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sorella d’oltreoceano di The Sweeney: Starsky & Hutch, dai toni apparentemente più
pacati, eppure a suo tempo fortemente criticata per l’eccessiva violenza.
E’ proprio in questo contesto che matura la mise en scène di Frenzy,
penultima pellicola del regista, che può sembrare paradossale definire uno dei film di
svolta nella lunga parabola professionale hitchcockiana, tanto più alla luce degli
stretti rapporti che essa intrattiene con Il pensionante (The Lodger) del 1926; eppure
ritengo che tale proposta di definizione, avanzata in questi termini da Giorgio
Simonelli
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, trovi fondamento, da un lato, proprio nella maggior libertà che la
censura, al 1972, seppe concedere a Hitchcock e che, come abbiamo visto, il regista
ha ampiamente sfruttato, non senza suscitare aspre critiche. Una libertà che, prima di
tutto, si traduce nella duplice presenza del nudo. Presenza, questa, che mi sembra
cementare lo spiccato senso dell’equilibrio e dell’eleganza del regista: forse proprio
per bilanciare l’efferatezza della sequenza, il nudo di Barbara Leigh-Hunt è solo
parziale, mentre è arditamente totale quello della controfigura di Anna Massey, in
una scena, però, ben più sobria della precedente; da ciò scaturisce, evidentemente, un
equilibrio chiasmico che ricorda quello proprio di molte statue dell’antica Grecia.
La suddetta libertà del regista si esprime, però, oltre che attraverso il nudo,
anche nella feroce rappresentazione della violenza e della disperazione umane.
Antonomastiche, in tal senso, sono sia la sequenza dello stupro e strangolamento di
Brenda Blaney, sia la caduta dalle scale della prigione di Richard Blaney. Il rivolo di
sangue che sgorga dalla fronte di quest’ultimo, nel suo rosso cupo, è, infatti, un
indice di svolta non trascurabile, se si considera, a paragone, l’emblematica scelta del
bianco e nero in Psyco (Psycho, 1960), mirata, almeno in parte, ad evitare la
rappresentazione del sangue umano nella sua ingombrante densità scarlatta nella
celeberrima sequenza della doccia. Parallelamente, trovo impossibile non riconoscere
un valore di straordinaria originalità a inquadrature come la lenta e silenziosa
carrellata in allontanamento che, pur celandolo ai nostri occhi, ‘narra’ l’omicidio di
Babs Milligan. A conferma dello spessore e della coerenza, come sottolinea Lesley
Brill
3
, del genio hitchcockiano.
E’, dunque, quello compiuto dalla libertà espressiva di Hitchcock, un
crescendo che, in Frenzy, raggiunge il proprio climax. In tal senso, trovo illuminante
la formulazione che Chris Marker
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ha proposto, individuando nella carrellata a 360°
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nell’hotel di La donna che visse due volte (Vertigo, 1958) la metafora dell’unione
sessuale tra Scottie e Judy, il cui gradino successivo sarebbe rappresentato, sempre
secondo Marker, dalla scena dello stupro di Marnie nell’omonima pellicola, fino a
quello ben più esplicito e truce di Brenda in Frenzy. Inoltre, in quest’ultima
sequenza, l’agghiacciante ‘carnalità’ della situazione è accentuata dalla presenza del
fattore cibo. Il quadro delle violenze che portano alla morte della ex signora Blaney
risulta, infatti, volgarmente incorniciato dai voraci morsi che Bob Rusk dà alla mela
della donna. L’allusione alla mela del peccato è fin troppo ovvia – consolidata,
peraltro, dal riferimento al Kent quale ‘Giardino d’Inghilterra’, che fa
automaticamente pensare al Giardino dell’Eden – ma ritengo possa assumere una
pregnanza ancora maggiore se la si interpreta quale specchio dell’altro simbolo
teologico dominante nel film, ovvero la croce, presente tanto nella forma concreta
del crocifisso al collo di Brenda (forma a cui, forse, allude ironicamente anche quella
serpentina della spilla da cravatta di Rusk), quanto in quella più eterea delle ombre
cruciformi e dell’incrocio delle assi del baule trascinato da Rusk.
