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Le incessanti trasformazioni degli ambienti sociali, economici,
organizzativi e lavorativi sottolineano l’esigenza che gli individui
acquisiscano maggiori capacità e possibilità di continuare ad
apprendere, permettendo loro di rinnovare più frequentemente le
proprie conoscenze e capacità. Questi mutamenti evidenziano inoltre
la perdita di ancoraggio di alcune categorie forti di riferimento quali
quelle di mestiere, di mansione e di ruolo: il riferimento emergente è
ora rivolto al concetto di competenza.
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PRIMA PARTE
CAPITOLO 1
APPRENDIMENTO E AUTOAPPRENDIMENTO
1.1 UN MONDO CHE CAMBIA
La funzione dell’individuo all’interno dell’organizzazione è da tempo
sulla via del cambiamento. Anche se le aziende continuano ad
intervenire sui comportamenti, gli atteggiamenti e i valori delle
persone che lavorano attraverso regole, azioni persuasive e
manipolatrici, è ormai inevitabile che il soggetto diventi più libero e
consapevole dei cambiamenti che può apportare all’organizzazione.
La complessità del cambiamento in atto è dovuta all’incertezza di un
reale processo di auto-educabilità e alla soggettivazione degli effetti
dell’apprendimento per cui solo il soggetto alla fine può dire se ha
imparato e come. L’organizzazione oggi rimanda agli individui la
responsabilità del proprio apprendimento e quella di confrontarsi e
trovare occasioni relazionali. Il vero artefice dei significati attribuibili
al proprio apprendimento nelle diverse situazioni è il soggetto stesso
che diventa in questo modo la variabile aleatoria del sistema.
L’individuo che lavora non è più chiamato solo ad eseguire ma a
dimostrare quanto realmente vale, conquistando la possibilità di
cambiare l’organizzazione stessa.
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Stanno emergendo nuove forme di adultità che non si riconoscono solo
nell’elemento positivo del “fare-bene” e del “bene-stare” nei luoghi di
lavoro ma anche in aspetti che includono l’errore, la crisi, la
contraddizione (Fontana, 2004).
Se prima infatti gli adulti avevano un determinato percorso chiuso di
apprendimento, spesso finalizzato al raggiungimento di una data
professione, oggi giorno il singolo individuo è anche libero (o
costretto) a inventare e a inventarsi.
L’azienda si trova obbligata ad affrontare questo paradosso per cui
chiede all’individuo di esprimere attraverso la sua creatività, la sua
intelligenza, le sue motivazioni nuove scelte, di dare il meglio in ogni
situazione, anche in quelle mai affrontate prima d’ora, di assumersi
responsabilità, dandogli in questo modo l’opportunità di far vedere
quanto vale, di proiettare nel lavoro oltre a capacità intellettuali,
soprattutto capacità emotive. Ma nel momento in cui l’organizzazione
si rende conto che la persona davvero può riuscire bene, al di là di
precisi ordini, ma solo grazie alle sue capacità, non è pronta ad
ammettere la sua bravura, a gratificare, a premiare queste doti. Non è
pronta a consegnare autorità e potere.
Bisogna allora confrontarsi col comando, con la persuasione, con la
manipolazione, con prestazioni che richiedono di essere progettate ma
che spesso non lo sono; tutto questo può rappresentare un’esperienza
fortemente educativa, ma a tratti traumatica e dall’esito per niente
scontato.
Ognuno si confronta con le proprie apicalità esistenziali e tutti sono
chiamati a includere – in un processo di auto-educazione interiore –
queste apicalità dentro di sé.
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L’autoapprendimento è questo reinventarsi ogni giorno. Al di là di ciò
che vuole l’organizzazione è il soggetto stesso che deve voler cercare
in ogni situazione di crescere, cambiare e mettersi in discussione,
temendo le difficoltà, gli insuccessi ma comunque affrontandoli.
