5
difficoltà specifiche che questi ragazzi si trovano ad affrontare (quali
l’inserimento in un nuovo ambiente o la necessità di imparare in modo
approfondito una lingua diversa da quella del paese di origine) si aggiungono a
quelle più generali già accennate, quali la scarsità di risorse economiche della
famiglia.
L’immigrazione costituisce ormai un elemento strutturale della società
italiana: in qualche modo essa dovrà mutare per adeguarsi a questa
prospettiva. Gli “italiani con il trattino” (espressione molto in uso specialmente in
campo giornalistico) sono tutti quei cittadini italiani che si riconoscono in una
duplice appartenenza nazionale, perché originari di altri paesi ma residenti qua
ormai da anni: italo-cinesi, italo-senegalesi, italo-argentini e così via. In un
senso un po’ più ampio, possiamo comprendere in questa categoria tutti coloro
che, semplicemente, hanno scelto l’Italia come loro patria d’elezione e che
perciò si trovano attualmente nel nostro paese, pur nella diversità delle loro
storie personali. Molti di loro sono figli di genitori di origine immigrata, ma sono
nati qui oppure sono arrivati qua da piccolissimi: si tratta delle cosiddette
“seconde generazioni”, proprio quelle che sempre più numerose si affacciano
all’interno del nostro sistema scolastico.
Come ci ricorda Ambrosini “nel bene e nel male, la nascita e la
socializzazione dei figli dei migranti, anche indipendentemente dalla volontà dei
soggetti coinvolti, producono uno sviluppo delle interazioni, degli scambi, a volte
dei conflitti tra popolazioni immigrate e società ospitante: rappresentano un
punto di svolta dei rapporti interetnici, obbligando a prendere coscienza di una
trasformazione irreversibile nella geografia umana e sociale dei paesi in cui
avvengono
2
”. La progressiva stabilizzazione della presenza immigrata nel
nostro paese dovrebbe, pertanto, indurre ad un generale ripensamento del
settore dei servizi ad essi rivolti, che superi l’impostazione forzatamente
“emergenziale” (e quindi precaria) adottata inizialmente. È necessario adottare
un’ottica di più ampio respiro, che tenga conto dei possibili sviluppi futuri del
2 Tra problemi sociali e nuove identità: i figli dell’immigrazione di Maurizio Ambrosini pg 1. Da atti
dell’VIII Convegno dei Centri Interculturali Una generazione in movimento - Gli adolescenti e i giovani
immigrati 20 e 21 ottobre 2005 - Reggio Emilia disponibile sul sito
http://www.provincia.re.it/page.asp?IDCategoria=701&IDSezione=4283&ID=88605
6
fenomeno e dei suoi riflessi sulla società: in una parola, dell’integrazione
sociale. Né è possibile ignorare le conseguenze negative derivanti dal
sottovalutare o negare l’esistenza di problematiche conseguenti il faticoso
processo di inserimento nella società del paese di arrivo, atteggiamento che si
traduce inevitabilmente nella mancanza di politiche di accoglienza adeguate
3
.
Un progetto ambizioso come quello sotteso al concetto di integrazione
sociale (che si potrebbe così riassumere: la piena partecipazione alla vita civile
e sociale, a parità di condizioni, per tutti i residenti) necessita però di strumenti
adeguati: tra questi, un ruolo principale spetta ovviamente alla scuola.
L’istituzione scolastica, tra i suoi compiti, ha anche quello di insegnare le basi
della convivenza civile ed in generale di “formare” la personalità dei futuri
membri della nostra collettività. Dovrebbe, inoltre, essere in grado (purtroppo
molto spesso solo in teoria) di fornire a tutti le stesse opportunità di successo
futuro, di integrazione sociale e di sviluppo personale. La scuola ha, quindi, una
serie di compiti istituzionali, tra i quali la trasmissione di conoscenze,
generalmente ritenuto la sua funzione principale, riveste certamente un ruolo
importante, ma non più di altri due: la selezione e la socializzazione. Benché le
iniziative in questo senso siano generalmente molto meno visibili dall’esterno
(perchè tendenzialmente implicite nella struttura stessa dell’istituzione) vi è
addirittura chi, fra gli studiosi, le ritiene in realtà prioritarie
4
.
