stata prodotta. Infatti la
relazione tra senso letterale del testo e significato allegorico può risultare
incomprensibile per un lettore moderno, ormai estraneo alla sensibilità e
all’universo di segni. In particolare questa allegoria narra del pellegrinaggio di
un’anima in cerca della salvezza, e durante questo essa si imbatte in questa
fiera che durava tutto l’anno durante la quale si poteva vendere di tutto, anche
mogli e figli, e che si svolgeva nella città di Vanity, che rappresenta
l’attaccamento peccaminoso dell’uomo alle cose materiali. Il Pellegrinaggio del
Cristiano è forse la più vasta allegoria, mai pubblicata al mondo e certamente
anche la più tradotta, infatti i missionari protestanti la hanno resa disponibile
nelle più svariate lingue subito dopo aver tradotto la Bibbia.
David Friend (2008) sostiene poi che in un secondo momento, ovvero nel 1848,
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William Makepeace Thackeray, scrittore inglese dell’epoca Vittoriana noto
soprattutto per le sue opere satiriche, riprende questo setting dall’allegoria di
Bunyan, che all’epoca aveva avuto larga diffusione in tutta Europa, e lo pone
come titolo del suo romanzo storico-sociale Vanity Fair: A Novel without a Hero,
un’impietosa satira dei vizi della società inglese dell’epoca napoleonica, dove il
denaro si rivela il motore di tutte le azioni e relazioni umane e vengono descritte
la futilità e la pochezza degli scopi delle persone. Le protagoniste sono due
amiche d’infanzia Becky Sharp, la figlia orfana di un artista povero e di una
ballerina francese, e Amelia Sedley, la figlia di un ricco mercante, molto dolce e
di buon cuore. Al contrario Becky è ambiziosa e senza scrupoli e, dopo aver
provato a diventare la cognata di Amelia ma senza successo, cerca di sposare
per convenienza e per favorire la sua arrampicata sociale Rawdon, il figlio di Sir
Pitt Crawley, per cui ella lavorava come governante, e i due convolano a nozze
ma vengono cacciati dalla casa di famiglia. Successivamente Becky diventa
l’amante del marito di Amelia, George Osbourne, e quando egli viene ucciso
durante la battaglia di Waterloo, ella posa il suo sguardo su un altro uomo
benestante, Lord Steyne, ma questa volta viene scoperta dal marito Rawdon
che chiede la separazione. Nel frattempo la sua amica Amelia non riesce a
superare la morte del marito in battaglia e Becky, che nel frattempo è diventata
una signora dell’alta società, le confessa la relazione che ella aveva avuto con
lui in passato e le racconta del fatto che George era stato un marito infedele,
quindi non meritava il suo lutto eterno. Alla fine Amelia riesce a riprendersi dal
dolore e si risposa con William Dobbin, un suo vecchio amico e compagno di
scuola che l’aveva sempre amata.
Si può quindi dedurre che i personaggi di questo romanzo possano essere
divisi in due categorie: i “cattivi” ed i “deboli” e sono presentati come le
caricature con realismo utilitaristico: Becky, ad esempio, è la personificazione
dell’intelletto senza cuore, dell’egoismo, del nuovo modello di donna che riesce
a inserirsi in una società i cui valori sono sempre più bassi e alla fine trionfa
nella società delle ipocrisie grazie alla sua ambizione senza pari; Amelia e la
sua vita virtuosa rappresentano invece il cuore che non dà ascolto alla ragione
e impersona il modello Vittoriano del “angel of the hearth”. I due personaggi
12
maschili principali ovvero George e William sono anch’essi in stretta
contrapposizione: il primo è di bell’aspetto ma senza scrupoli, mentre il secondo
è meno aitante e goffo ma il più sincero, infatti rappresenta il “bene” in
opposizione al “male” rappresentato da Becky, che però non è una persona
malvagia dalla nascita ma è stata corrotta profondamente dalla società che l’ha
spinta ad arrivare ad uno status sociale elevato per eguagliare soprattutto la
sua amica Amelia.