Volendo approfondire questo tema come conclusione di un percorso
scolastico e di vita che mi ha fatto crescere come mai avrei pensato, mi
sarebbe piaciuto trovare una definizione che riuscisse a esprimere cosa
significhi per me il concetto dell’autoapprendimento. Ho riflettuto
pensando all’esperienza trascorsa, alle parole lette nei testi, a quelle
ascoltate a lezione ma ho spesso confuso temi che sembravano in
apparenza similari, non avendo chiaro soprattutto quale contributo
venisse offerto dalla consapevolezza all’ambito dell’apprendimento.
Sono riuscita a venire a capo di questo piccolo dilemma attraverso il
confronto con l’altro che mi ha portato a riflettere con più attenzione,
considerando sotto una luce diversa i temi presi in considerazione.
Questo ha sottolineato l’importanza del diverso da sé come figura
indispensabile per qualunque tipo di apprendimento, crescita e
cambiamento, indirizzandomi sulla strada giusta. Ho deciso quindi di
riportare la differenza che intercorre, secondo le riflessioni fatte, tra
apprendimento (consapevole) e autoapprendimento, proseguendo poi
con la descrizione delle conseguenze derivanti dalla presa in carico di
questo percorso.
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1.2 CHE COS’È L’APPRENDIMENTO
L’apprendimento è qualcosa di fondamentale per la realizzazione del
proprio essere. È un’opportunità che ci viene data di conoscere,
diventare competenti nel lavoro come nella vita, un percorso da seguire
che parte dalla relazione con l’altro, passa attraverso un’autoriflessione
e arriva alla consapevolezza di chi siamo, di ciò che possiamo dare, dei
nostri limiti.
Apprendimento è ciò che si svolge con lo svolgersi della vita: è ciò che
accade ogni giorno, è l’esperienza del sempre, il patrimonio scaturante
dagli spazi e dalle frequentazioni del nostro lavorare, del nostro
divertirci, del nostro riposare, da tutti gli incontri che si fanno e da
quelli a cui si manca. Sembrano delle frasi fatte, date per scontate,
eppure credo che siano poche le volte in cui davvero si è consapevoli
di questo. Ho capito meglio cosa significasse apprendimento nel
momento in cui mi è stata data l’opportunità di mettermi alla prova,
iniziando un lavoro di cui non conoscevo nulla. Partire da zero e
vedere dove sarei riuscita ad arrivare. In questa esperienza, che è
ancora in corso, apprendere è stato: ascoltare, soprattutto all’inizio,
provare, fare, azzardare, subire, arrangiarsi, sopportare, pazientare,
creare dei legami, mettersi in discussione, sempre, non avere paura,
credere in se stessi.
È stato difficile, spesso frustrante ma alla fine una vittoria su quelli che
pensavo fossero i miei limiti. Ho guadagnato tantissimo sul piano
emotivo; sono stata fortunata: ho avuto dei maestri eccezionali, non
solo professionalmente ma persone, colleghi che hanno dissotterrato
una buona parte di me che neanche sapevo esistesse o ne ero a
conoscenza solo nel mio inconscio.
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È apprendimento: seguire delle regole, farle proprie e gestirle con
elasticità, modificarle e proporne altre.
C’è una frase detta, durante le prime lezioni di Psicologia della
Formazione, dal professor Quaglino che mi è piaciuta tantissimo:
“Bisogna prestare molta attenzione e segnarci cose che potrebbero
chiedermi, che io stesso potrei chiedermi e che un’altra persona potrà
chiedermi”. Percepisco quello che mi viene detto, ne costruisco una
riflessione e lo faccio talmente mio da riuscire a metterlo a
disposizione di altri. Mi sembra una cosa bellissima.
