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Introduzione
La casa editrice Feltrinelli nasce a Milano nel luglio del 1955 e nel giro di pochi
anni si afferma come una delle principali aziende editoriali italiane a livello
internazionale.
Nasce dalle ceneri della Cooperativa del Libro Popolare - un‟iniziativa editoriale
del Partito Comunista creata per combattere i pericoli di involuzione culturale,
autoritaria e clericale determinatisi durante la guerra fredda - a cui Feltrinelli aveva
collaborato fin dall‟inizio.
Il 22 giugno 1954 Feltrinelli, allora consigliere delegato della Colip, rassegna le
dimissioni. Ai primi di luglio dell‟anno successivo la Giangiacomo Feltrinelli Editore
pubblica i primi due volumi all‟interno della collana «Universale Economica», che era
stata il nucleo centrale del catalogo della Colip.
La carriera editoriale di Giangiacomo era dunque cominciata sin dal 1950,
quando, un anno dopo la fondazione della Cooperativa, il dirigente comunista
Ambrogio Donini aveva suggerito di nominare un nuovo consiglio di amministrazione,
versando già l‟azienda in difficoltà economiche. Nel nuovo staff compariva il nome di
Feltrinelli, inizialmente nella veste di semplice consigliere, l‟anno successivo come
consigliere delegato a fianco di Adolfo Occhetto, direttore amministrativo proveniente
dall‟Einaudi.
La Colip non ebbe una vita tranquilla ma la sua nascita e il suo sviluppo
meritano attenzione sia per il ricco e interessante catalogo delle pubblicazioni, sia per la
sorprendente rete di collaboratori, sia per le motivazioni che la produssero, sia perché fu
il trampolino di lancio dell‟attività editoriale di una casa fondamentale nel panorama
italiano e mondiale come la Feltrinelli.
Inoltre la ricostruzione dell‟attività della Colip ci obbliga a un‟analisi della realtà
della guerra fredda, ci impone un confronto con il clima culturale che si respirava in
quegli anni di fermento in una città come Milano e ci spinge a valutare come gli
intellettuali e il Partito Comunista abbiano reagito a queste sollecitazioni.
Sono anni caratterizzati da un anticomunismo violento, ossessivo. Siamo nella
fase più aspra del conflitto tra i due blocchi che sfocerà da lì a poco nella guerra di
Corea. In Italia le elezioni dell‟aprile 1948 e l‟estromissione dei comunisti e dei
4
socialisti dal governo hanno portato a un pesante clima di intolleranza ideologica contro
tutte le espressioni della cultura laica e progressista. Si avverte la minaccia di un
clericalismo asfissiante dietro il quale si consolidano le forze più conservatrici e
reazionarie. La Cooperativa del Libro Popolare in questo clima opprimente viene da
subito pensata e impostata come vero e proprio organismo politico e culturale, in difesa
delle libertà di espressione, della tolleranza e della laicità. I dirigenti del Pci che la
idearono, si proponevano, secondo l‟articolo 3 dello statuto, «di facilitare la diffusione
del libro tra i soci e le masse popolari, di contribuire all‟elevamento culturale dei soci e
dei lavoratori in genere»
1
. Di qui «la creazione di una biblioteca “Universale
Economica” che ha l‟intento di raccogliere classici antichi e moderni, opere di storia e
di pensiero, romanzi e racconti di scrittori contemporanei di ogni paese, libri di scienza
popolare e di presentarli in decorosa veste editoriale, a un prezzo modicissimo. […] la
Cooperativa per il Libro Popolare, mediante la “Universale Economica” offre
finalmente a tutti gli italiani gli strumenti per educarsi ed istruirsi modernamente,
all‟infuori e contro le prescrizioni di una cultura sociale conformista e retriva»
2
. Alla
base di questo ragionamento sta la convinzione e la fiducia che il partito non possa che
trarre beneficio da un progressivo elevamento culturale delle masse popolari; è opinione
diffusa che emergere dall‟ignoranza da un lato, e aderire al Pci dall‟altro, siano due
momenti coincidenti.
