PREMESSA: LA PROBLEMATICITA’ DEL RAPPORTO ARTE-LINGUAGGIO
NELLA FILOSOFIA DI ALESSANDRO MANZONI
Pensiamo al concetto di “arte” e a quello di “linguaggio”. Si tratta di due ambiti che difficilmente, ad
una semplice considerazione, parrebbero uniti. In realtà, se meglio esaminiamo la loro valenza, si può
dire che l’ arte, a suo modo rappresenti una forma di linguaggio, del tutto peculiare. Perché come il
linguaggio risulta da un’ elaborazione concettuale del pensiero, così anche l’ arte, a ben pensarci, è una
forma di espressione elaborata dalla mente che la esprime. Ma non bisogna fermarsi qui. E proprio la
filosofia del Manzoni insegna questo.
Manzoni, inutile dirlo, non era un filosofo, (nel senso stretto del termine). E tuttavia, anche se, come
meglio vedremo, il suo non è un pensiero che può dirsi “sistematico”, esso rappresenta però un’
importante chiave di lettura di questi due ambiti, ossia quello artistico e quello linguistico. Il motivo di
tale importanza si racchiude in un semplice presupposto, ossia che Manzoni stesso era un artista, meglio
conosciuto come romanziere, ma anche come poeta. Un artista che però individuava nella filosofia la
ricerca del vero. E che quindi si interessava di problemi di carattere filosofico.
La filosofia per Alessandro Manzoni era intesa quale “scienza delle ragioni ultime”, in grado di sondare
l’ essenza stessa del reale, come vedremo. E proprio qui sta il punto. Che però non deve rimanere
confinato all’ arte come punto di partenza.
In altre parole, è vero che Manzoni, proprio a partire dalla sua elaborazione per così dire “di
romanziere” , e quindi di artista, si trovò a cimentarsi, nei suoi primordi, con il problema linguistico. Mi
riferisco, in particolare, alla stesura del Fermo e Lucia del 1821, nel quale egli avvertì l’ insufficienza
della lingua italiana di prosa nell’ esprimere concetti per iscritto, denunciando la totale separatezza della
lingua scritta rispetto a quella parlata, viva e concreta, e più adatta, secondo lui, (in particolare nella
forma francese e milanese del dialetto), a rappresentare sentimenti, ma anche più semplicemente,
concetti. La denuncia, insomma, di una carenza di fondo che lo scrittore italiano, il quale si cimentava a
scrivere in una lingua che, (se non era il toscano), non aveva mai parlato, non poteva ignorare. Da qui
Manzoni trasse spunto per la revisione linguistica della prima edizione dei “Promessi Sposi”, (1825-27),
durante la quale identificò nel tosco-fiorentino la lingua che meglio poteva rivestire quell’ idea di
concretezza che andava maturando nella propria riflessione. Perché solo la lingua parlata, e in
particolare quella parlata a Firenze e in Toscana, incarnava, secondo Manzoni, l’ idea di uso vivo e
concreto, necessario per una lingua destinata a divenire nazionale e comune ad un popolo, nella sua
valenza sociale.
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E tuttavia non è possibile misconoscere come arte e linguaggio siano, all’ interno della riflessione
teorica di Manzoni, due aspetti fra i quali ricorre un problematico rapporto, proprio a partire da quella
ricerca del vero che egli identificava come oggetto della filosofia. E, al contempo, non è possibile
fermarsi all’ arte come punto di partenza della riflessione sul linguaggio perché, semplicemente, la
speculazione manzoniana sul linguaggio è comprensibile solo in relazione a quel problema del vero che
costituisce lo sfondo teorico a entrambe gli ambiti.
Si tratta di due regioni, quella artistica e quella linguistica, che non è possibile denominare allo stesso
modo, nei termini di “espressione” prima accennato, come se arte e linguaggio rappresentassero,
insieme, una forma di elaborazione concettuale. Perché in Manzoni tale idea viene in parte rovesciata.
Nel senso che solo l’ arte risulterà detenere un rapporto con l’ ambito del pensiero. E il linguaggio ne
resterà fuori , per il semplice fatto che esso è pura convenzione, lontana dal pensiero.
Ma entrambe fanno capo a un comune problema. Che è quello del vero.
La prima parte di questa argomentazione vuol mostrare proprio il rovesciamento, operato da Manzoni,
nei confronti della comune idea di un linguaggio come derivato del pensiero. In relazione, ovviamente,
al problema del vero.