Il costante mutamento delle circostanze in cui l’azione pedagogica viene
concretamente svolta (quali la composizione della popolazione o il tipo di
3
Cfr. ad esempio quanto detto a questo proposito dal sociologo Maurizio Ambrosini: “Un altro nodo
problematico deriva dall’atteggiamento opposto, quello della negazione dell’esistenza di una questione
sociale derivante dal rapporto tra società riceventi e immigrati di seconda generazione: lo nota Simon
(2003) a proposito del caso francese, nel quale il modello “repubblicano” di assimilazione degli immigrati
si è sempre posto l’obiettivo di rendere francesi gli immigrati entro la prima generazione., incoraggiando
la naturalizzazione degli adulti e concedendo automaticamente la cittadinanza ai figli nati sul territorio.
L’uguaglianza di principio si è accompagnata con l’invisibilità nella sfera pubblica delle pratiche culturali
delle minoranze etniche, con la scarsa considerazione rivolta alla trasmissione dell’eredità culturale da
una generazione all’altra, con la negazione di ogni riconoscimento collettivo della presenza di
popolazioni di origine immigrata. Impostazioni del genere hanno inciso persino sulla raccolta di dati
statistici e sulla produzione di conoscenze, ritardando la presa di coscienza delle discriminazioni
incontrate dai figli di immigrati, specialmente nord-africani, africani e turchi.”
Da pg.1 di Tra problemi sociali e nuove identità: i figli dell’immigrazione, Atti dell’VIII Convegno dei
Centri Interculturali Una generazione in movimento - Gli adolescenti e i giovani immigrati 20 e 21
ottobre 2005 - Reggio Emilia disponibile sul sito
http://www.provincia.re.it/page.asp?IDCategoria=701&IDSezione=4283&ID=88605
4
Steve Brint, Scuola e società, 1999 – l’argomento verrà ripreso ed ampliato in seguito, in particolare nel
cap. 3 e nel 5
7
sviluppo economico perseguito) implica da sempre una costante ridefinizione
dei metodi e degli obiettivi della formazione scolastica; a maggior ragione,
pertanto, l’aumento della presenza di alunni di origine immigrata che si va
registrando in questi anni deve indurre ad una seria riflessione sul tema. Si
viene ad aggiungere, quindi, un nuovo tassello alla già complessa struttura
scolastica italiana: in sostanza, le viene assegnata un’ulteriore funzione (o
meglio, le si chiede di applicare in un campo diverso e con alcune varianti una
competenza di base che essa dovrebbe già possedere, avendo già svolto un
ruolo simile in passato
5
) ed essa ha quindi la necessità di prepararsi al meglio
per sostenerlo, anche traendo spunto dall’esperienza di altri paesi che si siano
già trovati in una simile situazione.
La questione è molto importante e, al di là di quello che può essere il risultato
effettivamente raggiunto dal singolo, interessa la società nel suo complesso,
perché si ripercuote su molti altri aspetti del vivere comunitario, quali il suo
grado effettivo di multiculturalismo, le reali possibilità di ascesa sociale e
l’esistenza di tensioni interetniche tra i diversi gruppi. In Europa, in particolare,
l’argomento presenta alcuni risvolti specifici dei quali è necessario tenere conto,
perché la formazione del concetto di stato-nazione è indissolubilmente legato
ad una supposta omogeneità storica, culturale e linguistica dei suoi membri.
Proprio per questo, come rileva Ambrosini, “dapprima l’arrivo, poi
l’insediamento di popolazioni straniere, infine la formazione di una seconda
generazione non più etnicamente omogenea, mettono in discussione questi
presupposti: attestano che l’identificazione nazionale è un processo, non
sempre e necessariamente associato con l’asserita omogeneità etnica della
popolazione, e rivelano che la coesione sociale va costruita con sforzi
consapevoli, politiche lungimiranti e investimenti di varia natura.