Apprendere costa fatica e mettere in atto ciò che si apprende ancora di
più. Bisogna essere aperti e consapevoli del fatto che esista un punto di
vista diverso dal nostro, anzi che ne esistano infiniti. Bisogna essere
convinti che possa servire a qualcosa altrimenti anche se ho ascoltato,
sono stato attento, ho risposto alle domande, non ho appreso nulla.
Quindi ogni istituzione della nostra comunità un ufficio pubblico, un
supermercato, un’organizzazione ricreativa, una chiesa può diventare
un luogo di apprendimento, così come lo diventano le persone con cui
entriamo in contatto: un genitore, un amico, un medico, un insegnante,
un collega, un capo, anche lo sconosciuto che incontriamo sul treno
(Knowles, 2004). Apprendere è soprattutto “contagiare”, perché
implica un contatto, una relazione. C’è l’idea di cattura, della ricerca,
della caccia. Dall’inglese to learn da learnen che è traccia, orma,
impronta, sentiero, percorso, corso, pista, binario. C’è quindi una meta,
un traguardo, rappresentato dalla conoscenza; ogni giorno facciamo un
passo in avanti. Tutte le volte che abbiamo la sensazione,
l’impressione, il sospetto di avere appreso qualcosa, lo abbiamo fatto
davvero. Siamo di fronte ad un mistero, un enigma: cosa dovrei capire
veramente? Porsi questa domanda significa essere nello stato
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dell’apprendere. DUBITARE. Scoprire un certo limite, sentire di non
aver capito. “Il vero apprendere non è all’acquisto del testo ma
all’interrogazione” (Quaglino, 2004).
“Apprendere significa imparare ad utilizzare tutte le risorse di cui
disponiamo dentro e fuori le istituzioni per trarne dei benefici sul
piano della crescita personale e dello sviluppo psicologico” (Knowles,
2004, p. 2). Anche se le occasioni di apprendimento possono essere
molteplici, è però cruciale che gli individui divengano consapevoli di
averle attraversate e di che cosa sia accaduto: la consapevolezza del
cambiamento prodotto in sé dagli eventi è la condizione
imprescindibile dell’autonomia.
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1.3 CHE COS’È L’AUTOAPPRENDIMENTO
L’autoapprendimento è un modus vivendi estremamente centrato sulla
persona, è un percorso che ciascuno può coltivare, può curare, può
seguire, per imparare, se vuole, la propria esistenza, apprendere in
modo singolare, afferrare questa propria singolarità che è
l’individuazione. Autoformazione significa operare una doppia
appropriazione del potere di formazione; significa prendere in mano
tale potere – diventarne soggetti – ma anche applicarlo a se stessi.
Questa operazione sdoppia l’individuo in un soggetto e in un oggetto
molto particolare che si può chiamare autoreferenziale. Si crea un
ambiente, uno spazio proprio che offre all’individuo una distanza
minima per considerarsi e vedersi come oggetto specifico tra gli altri,
differenziarsi da essi, emanciparsene ed autonomizzarsi.
Pre-requisito fondamentale per un reale autoapprendimento è
l’esclusione di ogni modello a cui tendere, di ogni proposta che sia
imitazione o ripetizione di ciò che deve divenire proprio. L’adulto che
si sta formando da sé, o che sta formando sé, deve essere attratto
soprattutto dalla ricerca del nuovo. Un killer dell’individuazione infatti
è la ripetizione. “La ricerca di divenire copia è la negazione di ogni
autentico percorso formativo” (Quaglino, 2002, p. 12).
Questo non significa che bisogna cercare sempre il radicalmente
nuovo, ma introdurre ogni volta una novità, una variazione, una
mutazione, una modifica; questo adulto è colui o colei che non può mai
dire di saper fare definitivamente qualche cosa. Il soggetto di tutto ciò
quindi è l’autos: l’autos è anzitutto l’identico a sé, al proprio
riconoscersi, al proprio farsi e disfarsi. Questo sé protagonista non
implica comunque un principio di solitudine introversa e narcisistica,
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non esclude in alcun modo l’altro. Possiamo infatti affermare con
certezza che nessuno può arrivare ad una autentica autocomprensione
interiore se prima non è diventato consapevole di sé come membro di
un gruppo, come un “io” confrontato con un “tu”, che completa e
realizza il suo essere (Quaglino, 2004).