La Cooperativa del Libro Popolare era stata fondata il 7 marzo del 1949, in un
momento di estremo fermento culturale in un‟Italia appena riemersa da un ventennio di
torpore e totale apatia. Gli italiani cominciavano a riprendere fiducia, i lutti e i danni
della guerra, se non dimenticati, avevano lasciato spazio alla voglia di ricominciare, di
ricostruire. Un sommesso benessere si apprestava a fare capolino dalle rovine degli anni
lasciati alle spalle e con esso spuntavano nuovi interessi e, tra gli intellettuali e gli
artisti, il desiderio di svecchiare la cultura con tutto il suo ciarpame, di riavvicinarla alle
grandi correnti di pensiero del resto dell‟Europa. Sorsero come funghi gallerie d‟arte e
case editrici, teatri, giornali e riviste. Risorsero in quel periodo le edizioni popolari.
Prima dell‟avvento del fascismo, infatti la casa editrice Sonzogno aveva inaugurato un
fenomeno destinato ad essere imitato nel tempo. Con i piccoli volumi rilegati di colore
grigio del costo di una lira, i classici arrivavano, come scrisse Calvino, «in case dove la
scuola non li avrebbe mai fatti giungere»
3
. Il fascismo una volta al potere si guardò bene
1
Statuto e catalogo Cooperativa del Libro Popolare, Istituto Gramsci, Bologna.
2
Giovanni Titta Rosa, Leggeremo un libro al giorno, in «Vie Nuove», IV, 24, 12 giugno 1949.
3
Italo Calvino, Libri per pochi e libri per tutti, in «L‟Unità», 22 giugno 1949.
5
non solo dal favorire il processo di diffusione della cultura tra le classi più povere, ma
addirittura dal conservare le iniziative sorte nei primi decenni del secolo a opera, in
particolare, del movimento socialista. Terminato il conflitto ecco però riapparire le
edizioni economiche e, tra queste, la collana del Canguro della Colip.
La Feltrinelli editore nasce quando ormai la Colip sta esaurendo il suo compito:
siamo nel 1955, un anno prima del XX Congresso del PCUS, della pubblicazione del
rapporto Krusciov, delle rivolte di Poznan e di Budapest, il Pci avrà altri problemi di cui
occuparsi e si potrà permettere di abbandonare l‟editoria, lasciandola comunque nelle
mani di un suo militante sul quale è sempre stato facile esercitare il proprio controllo.
A mano a mano, però, il giovane Giangiacomo si allontana e si libera dall‟alveo
del Partito, effettuando scelte sempre più coraggiose e spesso in contrasto con
l‟ortodossia comunista contribuendo alla sua crisi in un periodo già così complesso e
problematico. Ma saranno proprio queste pubblicazioni di avanguardia a determinare il
successo della casa editrice in un‟ottica di continuo rinnovamento della cultura italiana.
La grandezza della Feltrinelli, e del suo fondatore in primo luogo, sarà appunto la
capacità di una costante apertura verso la novità, verso le tendenze più innovative e la
continua tensione verso la sprovincializzazione della cultura italiana. Tutto ciò risulta
evidente anche a una prima lettura del catalogo storico della Feltrinelli relativamente a
quei primi anni, in cui saltano agli occhi alcune famosissime opere che hanno
sostanzialmente contribuito a modificare il panorama della letteratura mondiale, primo
tra tutti il caso internazionale del Dottor Živago. Ma non si può sottovalutare il piglio
manageriale che per primo Feltrinelli ha portato in un settore dell‟industria ancora per lo
più inteso come attività artigianale e familiare. Non si può tralasciare la sua intuizione
di affiancare alla casa editrice una rete di librerie che facilitasse, da un lato, la diffusione
e la distribuzione dei volumi e, dall‟altro, grazie alla modernissima architettura e alla
disposizione nuova degli scaffali, dei volumi e delle luci che creavano un ambiente
accogliente e invitante, l‟ingresso dei lettori in quelli che, fino a pochi anni prima, erano
considerati, dall‟uomo comune, alla stregua di templi del sapere e perciò quasi
inaccessibili.