6
”
5
Il riferimento qui è in particolare alla funzione di integrazione nazionale che secondo molti autori la
scuola italiana avrebbe svolto in particolare dopo la riforma della scuola media negli anni ’60. Cfr. ad
esempio Graziella Giovannini, Allievi in classe, stranieri in città, 1996, Franco Angeli, Milano
6
Tra problemi sociali e nuove identità: i figli dell’immigrazione di Maurizio Ambrosini pg 25. Da atti
dell’VIII Convegno dei Centri Interculturali Una generazione in movimento - Gli adolescenti e i giovani
immigrati
20 e 21 ottobre 2005 - Reggio Emilia disponibile sul sito
http://www.provincia.re.it/page.asp?IDCategoria=701&IDSezione=4283&ID=88605
8
Sono passati oltre una decina d’anni dalle prime disposizioni normative in
materia, e l’argomento integrazione, in particolare in riferimento al presenza di
immigrati di fede islamica, è più che mai d’attualità: mi sembra, quindi, che
questo sia il momento giusto per analizzare quanto è stato fatto sinora e porsi,
soprattutto, una serie di domande su cosa vada fatto in futuro per mettere
pienamente a frutto l’esperienza maturata in questo periodo. Nel frattempo le
iniziative in tal senso si sono diffuse, moltiplicate e diversificate, comportando
anche un rilevante impiego di risorse, sia umane che finanziarie, da parte
soprattutto degli istituti scolastici e del cosiddetto terzo settore, nonché la
creazione di figure professionali specifiche, quale quella del mediatore culturale.
L’Italia è ormai di fatto un paese multietnico, e lo è diventato in un arco di
tempo relativamente breve: come si pone la scuola, una delle principali agenzie
istituzionali del paese, rispetto a questo dato? È stata sinora in grado di gestire
il fenomeno e raggiungere i suoi obiettivi? È, ad esempio, in grado di fornire a
tutti gli stessi strumenti? Sta cambiando, è già cambiata oppure è rimasta
sostanzialmente immutata?
Queste sono le domande a cui tenterò di dare una risposta con questa tesi.
9
PARTE PRIMA: il quadro della
situazione
Pur avendolo circoscritto all’ambito scolastico e ai minori di nazionalità non
italiana, quello dell’integrazione rimane un argomento estremamente
complesso, soprattutto perché implica un duplice e contemporaneo mutamento:
della società e del singolo, che devono adeguarsi l’uno all’altra e viceversa.
Ricco di risvolti psicologici, identitari ed affettivi per il singolo, sul piano sociale
viene espresso essenzialmente tramite strumenti normativi (o indicatori
“matematici”, quali il tasso di acquisizione della cittadinanza). Sebbene nella
realtà queste due facce siano inestricabilmente legate l’una all’altra, in un
rapporto reciproco di causa ed effetto, sul piano teorico è necessario tenerle
distinte per poterle comprendere al meglio.
Per comodità d’esposizione, ho perciò suddiviso la trattazione in due parti.
Nella prima, più generale, cercherò di tratteggiare un quadro il più possibile
preciso della situazione attuale, esaminando i tre fattori principali che
concorrono a determinarne gli esatti contorni, ovvero:
1. l’esistenza di un interesse pubblico generale nei confronti
dell’integrazione dei minori di origine straniera (capitolo 1);
2. la struttura del sistema scolastico italiano - anche attraverso la
ricostruzione della sua travagliata evoluzione storica - (capitolo 2);
3. l’evoluzione dei flussi migratori diretti verso il nostro paese in questi
ultimi anni e il loro riflesso sulla composizione della popolazione
studentesca, il cui rapidissimo incremento non sembra destinato a
conoscere pause, almeno sul breve periodo (capitolo 3).
10
Nella seconda, dopo una breve analisi degli strumenti didattici utilizzati,
approfondirò invece l’aspetto soggettivo e socio-relazionale, con particolare
attenzione alle difficoltà più comunemente incontrate, rispettivamente, dai
minori nella fase di inserimento e dai docenti nella gestione della stessa e, più
in generale, nel fronteggiare i nuovi compiti che la scelta interculturale comporta
in presenza di un percepito deficit di preparazione sulla tematica.
11
Capitolo 1: Le premesse sociologiche
dell’integrazione
Il ripensamento della struttura dei servizi offerti agli immigrati da parte dello
Stato italiano diventa necessario in relazione ad un preciso progetto: quello
dell’integrazione sociale di tutti coloro che risiedono sul nostro territorio. Prima
di iniziare è opportuno, perciò, precisare alcuni aspetti della questione, che a
volte si tende a dare per scontati.