La riflessione linguistica di Manzoni si concentra su un’ idea fortemente antitetica a quella che vorrebbe
un linguaggio creato, in qualche modo, dall’ uomo. E la critica ai sensisti lo dimostra, cosìccome l’
ammissione, da parte dello stesso Manzoni, che il linguaggio sia qualcosa di donato da Dio all’ uomo,
che quest’ ultimo può limitarsi solo ad adoprare, con l’ abitudine, e a consolidare nell’ uso, supremo
legislatore della lingua che detiene il compito di legare suono e idea. Perché, in fondo, tra segno e idea
non v’ è alcun legame necessario, ma solo d’ istituzione.
Senza addentrarci nei particolari di quel che sarà l’ elaborazione teorica di una lingua intesa
concretamente come parlata, nel suo uso, nella sua totalità, nella sua immediatezza, tutti tratti peculiari a
quella lingua tosco-fiorentina che rivendicava, contro antitoscanisti come il Monti e il Cesarotti, il suo
statuto di possibile lingua comune, quel che importa sottolineare è proprio la valenza estrinseca
attribuita al linguaggio nei confronti del pensiero. Se pensare è altro da nominare, e il legame fra segno e
concetto è di natura arbitraria, allora il linguaggio non potrà essere il regno della verità che Manzoni
individua come oggetto della filosofia, la quale è ricerca delle ragioni ultime, “esame del non
esaminato”. La verità sta solo nel pensiero, e se il linguaggio è qualcosa di estrinseco rispetto al
pensiero, è chiaro che il mondo del vero non può identificarsi con quello linguistico, che è
sostanzialmente arbitrarietà, convenzione.
Il linguaggio, quindi, non risponde all’ esigenza del vero. Perché, semplicemente, il vero non può
divenire parte di un mondo estromesso dalla ragione, come quello linguistico. Manzoni, infatti, rifiuterà,
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come vedremo, ogni apporto della ragione sul dominio linguistico (v. la critica all’ etimologia e all’
analogia).
Se il linguaggio è uno strumento convenzionale, che l’ uomo non ha inventato, ma al quale è stato
donato da Dio, e il legame fra segno e idea non è necessario ma arbitrario, si comprende facilmente il
motivo per cui la verità non possa aver luogo nel regno del linguaggio.
Qui si spiega il perché di una prima parte, dedicata alla riflessione manzoniana sul linguaggio. E, al
contempo, si spiega anche il perché di una seconda parte dedicata, invece, all’ arte.
Se infatti nel linguaggio non si manifesta quella verità presa da Manzoni come oggetto della filosofia,
dove può trovarsi se non nell’ arte?
La prima parte di questa argomentazione ove ha luogo, per così dire, l’ analisi “negativa” del concetto di
vero, che nel linguaggio non troviamo se non come verità “arbitraria”, trova risposta nella seconda, che
fa ritorno, per approfondirsi, al punto di partenza da cui, in definitiva, si era dischiusa la riflessione
manzoniana sul linguaggio. Questo punto è proprio l’ arte.
L’ arte rappresenta infatti per Manzoni il dominio del vero, che appartiene solo al pensiero. Perché l’
intelletto attinge il vero artistico da un mondo a esso preesistente, quello divino. Come si evincerà dal
“Dialogo sull’ Invenzione”, l’ artista che inventa non fa altro che “ritrovare” l’ idea che già era, (nella
mente di Dio), e per questo l’ arte si delinea nella sua valenza gnoseologica.
L’ invenzione poetica si colloca nel dominio della logica perchè il soggetto non intacca la genesi del
concetto che resta, comunque, presente come idea all’ interno della mente divina. Estetica e logica
corrono dunque su di un binario parallelo, che è quello in cui l’ intelletto si mostra nella sua capacità di
attingere al vero. Il pensiero dell’ uomo è vero nella misura in cui ripropone, affermandola, l’ idea che è
nella mente divina, rendendola presente. Ma il vero attinto dall’ artista si definisce una peculiare forma
di vero, in quanto verosimile, o più precisamente, come vero morale. Che è qualcosa a metà fra realtà e
invenzione. L’ arte, infatti, dipinge l’ uomo nel modo in cui è, trascendendo le mediazioni soggettive, e
volgendosi, piuttosto, ad una rappresentazione completa e unitaria del reale. Dove l’ intento non è più
quello di infondere nell’ animo le passioni, quanto , invece, quello di elevare lo spirito verso una
riflessione sentita che coinvolga la razionalità e il pensiero, aprendolo alla dimensione morale.
Qui sta la risposta “positiva”a quella ricerca del vero che permea, in modo sotteso, tutta la riflessione
manzoniana. La quale, a partire dall’ arte, come sfondo, per svilupparsi nel linguaggio, fa ritorno sull’
arte stessa per approfondirla come dominio del vero.
Si tratta quindi di una struttura circolare, che dalla parte “negativa” (quella dedicata al linguaggio), ove
il vero emerge, appunto, nella sua valenza contro-affermativa, in quanto “pseudo-verità”, o verità
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arbitraria (che Manzoni non definisce neanche come tale), trova risposta nella seconda parte, dedicata
all’ arte, la quale fa ritorno, per così dire, al dominio dal quale Manzoni era partito come artista.