Nel corso di questo studio ci proponiamo infine di analizzare questi e altri aspetti
innovativi che caratterizzarono la casa editrice milanese nel corso dei suoi prima anni di
vita e di come essi abbiano influito sul contesto storico, sociale e culturale di un‟Italia
appena ridestata dopo venti anni di dittatura autarchica e fascista, accesa ora da un
6
fermento che nell‟arco di una decina d‟anni la condurrà all‟esplosione abbagliante del
boom economico.
7
1. L’ambiente culturale a Milano negli anni Cinquanta
1.1 Il risveglio dopo la Liberazione
«E' giunta la grande giornata: Milano insorge contro i Nazifascisti».
È il 26 aprile 1945. Persino il «Corriere della Sera», per eccellenza organo di
informazione di una Milano alto-borghese e liberale, si colora di antifascismo e saluta la
libertà riconquistata.
È il segnale di un nuovo clima culturale che si è andato sviluppando durante le
ultime fasi della guerra di Liberazione e che finalmente può emergere e dilagare nelle
piazze.
Dopo venti anni di silenzio e di torpore la cultura si risveglia e si innalza a
protagonista della ricostruzione di un paese stremato e mortificato dalla guerra.
Milano è l‟epicentro di questa nuova agitazione culturale che si propaga nei mesi
che seguono il 25 aprile: tutti i gruppi sociali operosi partecipano alla tensione
rinnovatrice. Nell‟ultimo periodo del conflitto la Resistenza riesce a mobilitare tutta una
città, alimentando e accendendo energie e aspirazioni prima latenti o disperse. Si
realizza in queste prime fasi un incontro fecondo tra il movimento operaio milanese e
una borghesia cittadina incline al rinnovamento. Ne è una prova lampante il risultato
elettorale delle prime elezioni amministrative in cui i due partiti della sinistra ottengono
addirittura il 61% dei voti
4
. La definizione di Leo Valiani («Milano capitale del 25
aprile») suona quanto mai appropriata.
Il capoluogo lombardo è il modello ideale verso cui guarda tutto il paese. Uno
sguardo panoramico sull‟attività culturale della città in quei primi mesi dopo la
Liberazione è quanto mai suggestivo, segnato dalla fioritura di mille iniziative e da un
fervore appassionato.
L‟ideologia dell‟antifascismo anima quelle vivacissime esperienze culturali.
Essa si è formata durante la guerra e la Resistenza ed è caratterizzata da una
prorompente tensione morale e da una profonda ansia di rinnovamento politico, sociale,
culturale. In quel periodo l‟antifascismo è davvero forza pervasiva, vivificante e
unificante di tutta la vita milanese e delle sue espressioni culturali.
Si pubblicano numerosissime riviste che spaziano nei più diversi campi
5
.
4
Nando Dalla Chiesa, Il comportamento elettorale dal 1943 al 1963, in Milano anni Cinquanta, a cura di
Gianfranco Petrillo e Adolfo Scalpelli, Milano, Franco Angeli, 1986, pp. 546-581.
5
Sulle istituzioni culturali milanesi nel dopoguerra si veda: Milano com’è, Milano, Feltrinelli, 1962. Di
grande interesse anche numerosi saggi compresi nella citata miscellanea Milano anni Cinquanta.
8
La più famosa e importante è certamente «Il Politecnico» di Elio Vittorini, edita
da Giulio Einaudi, che può essere considerata una guida preziosa per capire che cosa
animi quegli intellettuali che si gettano nell‟impegno politico e culturale. Già la prima
pagina del primo numero, datato 29 settembre 1945, svela, con singolare chiarezza, ciò
che agita la coscienza degli intellettuali milanesi
6
.