L’opera è quindi un misto di satira sociale e humor, è sia un attacco
all’opportunismo e all’ipocrisia della rispettabile classe borghese-aristocratica
puritana, ma anche una celebrazione della sua protagonista, che si rivela
un’abile scalatrice sociale. Lo stile usato da Thackeray può essere definito
ironico, infatti le sue parole criticano proprio il suo target di lettori, ovvero le
persone snob, narcisistiche e superficiali del suo tempo. In questo senso la
rivista si propone di fornire una fotografia realistica e a tutto tondo della società
contemporanea, trattando ogni aspetto di essa: politica, società, giustizia,
costume, moda, gossip, cinema, televisione, sport, spettacolo e dando al lettore
la possibilità di tenere sempre questa finestra aperta ed obiettiva sul mondo che
lo circonda, facendolo sentire sempre partecipe ad esso.
3. Il target di riferimento
Il target
2
è il segmento di pubblico di riferimento che si vuole raggiungere
attraverso un determinato prodotto.
Il target group è infatti un gruppo omogeneo di soggetti che, sulla base delle
caratteristiche delle sue richieste, viene individuato come ideale destinatario di
una specifica azione di marketing o di una particolare comunicazione
pubblicitaria, mentre la segmentazione del mercato consiste nella
suddivisione in gruppi omogenei e significativi di clienti, dove ogni gruppo può
essere selezionato come obiettivo di mercato da raggiungere con un'apposita
azione di marketing.
La definizione del target di riferimento consiste nell'identificazione del pubblico
2
Con riferimento al sito web specializzato:http://www.diecionline.com/target_group.html
13
di riferimento delle varie azioni di comunicazione. Definire il target significa
segmentare il pubblico complessivo dell'ente e suddividerlo in gruppi omogenei
e significativi rispetto a determinati criteri, che è necessario definire. Per
effettuare una corretta segmentazione dell'utenza le variabili socio -
demografiche da sole non sono in grado di fornire tutte le informazioni
necessarie. Occorre, pertanto, prendere in considerazione anche i fattori che
caratterizzano gli stili di vita dei potenziali utenti. Un ulteriore elemento da
valutare è costituito dal sistema dei bisogni e delle attese dell'utenza,
considerando, tuttavia, che ciò rappresenta una delle variabili da prendere in
esame, ma non l'unica, la quale va comunque mediata con le variabili sociali,
culturali, economiche, e normative di riferimento e che, in ogni caso, differisce
dal concetto di "desiderio". Occorre quindi prestare attenzione al fatto che il
lettore del target interessato non sempre coincide con l’acquirente finale del
prodotto editoriale.
Fino a circa 20 anni fa, i sociologi erano in grado di definire i target di
consumatori in fasce abbastanza ristrette e segmentate e per i pubblicitari era
“facile” mirare le comunicazioni dei prodotti da pubblicizzare. Ma non è più così:
la segmentazione
3
delle fasce di pubblico va sempre più frammentandosi con
sfumature che rendono sempre più difficile definire un pubblico ben preciso.
I principali criteri utilizzati nella descrizione del target group si basano su:
ξ Variabili di comportamento
ξ Variabili demografiche
ξ Variabili geografiche
ξ Variabili psicografiche
Le variabili di comportamento si riferiscono ai comportamenti di consumo
attraverso i quali il pubblico può essere distinto in: consumatori o non
consumatori, fedeli o non fedeli, della marca o della concorrenza. Questi
atteggiamenti possono manifestarsi con tre diverse graduazioni: heavy, medium
o light.
3
“La Definitizione del Target Group” del Prof. Marco Galdenzi (Università degli Studi di Teramo):
http://www.delcos.it/galdenzidispense/dispense/ladefinizionedeltarget.pdf
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