Arte e linguaggio, dunque, non emergono come elementi affini, secondo l’ idea prima accennata. L’
arbitrarietà , infatti, fa sì che il linguaggio non possa essere qualcosa di creato dal pensiero umano. A
differenza dell’ arte, che invece esprime la verità del pensiero che attinge l’ idea da un mondo
preesistente.
E tuttavia , a ben pensarci, è possibile rintracciare un sottile filo di congiunzione fra i due ambiti proprio
in quella nozione di “vero” tanto discussa da Manzoni.
Si tratta infatti di una ricerca sottesa a entrambe gli aspetti e che, se nel caso del linguaggio palesa un
qualcosa di comprensibile solo come “pseudo –verità”, (ben lontana dal vero cercato da Manzoni), nell’
arte trova una sua risposta, nonostante si declini in una accezione peculiare , come “verosimile”, o vero
morale.
Arte e linguaggio varcheranno quindi, in modo diverso, quella comune idea che vuol concepirli come
mera espressione del pensiero, separandosene (come nel caso del linguaggio), e approfondendosi, in
senso più lato, (come nell’ idea manzoniana di arte). Ma nonostante la loro diversità, innegabile per la
funzione ad essi attribuita da Manzoni, arte e linguaggio rappresenteranno una diversa risposta ad un
medesimo problema, che è quello del vero.
Una risposta negativa, nella prospettiva manzoniana, sarà quella del linguaggio, dominio dell’
arbitrarietà e di una verità neanche definibile come tale.
Una risposta positiva sarà invece, come accennato, quella dell’ arte.
Solo l’ arte si paleserà, infatti, come regno positivo del vero, di quella verità in grado di elevare l’ uomo
ad una comprensione globale del reale al di là della soggettività e di dischiudere orizzonti di carattere
morale, ma non per questo, estromessi dalla razionalità.
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ALESSANDRO MANZONI E LA FILOSOFIA: INTRODUZIONE
1. LEGITTIMITA’ DI UNA FILOSOFIA
Se pensiamo alla figura di Alessandro Manzoni ed alla portata che la sua attività di romanziere esercitò
nel corso del Romanticismo italiano dell’ 800, è inevitabile porre in margine l’ aspetto teorico della sua
riflessione. Questo è però un errore. Se infatti è indubbia la qualità della produzione poetica, tragica e
romanzesca del Manzoni, per così dire, “artista”, che, nell’ epocale stesura dei Promessi Sposi raggiunge
il suo apice, non bisogna però limitarsi a tali aspetti. E punto di partenza di questa analisi è proprio
mostrare come, accanto al Manzoni artista si celi un’ attività di carattere teorico da non sottovalutare. Si
potrà obiettare che non è possibile concepire una “filosofia” del Manzoni se, per filosofia si intende l’
elaborazione di un sistema organico e ordinato. E in effetti di questo non si può parlare, perché
Alessandro Manzoni non ci ha lasciato una vera e propria filosofia sistematica. Ma ciò non vuol dire che
non si possa individuare, all’ interno della riflessione teorica del Manzoni, una valenza di carattere
filosofico. Si tratta infatti di una speculazione che ha nella ricerca del vero il suo oggetto principale. Qui
si apre l’ orizzonte filosofico. Ma per comprendere tale idea è interessante esaminare le parole con cui
Manzoni definisce la nozione di “filosofia”, nella lettera al filosofo Victor Cousin, del 1829, come “la
scienza dei sottintesi che costituiscono la condizione e il fondamento di ogni discorso” ( III, 191, 70 ). Il
compito della filosofia non si limita però a questo, né alla cognizione dell’ “economia del pensiero”, ma,
come Manzoni preciserà nel “Dialogo sull’ Invenzione” del 1850, in virtù del suo essere “scienza delle
ragioni ultime” ( II, 720 ), essa detiene la funzione di spiegare “l’ intero orbe del reale, le azioni umane,
in fondo alle quali essa scopre le ragioni dell’ operare, le sostanze sussistenti, dentro le quali essa trova
le essenze che le fanno sussistere” ( III, 724 ). La filosofia è insomma “esame del non esaminato” e,
quindi, ricerca del vero estesa ai fondamenti del reale. I due caratteri essenziali che Manzoni individua
nella filosofia sono la logicità e l’ eticità.