In alto a destra è riprodotta la fotografia di un ferito che detta ad un compagno,
chino addosso a lui con un block notes in mano, le sue ultime volontà. Nella didascalia
leggiamo: «I caduti per la libertà di tutto il mondo ci hanno dettato quel che
scriviamo»
7
. La cultura dunque si erge a testimone degli orrori della guerra e si propone
come interprete delle speranze e delle aspettative della Resistenza. Lo stesso direttore
nell‟editoriale intitolato inequivocamente Una nuova cultura auspica all‟avvento di una
cultura che, «non più consoli nelle sofferenze», ma «che protegga dalle sofferenze, che
le combatta e le elimini».
Immediatamente prima della Liberazione, nel pieno della lotta armata contro gli
occupanti nazifascisti, erano apparse a Milano due riviste clandestine che segnano la
netta presa di coscienza da parte dei dirigenti del Partito d‟Azione nel nord della
necessità di preparare organicamente il non lontano passaggio dai problemi della
cospirazione e della resistenza armata ai problemi della riorganizzazione e della
ricostruzione democratica. Queste due riviste sono «Lo Stato moderno», diretta da
Mario Paggi e Gaetano Baldacci, e i «Nuovi quaderni di Giustizia e Libertà», diretti
inizialmente da Franco Venturi e Leo Valiani, a cui succedettero Riccardo Lombardi e
Mario Dal Pra. Entrambe si collocano, come abbiamo visto, nella sfera del Partito
d‟Azione ma, mentre la prima è espressione dell‟ala di destra, la seconda è interprete
della frangia più giacobina e rivoluzionaria riallacciandosi evidentemente alla filosofia
di Carlo Rosselli che tra il 1932 e il 1935 avevo diretto a Parigi i «Quaderni di Giustizia
e Libertà».
Un‟altra rivista che assunse un significato importante è «La Rassegna d‟Italia»,
diretta da Francesco Flora. Espressione della cultura laico-liberale legata al pensiero di
Croce, si propone come terza forza ugualmente distante dalle posizioni radicalmente
innovatrici della cultura di estrema sinistra (che aveva trovato la sua naturale
manifestazione nel «Politecnico») e dal pensiero confessionale, cercando di promuovere
l‟avvicinamento di artisti e intellettuali delle posizioni più diverse. Anche se Flora non
6
Nelle citazioni di «Politecnico» ci siamo avvalsi della ristampa de apparsa a Torino presso Einaudi nel
1975.
7
«Il Politecnico», I, 29 settembre 1945, p. 1.
9
faceva esplicito riferimento all‟antifascismo, esso appariva la sottintesa premessa di
tutto il suo discorso, nella condanna dei passati errori, nel richiamo alle responsabilità
della cultura.
Anche i quotidiani partecipano al nuovo clima di rinnovamento e di fiducia. Non
solo i giornali di orientamento palesemente progressista come l‟«Unità» e l‟«Avanti!»,
che riprendono le pubblicazioni dopo lunga clandestinità, celebrano con fervore il
ritorno della libertà di stampa, ma lo stesso «Corriere della Sera», come abbiamo già
sottolineato, sotto la nuova direzione di Mario Borsa, si schiera su posizioni
democratiche e repubblicane. Ma la novità fondamentale fu il pluralismo prodotto dal
lancio di nuovi quotidiani: «Milano Sera», il quotidiano del pomeriggio, a lungo diretto
da Corrado De Vita, appare in edicola nell‟agosto 1945; «Il Tempo» esce a Milano nel
maggio 1946; «Il Corriere di Milano», di ispirazione laico-radicale e diretto da Filippo
Sacchi, colloca le sue pubblicazioni tra il settembre ‟47 e il giugno ‟48; in area liberale,
ma con spunti democratici e progressisti, si colloca anche «La Libertà» che viene
stampata fin dal 26 aprile 1945, così come lo storico giornale del Partito Popolare e ora
della Democrazia Cristiana, «Il Popolo», che ricompare immediatamente dopo la
Liberazione.