L’aumento della presenza immigrata, nel nostro come in altri paesi, è un dato
di fatto ed è collegato a fenomeni (primo tra tutti, la cosiddetta globalizzazione)
che vanno molto al di là delle possibilità di intervento dei singoli stati. Possiamo
perciò dare per scontato che andrà ulteriormente crescendo nel prossimo futuro
e che vi sia, quindi, la necessità riconosciuta di adottare una qualche strategia
gestionale, nei limiti di quelle che sono le reali possibilità d’azione nazionali. Se
questo è lo scenario acquisito, la decisione di reagire a questo mutamento
puntando sull’integrazione sociale è invece solo una scelta - attualmente
decisamente maggioritaria (quantomeno in Europa) - ma non l’unica possibile.
Se si allarga la prospettiva anche ad altre aree del mondo, infatti, si può notare
che la situazione non è uniforme dappertutto: gli Emirati Arabi, ad esempio, pur
avendo delle percentuali di lavoratori immigrati decisamente superiori alle
nostre, perseguono una politica di attiva discriminazione di queste persone, al
fine di limitare la loro permanenza nel paese al tempo strettamente necessario
all’espletamento delle loro mansioni. Allo stesso modo, rimanendo in Europa
ma tornando un po’ indietro nel tempo, è possibile ritrovare esempi di scelte
politiche diverse. Nella Germania del dopoguerra (quando cioè ad emigrare
eravamo noi, anche se ci piace dimenticarlo), per citarne uno, gli immigrati
venivano definiti “Gastarbeiter”, ovvero “lavoratori ospiti”: con questa definizione
si intendeva sottolineare, appunto, la “temporaneità” della loro permanenza e,
coerentemente, le iniziative prese dal governo tedesco intendevano
12
incoraggiare attivamente il loro ritorno ai paesi d’origine, trascorso il periodo in
questione.
Perché dunque il governo italiano ha deciso di muoversi in questa direzione
(quantomeno in alcuni campi, e per alcune tipologie di persone), e cosa
comporta tale scelta?
1.1 Cittadini del domani
Il sistema scolastico, dunque, ha un compito estremamente importante nel
determinare il possibile sviluppo futuro della società in cui viviamo, perchè
influenza in vario modo la nostra esistenza: le conoscenze che apprendiamo a
scuola ci serviranno poi in vari modi per tutta la vita, le credenziali in termini di
titoli di studio servono per trovare un’occupazione e così via. La funzione più
importante della scuola, però, quantomeno in termini di vita di tutti i giorni, è
probabilmente quella di “socializzare” gli alunni
7
: in modo molto sintetico, con
questo termine si intende l’insegnare quali siano i valori dominanti della società,
il modo di esprimersi e di comportarsi considerato corretto nelle varie situazioni
ecc… In pratica, cosa la società si aspetta da noi e noi da essa
8
.
Tutti noi ci riposizioniamo continuamente, in termini di inclusione ed
esclusione, rispetto all’ambiente che ci circonda, alle organizzazioni e alle
persone che incontriamo: ciò che sentiamo come nostra identità personale è un
concetto mutevole e multiforme, alle volte persino contraddittorio. Ad una
domanda apparentemente semplice come “chi sei?” possiamo dare delle
risposte molto diverse a seconda del contesto, cercando di sottolineare gli
elementi che sembrano più pertinenti in quel preciso momento: in un gruppo di
coetanei che conosciamo poco, ad esempio, indicheremo gli amici in comune
ma all’Università, invece, citeremo la facoltà di appartenenza, e così via.
7
L’argomento sarà ripreso successivamente nel corso del 4 capitolo.
8
La socializzazione è un aspetto dell’educazione, termine con il quale s’intende il processo
d’integrazione sociale e di trasmissione culturale mediante il quale, nell’ambito di concrete situazioni
storiche, ambientali e familiari, si struttura la personalità umana.