L’autoapprendimento è uno status che se interiorizzato e fatto nostro
può cambiare la vita e renderla più bella. Non è apprendimento perché,
se questo è rendersi consapevole di ciò che mi accade, dei cambiamenti
che le esperienze portano nella mia vita, l’autoapprendimento è la
creazione stessa di questa situazione; è il mio sé che inventa e fa
diventare ogni circostanza un mondo da scoprire e da cui trarre
qualcosa.
Significa esporsi in continuazione e ciò implica anche una certa dose di
rischio. Posso entrare in conflitti irrisolvibili colluttando con
l’accettazione della mia incompiutezza. Quest’idea che non ci sia mai
nulla di definitivo, di compiuto appunto, lascia intendere che non si sa
esattamente quale possa essere il percorso e la strada. Ma questo in
fondo è libertà. Facciamo dei viaggi sbagliati, visitiamo città che ci
deludono e tutto sembra inutile. Ma quando c’è riflessione sul
percorso, su quello che abbiamo fatto, anche se tutto ci appare
sbagliato e senza senso, necessariamente non può esserlo, per la
riflessione che ci ha portato.
“La consapevolezza di aver messo insieme noi stessi, di essersi dati
una propria, biograficamente unica consistenza, pur nella pluralità
delle forme assunte, costituisce – in momenti diversi delle stagioni
della vita – una scoperta tra le più gratificanti e apprezzabili.
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Così come l’esperienza formativa vale se riesce ad accendere momenti
e eventi di consapevolezza e di autostima per quanto si riesce di più a
capire, a praticare, a scoprire e a trattenere; nondimeno, l’esperienza
dell’autoformazione – in quanto percezione di sé più vivida e
gratificante – si accende già negli eventi formativi di cui ci si
appropria” (Demetrio, 2002, p. 22).
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CAPITOLO 2
LE CONSEGUENZE DELL’AUTOAPPRENDIMENTO
2.1 DUE PUNTI DI VISTA
Potremmo considerare questo capitolo da due punti di vista che,
apparentemente, sembrerebbero del tutto distanti ma che, fermandoci a
riflettere, potrebbero al contrario avere molti punti in comune: le
conseguenze dell’autoapprendimento per l’individuo e per
l’organizzazione.
2.2 PER LA PERSONA
Nel primo capitolo abbiamo analizzato almeno in parte quanto un
percorso di autoapprendimento possa essere importante per la crescita
di una persona: andare alla ricerca di nuove prospettive, sviluppare al
massimo le nostre conoscenze, raggiungere in un certo senso la “testa
ben fatta” di cui parla Morin (2000). Per l’individuo l’ingegno
autoformativo deve essere nel modello di testa prima che non nel
magazzino: meglio una testa ben fatta che una testa ben piena, come
formulò Montagne. L’autoconoscenza è prima di tutto nell’architettura
dell’edificio, nel modo di pensare, nel modo di parlare, nel modo di
stare tra le turbolenze che troviamo lungo la strada del principio di
individuazione, prima che non nella quantità di roba che è stata
accumulata o semplicemente “acquistata”. Attraverso
l’autoapprendimento la persona è in grado di organizzare il proprio
sapere in modo consapevole e di servirsi in maniera del tutto
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straordinaria delle conoscenze acquisite nel momento in cui di queste
si ha necessità. Tornando a Morin “una testa ben fatta significa che,
invece di accumulare il sapere, è molto più importante disporre allo
stesso tempo di:
- un’attitudine generale a porre e trattare i problemi;
- principi organizzatori che permettano di collegare i saperi e di dar
loro senso.