Sorprende inoltre la grande diffusione degli interessi filosofici in una città che
non aveva mai dimostrato una grande e profonda propensione in materia. Milano
diventa il punto di riferimento per un orientamento nuovo che si pone in contrasto
all‟idealismo che dominava in Italia da diversi anni. Il principale centro di propagazione
di questa riflessione fu la scuola che si andò formando intorno alla figura di Antonio
Banfi e alla sua rivista «Studi Filosofici» edita dal ‟40 al ‟44, interrotta dalla censura
fascista, e che riprende le pubblicazioni nel ‟46. Attorno a Banfi ruotano giovani
studiosi di valore come Giovanni Maria Bertin, Enzo Paci, Giulio Preti, Remo Cantoni e
molti altri collaboratori accomunati da una sensibilità per le correnti di pensiero
europeo, che Banfi stesso fu tra i primi ad accostare e far conoscere in Italia. Si tratta,
nel complesso, di un gruppo di intellettuali dai molteplici interessi, che negli anni del
conflitto e del dopoguerra polarizza intorno a sé larga parte della vita intellettuale
cittadina.
In aperto contrasto con gli orientamenti banfiani, tendenzialmente anticattolici e
materialistici, si schiera un‟altra rivista di carattere filosofico, che era stata fondata fin
dal 1908, la «Rivista di Filosofia Neoscolastica», pubblicata dall‟Università Cattolica
del Sacro Cuore.
10
Persino l‟attività artistica e la ricerca estetica subiscono in quegli anni una
fioritura inaudita. Grazie soprattutto al sodalizio culturale e artistico formatosi attorno a
«Corrente», la rivista fondata nel 1938 da Ernesto Treccani, Milano si trova
ripetutamente ad essere epicentro della controversia sostanziale del dopoguerra, l‟urto
tra realismo e astrattismo.
Non si può, infine, tralasciare un‟altra iniziativa fondamentale di quel periodo di
rinnovamento che ha cambiato radicalmente la stessa idea di teatro, il rapporto non solo
col pubblico ma anche con gli autori: il Piccolo Teatro, inaugurato nel maggio 1947 e
diretto da Giorgio Strehler e Paolo Grassi. Il grande merito del «Piccolo» è stato di
scoprire un nuovo pubblico, composto non dalla borghesia abbiente che frequenta in
genere i teatri, ma di spettatori che normalmente a teatro non vanno: intellettuali,
studenti, impiegati e operai, favoriti dalla politica di prezzi offerta dal «Piccolo». Ha
saputo inoltre stringere legami con personaggi del mondo letterario contemporaneo,
coinvolgendoli in esperienze nuove e stimolanti.
Ma quello che più impressiona, in questo quadro di insieme, ancor più del
numero e della qualità delle iniziative culturali, è la comunanza di intenti e di
orientamenti che delinea nel panorama culturale italiano un discorso “milanese” ben
definito e caratterizzato.
Esempio lampante di questa consonanza di intenzioni è l‟intrecciarsi dei
programmi dei due principali progetti culturali che si sono sviluppati nell‟immediato
dopoguerra a Milano, a cui abbiamo già dedicato un breve accenno ma il cui studio è
utile approfondire appunto per ritrovarvi quelle linee essenziali che hanno caratterizzato
l‟intero movimento culturale di quegli anni. Il riferimento è al «Politecnico» di Vittorini
e alla Casa della Cultura
8
, il cui principale organizzatore ed animatore fu Antonio Banfi.