13
Le esperienze personali, ovviamente, concorrono in gran parte a definire sia
quali siano i campi dell’esistenza che riteniamo importanti per la costruzione
della nostra identità, sia quale sia la nostra posizione in merito
9
. Il senso di
appartenenza ad un determinato gruppo, sia esso ristretto come un gruppo di
amici o ampio quanto la popolazione di uno stato è un elemento fondante per la
costruzione dell’identità personale: questo è vero in assoluto, ma lo è ancora
più durante l’adolescenza. In questo periodo, infatti, ci si confronta in modo
particolarmente forte con la società ( alle volte giungendo persino a forme di
vera e propria ribellione) al fine di trovare un’identità realmente sentita come
propria.
La scuola costituisce la principale agenzia di socializzazione (assieme alla
famiglia) per tutti durante l’infanzia e l’adolescenza, in anni quindi
particolarmente cruciali per la costruzione della propria personalità: nel caso
degli alunni di origine immigrata, essa è anche la prima vera occasione di
contatto con un organo dello Stato italiano. In questa sua funzione, il periodo
trascorso in classe riveste un’importanza cruciale per la realizzazione di quel
progetto di integrazione sociale di cui si è parlato in precedenza. Se la scuola
non è preparata a gestirlo, però, le eventuali conseguenze negative possono
essere estremamente gravi.
È bene precisare che questo discorso non è riferito esclusivamente agli
studenti di origine straniera: perché un progetto ambizioso come quello di
un’integrazione sociale ad ampio respiro abbia successo, è necessario che tutti
ricevano una preparazione adeguata a questo scopo. Ogni società, infatti,
stabilisce quali siano le caratteristiche che devono essere possedute da ciascun
membro, per poter essere considerato appartenente ad essa. Quando ci si
trova di fronte ad un estraneo è possibile che il suo aspetto consenta di valutare
a priori a quale categoria appartenga: in altre parole, di stimare la sua "identità
sociale". Questo ci permette di contestualizzare rapidamente la situazione e
decidere di conseguenza come agire nei confronti di queste persone. Alle volte
però, finiamo per confonderci e ritenere questa stima ipotetica una realtà, pur
non avendo alcuna prova a suo sostegno o addirittura di fronte a dati concreti
9
La tematica verrà approfondita meglio nel corso del 6 capitolo.
14
che la smentiscano (logica dell’eccezione): sono i famosi “pregiudizi”. Tutti
abbiamo dei pregiudizi, anche se non lo ammettiamo o non ce ne rendiamo
conto, perché è uno dei metodi che seguiamo per orientarci nella società in
tempi rapidi: non è infatti possibile avere esperienza diretta o approfondire in
modo sistematico tutti gli argomenti e il pensiero stereotipo è una delle possibili
conseguenze negative della nostra necessità di reperire rapidamente
informazioni. Non necessariamente si tratta di opinioni negative: ad esempio,
anche ritenere che le donne francesi siano particolarmente eleganti è un
pregiudizio. Nessuno si è mai preoccupato di fornire dati scientifici a sostegno
di questa teoria, e sinceramente non so nemmeno se sia possibile. Ciò
nonostante, molte persone rimangono convinte della verità di questa
affermazione.
Per quanto esista anche il pregiudizio favorevole o neutrale (quando cioè è
privo di contenuto emozionale e slegato dagli interessi dell’individuo e, pertanto,
non ha riflessi di alcun tipo sul suo comportamento e sulle sue aspettative),
tuttavia, è in senso negativo che tale termine viene utilizzato normalmente, ed
in particolare in riferimento agli stranieri o chi è sentito comunque come
“diverso”. Come osserva Mazzara “al massimo livello di specificità si intende
per pregiudizio la tendenza a considerare in modo ingiustificatamente
sfavorevole le persone che appartengono ad un determinato gruppo sociale”
10
.
Il pregiudizio costituisce spesso il presupposto della discriminazione
11
(che
consiste nella realizzazione pratica di atti effettivamente lesivi dei diritti di una
persona sulla base della sua caratteristica personale) ma i due fenomeni
possono verificarsi anche separatamente
12
. In particolare, non è essenziale che
i propri pregiudizi vengano tradotti in comportamenti realmente discriminatori (e,
in realtà, la maggior parte delle persone in effetti non lo fa, trattenute dal
rispetto della legge o anche solo da ragioni di educazione), mentre è possibile
che un comportamento oggettivamente discriminatorio abbia motivazioni solo
10
Mazzara, B. M., Stereotipi e pregiudizi, Il Mulino, Bologna 1997, p. 14.