Lo strangolamento di Brenda.
Ritengo particolarmente interessante il peso che la dimensione corale, sociale
nel suo senso più pieno, viene ad assumere in una pellicola come Frenzy, troppo
semplicisticamente etichettabile come racconto delle personali e incredibili
disavventure di Richard Blaney. Anche da questo punto di vista, a mio parere, si può
trovare conferma della ricchezza e della versatilità della penultima fatica
hitchcockiana. Frenzy è prima di tutto – e forse soprattutto – un film sulla
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degenerazione del mondo, come indica l’ironica contrapposizione fra il discorso
iniziale sulla presunta purezza delle acque del Tamigi e l’approdo a riva del cadavere
di una donna strangolata. Come suggerisce, inoltre, Tania Modleski
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, la violenza a
danno delle donne, in Frenzy, non è l’opera solitaria di uno psicopatico quale Rusk,
ma è anche tendenza propria di una società patriarcale. Non è un caso che le vittime
di Bob di cui conosciamo l’identità, cioè, Brenda e Babs, siano entrambe donne
indipendenti, sostanzialmente realizzate e benestanti (Brenda ancor più di Babs, in
quanto a capo di un’agenzia matrimoniale di successo). A ben guardare, le donne
detengono una posizione finanziaria – e dunque, presumibilmente, di rilievo sociale –
più elevata rispetto agli uomini protagonisti della pellicola. Se, in questo senso,
Brenda si contrappone soprattutto a Richard, il quale ha a sua volta compiuto un
tentativo di costruzione e gestione di un’impresa, che si è, però, rivelato fallimentare,
Babs rappresenta la ‘controparte’ di Rusk; infatti, nonostante l’impiego di Babs sia
quello economicamente più modesto (se paragonato all’occupazione di Brenda) di
barista, la donna gode di maggior libertà e possibilità di realizzazione rispetto a Bob
Rusk, stando anche alle parole dello stesso fruttivendolo, il quale si autodefinisce
‘stuck’ – bloccato, ‘impantanato’, oserei dire – nella propria bottega di Covent
Garden. Questo stato di cose mi fa pensare – in quanto lo riproduce sostanzialmente
– al meccanismo delle indicibili violenze storicamente perpetrate contro la
popolazione ebraica, proverbialmente intraprendente e prospera, anche nella stessa
Inghilterra, specie a partire dall’età Elisabettiana.
Tuttavia, come sottolinea Christine Hoff Kraemer
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, non sono esclusivamente
individui di sesso maschile a promuovere una mentalità ed un’ideologia di stampo
patriarcale e conservatore; lo dimostra il fatto che la barista Maisy si interessi ai
dettagli più turpi dei delitti compiuti dal ‘necktie murderer’, chiedendo a due suoi
viscidi clienti conferma del fatto che il killer, prima di uccidere le sue vittime, le
violenta anche. Più o meno consciamente, la macabra curiosità di Maisy è, forse, spia
della sua invidia nei confronti di donne più felici e realizzate di quanto non possa
dirsi lei stessa.
E’ una prospettiva che definirei, inoltre, edipica a fare da sfondo al mondo
disilluso dei personaggi di Frenzy. Edipica in due sensi: il primo e più evidente
riguarda il legame tra Bob Rusk e la madre; lo si sfiora, en passant, in una sequenza
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del film e in una successiva battuta dello strangolatore, che pure bastano ad insinuare
nello spettatore il sospetto di un attaccamento malsano – se non, morboso – di Rusk
alla donna; inoltre, come scrive Thomas M. Leitch
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, la sequenza in questione
costituisce un efficacissimo esempio di ‘Hitchcock moment’, che, da solo, è
sufficiente a ‘rievocare un’intera generazioni di madri letali’.