La Casa della Cultura viene costituita nel marzo 1946, sotto la direzione di
Ferruccio Parri, con lo scopo di «promuovere e coordinare l‟attività culturale e di
favorire i rapporti tra quanti, sia privati che associazioni o enti, si occupano di problemi
8
Sulla Casa della Cultura si vedano nel citato volume Milano anni Cinquanta i due interventi di
Mariachiara Fugazza, Dal Fronte della Cultura alla Casa della Cultura, pp. 828-852, e di Arturo
Colombo, Il paesaggio culturale. A colloquio con Carlo Bo, pp. 685-708; e il volume Politica e cultura.
Per un rinnovato rapporto tra memoria, scelta politica e progetto, a cura della Casa della Cultura di
Milano, Milano, Franco Angeli, 2006. L‟attività della Casa della Cultura può essere divisa in due fasi:
durante la prima fase, che va dal ‟46 al ‟48, essa si afferma come centro propulsore di tutta la vita
culturale milanese. Può avvalersi di un direttivo di straordinario prestigio e di una sede come l‟ex clubino
dei nobili, in via Filodrammatici. La seconda fase si colloca dopo pausa di attività causata dalla crisi del
‟48. La Casa della Cultura risorgerà dal ‟51 in altra sede, in via Borgogna, e con caratteristiche molto
diverse. Diventerà di fatto un organismo culturale a dominanza comunista.
11
culturali, offrendo loro un accogliente centro di ritrovo»
9
. Insieme a Parri presidente,
l‟istituto è coordinato da due vice, Antonio Banfi e Edoardo Majno, col sostegno di
Antonio Greppi, allora sindaco. Fin dall‟inizio la Casa della Cultura aspirava a
raccogliere tutte le tendenze, tutte le correnti culturali, senza differenza né pregiudiziali
ideologiche. Nel consiglio direttivo figuravano infatti Gian Carlo Pajetta e Cesare
Merzagora, Raffaele Mattioli e Alberto Mondadori, Elio Vittorini e Francesco Flora,
Giovanni Titta Rosa e Mario Borsa, in pratica l‟intero arco del Cln. Fondamentale fu
però il ruolo svolto da Banfi, vero responsabile e promotore delle iniziative della Casa.
Vittorini e Banfi impersonano quindi il prototipo dell‟intellettuale della Milano
degli anni ‟40, pur possedendo due personalità diversissime. Entrambi partecipano alla
Resistenza e quell‟esperienza rappresenta uno snodo decisivo per la loro elaborazione e
produzione culturale. Subito dopo la Liberazione si dedicano con entusiasmo
all‟impegno politico e culturale. Partecipano insieme al Comitato promotore del Fronte
della Cultura
10
e poi, dal marzo ‟46, entrambi entrano a far parte del Comitato direttivo
della Casa della Cultura.
Mentre, come abbiamo sottolineato, Banfi si fa animatore della Casa della
Cultura, Vittorini concentra tutte le sue energie sulla rivista «Il Politecnico». Tra queste
due esperienze culturali è ravvisabile un evidente legame organizzativo e tematico, una
comune ricerca, al punto che Rossana Rossanda potrà definire la «prima» Casa della
Cultura come il «“Politecnico” parlato». Lo stesso Banfi partecipa all‟ideazione del
progetto editoriale e collabora attivamente alla sua realizzazione, senza però entrare a
far parte della redazione operativa. Lo faranno invece alcuni suoi allievi, come Giulio
Preti e Remo Cantoni, che interverranno attivamente conferendo un‟impostazione
decisiva agli articoli di argomento filosofico.
Banfi e Vittorini sono spinti da un identico bisogno: diffondere una nuova
cultura. Significativamente il n. 27 del «Politecnico» così saluta la ripresa delle
pubblicazioni da parte di «Studi filosofici»: «Un umanesimo radicale completo […] è
ciò che vuole “Studi Filosofici”, è ciò che vuole “Il Politecnico”. E il raccostamento non
9
Articolo 2 dello Statuto della Casa della Cultura. Una copia di esso è conservata nell‟attuale sede di via
Borgogna.