11
Discriminazione = Trattamento non paritario riservato a un singolo individuo o a un gruppo, a causa
della sua appartenenza a una particolare categoria, classe sociale o etnia, oppure a causa del sesso o delle
preferenze sessuali, della religione professata, delle opinioni politiche, dell’età, di un handicap. Fonte
http://it.encarta.msn.com
12
Anthony Giddens, Sociologia, 1995 Il Mulino, Bologna cap. 8
15
indirettamente pregiudiziali (Giddens
13
fa l’esempio di una persona che eviti di
comperare casa in un quartiere abitato da persone di colore, a causa della
svalutazione degli immobili nella zona). In una minoranza di casi (comunque più
diffusi di quanto auspicabile), il comportamento discriminatorio può diventare
abituale e originare vere e proprie forme di razzismo.
L’analisi di questa problematica, e del suo verificarsi nella cornice della
frequenza scolastica, verrà ripresa in modo più approfondito nel sesto capitolo;
in questo momento vorrei però sottolineare, a titolo conclusivo, l’importanza del
ruolo dell’educazione nella prevenzione del fenomeno. In una società come la
nostra, che muta velocemente e diventa sempre più multiforme e variegata
nelle sue espressioni sociali, le occasioni di confronto con realtà diverse dalla
nostra per vari aspetti non mancano di certo.
Compito della scuola, dato che non è possibile eliminarli, dovrebbe essere,
quindi, anche quello di insegnarci a gestire correttamente questi pregiudizi o
quantomeno ad essere consapevoli della loro esistenza, in modo tale da non
esserne sopraffatti.
13
Anthony Giddens, Sociologia, 1995 Il Mulino, Bologna pg. 260
16
1.2 Integrazione, assimilazione, esclusione
Di fronte al generale aumento della presenza sul proprio territorio di persone
nate all’estero, le possibili risposte degli Stati vanno essenzialmente in due
direzioni: quella dell’integrazione/assimilazione o quella dell’esclusione.
Apparentemente opposte, queste finalità spesso convivono nella realtà delle
pratiche governative, come vedremo meglio più avanti.
Abbiamo già accennato in precedenza alle politiche di esclusione:
caratterizzate dalla volontà di mantenere una differenziazione visibile (ed in
genere discriminante) tra la popolazione autoctona e quella di origine
immigrata, esse sono più praticate di quanto comunemente si pensi. Lo stesso
Stato italiano, in certi campi, pratica una politica di esclusione attiva dei migranti
dal godimento di determinati diritti. Senza volersi addentrare nello spinosissimo
discorso della tutela dei diritti umani nei Cpt (da alcuni considerati alla stregua
di veri e propri lager
14
) un valido esempio potrebbe essere quello
dell’attribuzione del diritto di elettorato attivo e passivo. Alcuni comuni (Ragusa,
Calenzano (Firenze) e Bassano Romano (Viterbo), nonché la provincia di Pisa)
lo avevano recentemente introdotto tramite modifiche al proprio Statuto.
Quest’iniziativa, collegata alla presentazione di una proposta di legge da parte
dell’Anci, doveva costituire nelle intenzioni dei proponenti la base per un
intervento legislativo nazionale in materia. Invece, sia le modifiche agli statuti,
sia le delibere sul tema (approvate dai consigli comunali di Perugia, La Spezia e
Cesena) sono state annullate dall’attuale esecutivo su proposta del ministro
dell’interno Giuliano Amato. La motivazione ufficiale sarebbe la tutela
dell’uniformità dell’ordinamento, a norma dell’articolo 2 della legge numero 400
del 1988
15
; di fatto, però, a giudizio delle persone coinvolte, il fatto si traduce in
14
Marco Rovelli, Lager italiani, 2006
15
Legge 23 agosto 1988, n. 400
Disciplina dell’attività di Governo e ordinamento della Presidenza del Consiglio dei Ministri.
http://www.governo.it/Presidenza/normativa/L23ago1988_400.pdf
17
un notevole passo indietro e di certo non rappresenta un segnale incoraggiante
sulle intenzioni di questo governo
16
.