Ma l’‘edipicità’ di Frenzy risiede anche in un altro elemento, più sotteso ma
non per questo meno rilevante, quale il fatto che, così come nell’universo socio-
culturale e morale del disgraziato re Edipo la colpa rappresenta una sorta di
indesiderata eredità, un germe che, al pari di un’epidemia, si trasmette di generazione
in generazione – tant’è che ai figli (si pensi ad Antigone, in particolare) è
assurdamente preclusa la possibilità di essere esentati dalle colpe dei padri – così, in
Frenzy, violenza e crudeltà non sono prerogativa esclusiva di soggetti palesemente
disturbati come Rusk, ma appartengono anche a individui più subdolamente gretti e
meschini (si pensi, di nuovo, alla barista Maisy e ai suoi due clienti, in una delle
prime sequenze del film).
Come se non bastasse, crudeltà, violenza e colpa contagiano potenzialmente anche
noi spettatori. E’ quanto ci accade, ad esempio, di fronte all’omicidio di Babs. Esso
viene, infatti, taciuto ai nostri occhi, sebbene non per nostra scelta. Oltre che nella
sequenza dell’uccisione di Babs, l’apparente esclusione dello spettatore da certi
eventi è promossa anche in un altro momento cruciale della pellicola: il processo di
Blaney. Se è vero che la porta chiusa dell’aula del tribunale viene aperta solo nel
momento in cui il giudice pronuncia la sentenza per risparmiare allo spettatore una
ridondante esposizione dei fatti (così come, del resto, il fatto che l’omicidio di Babs
non venga mostrato vuole evitare un effetto di ‘saturazione’ nello spettatore, per
ammissione dello stesso Anthony Shaffer, il quale dissuase Hitchcock
dall’inserimento di una seconda scena di violenza tanto esplicita quanto quella
dell’uccisione di Brenda), la medesima porta chiusa contribuisce a sottolineare come
la depravazione scorra appena sotto la superficie della vita quotidiana, hidden in
plain sight, come vuole una felice espressione della lingua inglese. Eppure questa
sorta di omertà forzata in cui lo spettatore viene relegato, sembra volerci rendere
complici, nel senso di quella indifferenza – o almeno parziale presa di distanza – che
determina in noi.
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Per quanto inconsapevolmente, anche noi ci troviamo, quindi, coinvolti in
dinamiche di potere patriarcali, fatto dimostrato dall’intrattenimento che deriviamo
dalla visione di sequenze truci come quella dell’omicidio di Brenda, o quella della
lotta tra Rusk e il cadavere di Babs nel sacco di patate, durante la quale siamo
paradossalmente spinti a ‘tifare’ per Rusk (cfr. pag. 17).
Se, come sottolinea Christine Hoff Kraemer, non vi è alcuna indicazione di
piacere da parte di Brenda durante le sevizie di cui è vittima, i movimenti sinuosi
della macchina da presa, facendo leva sul nostro voyeurismo in un modo che anticipa
sorprendentemente l’era dei reality shows, sembrano voler conferire una qualche
venatura sensuale alla scena stessa, tant’è che in questa sequenza, a mio avviso, trova
pienamente conferma l’intuizione truffautiana secondo la quale Hitchcock avrebbe
tendenzialmente girato le scene di violenza come se fossero scene d’amore e,
viceversa, le scene d’amore come se si trattasse di scene di violenza. Inoltre, non
possiamo dimenticare il commento di uno degli ispettori di Frenzy a proposito delle
‘ripped whores’ che i turisti si aspettano di vedere nelle piazze londinesi; per quanto
volgare e cinica, tale osservazione corrisponde, nella sostanza, a verità: la criminalità
seriale stimola, come pochi altri comportamenti umani, il lato più oscuro della nostra
curiosità e riesce, pertanto, a costituire una fonte di attrattiva turistica innegabile.
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Questa presunta complicità corale rappresenta, tra l’altro, il leitmotiv del
primo e più lungo trailer di Frenzy, di cui riporto la memorabile sceneggiatura:
2’50”
<clip of Alfred Hitchcock>
‘I dare say you are wondering why I am floating around London like this.