10
Sul Fronte della Cultura si veda: Mariachiara Fugazza, Dal Fronte della Cultura alla Casa della
Cultura, cit., pp. 835-843. Il Fronte della Cultura, costituitosi a guerra appena conclusa, nell‟aprile ‟45, si
propone «di raccogliere tutte le energie vive della cultura italiana perché essa, rinnovandosi, e in stretta
collaborazione con le forze popolari» diventasse «un fattore positivo e operante della rigenerazione del
paese». In esso convergono intellettuali antifascisti milanesi di orientamento assai diverso. Sua
caratteristica peculiare è un «lavoro di massa» finalizzato a promuovere conferenze e corsi di studio nelle
fabbriche, nei rioni e nelle scuole. Gli argomenti di questi corsi si articolavano su proposte dirette dei
partecipanti. Esso esaurisce la sua attività nel 1948. Il progetto del Fronte della Cultura è riconducibile al
confronto di idee sviluppatosi tra Banfi e Curiel durante la Resistenza
12
è casuale: Banfi ed alcuni redattori della rivista filosofica ancora durante il periodo nazi-
fascista hanno lavorato con Eugenio Curiel e con Elio Vittorini ad elaborare i concetti
ispiratori de “Il Politecnico”, di cui ora sono collaboratori; “Studi Filosofici” si propone,
su di un piano diverso con mezzi diversi, di combattere la stessa battaglia»
11
.
«Un umanesimo radicale completo»: ecco, secondo i redattori del «Politecnico»,
il punto di contatto tra le due esperienze.
Per Vittorini il filo conduttore della battaglia politica e culturale è sicuramente
un umanitarismo universalistico, animato da un‟appassionata tensione morale.
Il concetto di cultura che emerge infatti dalla dichiarazione programmatica
offerta dal n. 2 del «Politecnico» è un concetto di tipo illuministico che si riallaccia
palesemente a quello esposto un secolo prima da Carlo Cattaneo, il fondatore del primo
«Politecnico» nel 1839, basato sulla convinzione che «la cultura debba partecipare
attivamente e direttamente alla rigenerazione della società» e per ottenere questo
altissimo risultato «la cultura non potrà prescindere dal contatto continuo con le masse».
Banfi, che già negli anni Trenta ha delineato le coordinate del suo «razionalismo
critico» che integra esperienza e ragione in una prospettiva non dogmatica, aperto sia al
recupero delle filosofie della crisi sia alla tradizione copernicano-galileiana, durante la
Resistenza aderisce al marxismo.
Razionalismo critico e materialismo storico convergono per Banfi nel richiamo
alla storicità, nel carattere teoretico-pratico del principio di razionalità e nell'impegno
ricostruttivo, anche in senso sociale, proprio della ragione.
In questa visione il marxista ha in comune con il razionalista l‟ideale dell‟uomo
copernicano di cui Galileo Galilei è l‟emblema storico. Banfi vede in Galileo «l‟uomo
che, sciolto dall‟illusione di essere centro e ragione dell‟Universo, si pone nella libertà
del pensiero di fronte alla concreta realtà, agli effettivi problemi della sua vita e, tuffato
nella storia, li risolve nella chiara coscienza della relatività personale e sociale di tale
soluzione, costruendo con tenacia e fervida fatica il proprio regno libero e progressivo,
mentre nella fermezza di tale opera infinita riconosce la sua più alta fede e il suo vero
eroismo»
12
.
Nel pensiero banfiano tale convergenza operò soprattutto come esigenza e
programma di carattere generale, nonché come criterio di impegno culturale e politico.
11
Tre riviste [nota redazionale], in «Il Politecnico», II, 27, 30 marzo 1946, p. 4.
12
Antonio Banfi, L’uomo copernicano, Milano, Mondadori, 1950, p. 37.