Mentre parlare di politiche di esclusione è relativamente semplice (in linea di
principio, qualunque possibilità garantita per legge agli autoctoni ma non agli
immigrati può rappresentare una discriminazione volontaria), il discorso si fa
molto più complesso quando si tratta di integrazione, assimilazione e del grado
in cui queste siano auspicabili. Su questo punto sostanzialmente non c’è
accordo fra gli studiosi, perciò, per darne almeno una definizione generale ho
deciso di fare riferimento a quella del CNEL
17
, l’organismo nazionale che fra le
altre competenze si occupa del coordinamento per le politiche di integrazione
sociale degli stranieri.
Parlando di integrazione si intende perciò un processo graduale in cui sono
coinvolti aspetti “sociali” (la cultura, il territorio, ecc.) e aspetti “individuali” (la
personalità, la condizione psicologica, ecc.). Lo stesso termine viene anche
usato in senso più ampio per indicare la collocazione socioeconomica degli
immigrati nel mercato del lavoro, nell’accesso all’alloggio e nella fruizione dei
servizi pubblici (tra cui la scuola). In generale, quello della piena integrazione è
un obiettivo ampiamente condiviso e spesso anche attivamente incoraggiato dai
governi.
Il processo di assimilazione concerne invece piuttosto gli aspetti culturali:
lingua, religione, costumi, abitudini, abbigliamento, ecc. Data la delicatezza di
simili tematiche, esso in genere richiede tempi molto più lunghi che non quello
di integrazione socioeconomica e di regola investe le generazioni successive,
cioè i figli o i nipoti di chi è immigrato, in particolare se nati nel paese
d’immigrazione o quantomeno giuntivi molto presto. Inoltre, non c’è affatto
accordo su come essa debba avvenire e fino a che punto vada ritenuta utile od
accettabile, prima di divenire una sorta di “violenza” all’identità del migrante.
16
Milena Zappon, Diritto di voto-Quali sono le scelte del governo?, articolo dell’8 settembre 2006 –
versione on-line disponibile sul sito http://www.meltingpot.org.
17
Consiglio Nazionale dell’Economia e del Lavoro
http://www.portalecnel.it/portale/HomePageSezioniWeb.nsf/vwhp/HP?Opendocument
18
Alcuni paesi, tra cui in particolare la Francia, seguono un’impostazione
tendenzialmente assimilazionista, il cui obiettivo finale è la totale
indifferenziazione di tutti i cittadini: va in questo senso, ad esempio, la
proibizione di qualunque simbolo (politico, religioso ecc.) negli ambienti pubblici
come scuole ed aeroporti. Si tratta però di misure ampiamente contestate
anche all’interno dei paesi stessi, e suscettibili di dare luogo a forti reazioni in
senso opposto a quello sperato.
Nel linguaggio comune, questi due concetti sono a volte usati in modo
intercambiabile, a volte messi in rapporto di contrapposizione (in genere per
sottolineare il rifiuto di politiche eccessivamente assimilazioniste, sul modello di
quelle francesi): anche per questo motivo, molti autori preferiscono parlare
semplicemente di inserimento, evidenziandone i vari aspetti (abitativo,
lavorativo ecc...). Dato che comunque sono questi i termini più usati, ho ritenuto
più opportuno chiarire almeno in linea generale il loro significato, anziché
sforzarmi di evitarli totalmente.
Un’ultima precisazione, anche se probabilmente superflua: come tutte le
classificazioni, anche quella terminologica a cui ho appena fatto riferimento è
più uno strumento di studio e di comprensione dei fatti, che una realtà concreta.
Nelle situazioni reali non è possibile tracciare confini così netti tra integrazione,
assimilazione, inserimento ecc…anche perché si tratta di concetti strettamente
correlati. Non è ipotizzabile un buon inserimento sociale ed economico (ovvero
un buon grado di integrazione) senza un certo livello di assimilazione e
viceversa, dato che, verosimilmente, una persona che non sia per nulla
integrata nella società (ad esempio perché destinata ad essere rimpatriata
presto) non avrà il minimo interesse neppure a conoscere la società che in quel
momento la ospita.