[…] Comporta anche quell’intelligenza che i Greci chiamavano métis,
‘insieme di attitudini mentali (…) che combinano l’intuizione, la
sagacia, la previsione, l’elasticità mentale, la capacità di cavarsela,
l’attenzione vigile il senso dell’opportunità’ (Detienne, Vernant, 1984).
Infine si dovrebbe studiare l’arte del paleontologo e dello studioso
della preistoria, per educare alla serendipità, arte di trasformare
dettagli apparentemente insignificanti in indizi che consentono di
ricostruire tutta una storia” (Morin, 2000, pp. 15-17).
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2.3 PER L’ORGANIZZAZIONE
L’organizzazione, nella maggior parte dei casi, è ancora caratterizzata
da spinte controindividuative che non permettono alla persona una
felice realizzazione del suo percorso di autopprendimento. Infatti,
costruendo percorsi a sostegno dell’autonomia, si finisce spesso per
sgravare ulteriormente di responsabilità individuative le
organizzazioni.
Da un lato l’apprendere da sé soddisfa richieste di flessibilizzazione,
professionalizzazione e risparmio di vario genere (tempi, risorse,
ecc.). Dall’altro, però, comporta una frammentazione del processo di
apprendimento, una sottovalutazione del valore della relazione e una
svalutazione di una componente fondamentale dell’apprendere quale
quella emotiva. La persona è, infatti, lasciata da sola nel gestire i
propri sentimenti connessi alla fatica, al senso di inadeguatezza o, al
contrario, all’entusiasmo.
L’organizzazione non è ancora a favore della creazione di corsi di
formazione incentrati sull’autoapprendimento come se pensasse che da
essi nulla di buono potrebbe scaturire. Al contrario un’azienda, per
sopravvivere nell’ambito di una società post-moderna e
dell’informazione, ha sempre più bisogno di creare conoscenza e di
saperla gestire nel tempo. Il sistema dovrebbe essere in grado di
riconoscere, prima, e valorizzare poi, le conoscenze individuali.
Argyris (1980) sottolinea come gli individui siano portatori di saperi ed
esperienze, di potenzialità che l’organizzazione può sviluppare o
frustrare. L’obiettivo dell’organizzazione dovrebbe essere quello di
cogliere questi saperi e di utilizzarli al meglio indirizzandoli al
raggiungimento dei fini comuni. Per fare ciò occorre un sistema di
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direzione capace di valorizzare l’impegno, canalizzare la
partecipazione, l’immaginazione e la creatività, dare responsabilità ai
partecipanti. Tutt’altro dal tradizionale modello autoritario, con un
management orientato ai problemi di bilancio (solo quello economico)
e con potere fortemente accentrato e coercitivo. Con questo sistema si
perdono di vista tutti i processi interni, di relazione tra gli individui che
sono responsabili del benessere organizzativo e individuale. Se
l’organizzazione partecipasse alla scoperta delle competenze che gli
individui portano dentro di sé, riconoscendole, grazie anche
all’implicazione di autocontrollo e autodirezione che le persone hanno
acquisito con l’autoapprendimento, questo da singolo diventerebbe
organizzativo. Ci sarebbe a questo punto una circolarità perché dalle
potenzialità individuali, passando attraverso l’interazione di gruppo e
un sistema opportuno di direzione, si arriverebbe ad un’organizzazione
attiva, energica, propositiva che motiva i partecipanti a sentirsi membri
e ad autorealizzarsi in essa. Sostenendo il processo individuativo
personale e aiutando processi evolutivi di tipo soggettivo, si potranno
popolare le organizzazioni di individui più consapevoli, facilitando in
tal modo un recupero della “salute” organizzativa (Nonaka, 1997).
Occorre necessariamente partire dagli individui perché sono gli attori
che creano l’organizzazione e determinano successo o insuccesso del
cambiamento.