I’m on the famous Thames river, investigating a murder. Rivers can be very
sinister places and in my new film, Frenzy, this river you may say, was the
scene of a very horrible murder.’
<clip>
‘It’s a woman.’
‘Another necktie murder.’
<voice of Alfred Hitchcock>
‘Of course, one can never be sure where danger lurks. They tell me a
dreadful crime was committed right in this building. My investigation next
lead me to this innocent alley of which there are hundreds in London. But I
don’t think we should stay long. Something unpleasant is about to happen.’
<cards>
FRENZY
FRENZY
<clip of Alfred Hitchcock>
‘Here is the scene of another horrible murder. This is the famous London
wholesale fruit and vegetable market, Covent Garden. Here you may buy the
fruits of evil and the horrors of vegetables. I’ve heard of a leg of lamb, a leg
of chicken but never a leg of potatoes.’
<clip>
‘Hey, what’s wrong?’
<clip of Alfred Hitchcock>
‘How do you like my tie? How do you like it?’
<clip>
‘My god, the tie!’
<scream>
<cards>
ALFRED HITCHCOCK’S
FRENZY
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Come affermò lo stesso regista del trailer, Michael Goodwin, Hitchcock
‘recita’ in esso ben tre ruoli: assassino, vittima e regista del film pubblicizzato.
Questi ruoli rappresentano, dunque, nelle parole di Goodwin, ‘proiezioni
frammentate di [Hitchcock] stesso’. Il regista si propone, quindi, prima ancora degli
spettatori della sua opera, quale ‘complice’, almeno morale, del killer protagonista.
Ecco, dunque, come da subito la macchia della colpa deborda al di fuori dei suoi più
immediati e scontati argini.
A tal proposito, sarebbe intrigante – per quanto improbabile l’eventualità di
un riscontro positivo – indagare su un’eventuale familiarità del regista britannico con
l’opera di una filosofa francese, amatissima, peraltro, dalla nostra connazionale Elsa
Morante: Simone Weil; e, più precisamente, con i suoi Cahiers de Marseille
8
. E’,
infatti, in questa sorta di ‘Zibaldone’ marsigliese che l’autrice propone
un’interessantissima riflessione sul tema della violenza e della colpa che,
indipendentemente da una frequentazione dell’opera della Weil da parte di
Hitchcock, può trovare applicazione in Frenzy (e, più ampiamente, in buona parte
della cinematografia hitchcockiana). Un concetto essenziale espresso da Simone
Weil è che la violenza rappresenti un’arma a doppio taglio, ovvero, nelle parole della
stessa filosofa, ‘una spada a due punte’, la quale non si limita a ‘contaminare’ colui
che se ne serve, ma, paradossalmente, macchia con la propria colpa anche le sue
vittime. Tale riflessione trova la sua rielaborazione più dolorosamente riuscita in due
personaggi dell’opera di Elsa Morante, il piccolo Useppe e il giovane Davide Segre
de La storia (1974), come suggerisce Concetta D’Angeli
9
. Eppure una condizione
simile – simile, s’intende, a quella di Davide Segre, che, vittima di pesanti violenze
naziste, finisce col trasformarsi a sua volta in carnefice – è quella in cui viene a
trovarsi il Richard Blaney di Frenzy nella sequenza della sua irruzione in casa di Bob
Rusk e del relativo tentativo di uccidere quest’ultimo.
In relazione a questo, ritengo opportuno soffermarmi brevemente su un
dettaglio della sceneggiatura originale di Frenzy. Inizialmente, Hitchcock aveva
proposto a nientemeno che Vladimir Nabokov di occuparsi della composizione di
quest’ultima. Nabokov, di cui Hitchcock aveva apprezzato enormemente il
capolavoro Lolita, si era trasferito, anche lui come il regista, negli Stati Uniti, dove
aveva collaborato con Stanley Kubrick all’adattamento del proprio più celebre