La filosofia manzoniana è permeata dalla logicità. Essa esprime la libertà speculativa dell’ intelletto che,
secondo Manzoni, “ deve esercitarsi dipendentemente dal pensiero e indipendentemente da ogni abito o
propensione o affezione non ragionata (…), deve sempre stare in proposito” (II, 704, 149 ). In tale
considerazione Manzoni evidenzia la necessità di un’ attività riflessiva che orienti l’ intelletto alla ricerca
del vero e che condanna, altresì, la supremazia delle passioni sulle ragioni. E’ insomma l’ esigenza logica
a sovraordinare la filosofia rispetto alla vita umana. Ed è l’ eticità a ricondurla ad essa. In quanto
“scienza dei sottintesi”, come accennato, la filosofia ha necessariamente a che fare con l’ indagine sui
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fondamenti a partire dai quali l’ uomo opera e che, come Manzoni sottolinea, “mette in luce e alla prova
la metafisica latente e sottintesa della quale le azioni sono conseguenze più o meno mediate, più o meno
conosciute per tali ( II, 721,240). Il binomio etica ( e religione )- logica, fa sì che la filosofia detenga il
compito di sintetizzare le istanze teoretiche con quelle morali e religiose. Su questa base la religione non
si fonderà più sul sentimento, ma sulla logica, divenendo parte di quelle verità conoscibili dalla ragione,
altrimenti estromesse ad un rango inferiore rispetto ad essa.
Senza addentrarci nella complessa questione relativa al rapporto ragione- fede, possiamo però
intravedere da queste considerazioni come non sia possibile misconoscere un approccio di tipo filosofico
nella riflessione teorica di Manzoni. Se non altro, proprio a partire dalla sua nozione di “filosofia” come
indagine sui fondamenti del reale, e in special modo dalla logica, come fondamento razionale del
pensiero manzoniano, è possibile constatare i primordi di una ricerca che si configura in modo
filosofico.
E’ quella ricerca del vero che costituirà l’ asse portante della speculazione teorica del Manzoni, in modo
diverso, per quanto concerne i due ambiti di cui ci occuperemo, ossia il linguaggio e l’ arte, o meglio, la
filosofia del linguaggio e la filosofia dell’ arte.
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PARTE PRIMA:
LA FILOSOFIA DEL LINGUAGGIO DI ALESSANDRO MANZONI
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CAPITOLO I. LINGUAGGIO E COGNIZIONE: CRITICA MANZONIANA A CARTESIO,
ONDILLAC E LOCKE.
1. LA “RAGIONE” COME REGOLA DELLA “ragione”. VERITA’ E PENSIERO.
Per comprendere pienamente come sia possibile individuare nel Manzoni teorico una riflessione di carattere
filosofico occorre fare un passo indietro.
Prima di addentrarci nella sua riflessione linguistica è necessario insomma approfondire, come punto di
partenza, quel concetto di “Ragione” che costituisce il fondamento per la ricerca del Vero, definito da
Manzoni come oggetto della filosofia. In particolare, bisogna rifarsi alla distinzione, operata dallo stesso
Manzoni, tra una “Ragione” oggettiva e regolante, e una “ragione” individuale e regolata. Premessa di tale
distinzione è l’ idea che esista nell’ uomo, individualmente, una ragione indipendente da ciò che le è
estraneo, ma dipendente dalla Ragione, intesa come principio logico a cui l’ uomo si indirizza in ogni
discorso e in virtù del quale ha diritto di testimoniare “pro e contro la ragione di ciascun uomo”.
1
Tale principio logico, o Ragione, fa sì che nelle dispute “la possibilità della controversia implichi un’ unità
incontroversa”, poiché, come scrive Manzoni, l’ una e l’ altra parte contendono ognuna per la convenienza
della sua idea con un’ idea primitiva, “con un tipo, dell’ esistenza del quale entrambe convengono senza
intendersi e senza definirla”.
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E’ quindi chiarita una concezione che pone la verità come immanente al discorso , al pensiero stesso dell’
uomo. Ed è in virtù di essa che ha luogo l’ appello, da parte dell’ uomo, a quella impersonale Ragione
identificata proprio nel principio logico che consente di pervenire ad un superiore accordo (unitario) fra i
contendenti di una
discussione. Una “Ragione” – guida – che è regola quindi della ragione soggettiva e individuale e che
consente di giudicare anche le altrui sentenze, in quanto fondamento
di oggettività. Risulta in definitiva l’ immanenza della verità in ogni atto pensante il tratto peculiare dell’
unità “superiore” ravvisata da Manzoni nelle dispute umane. Solo appellandosi alla superiore Ragione,
principio logico del Tutto, è possibile all’ uomo “giudicare secondo la verità” tramite la ragione
individuale che trae la sua essenza dalla verità stessa. Come precisa Manzoni rinviando alla concezione
agostiniana che distingueva “Ragione illuminante” e “ragione illuminata”, è in questo senso che ragione
umana e Ragione divina possono esser confrontate in quanto, come accennato, la ragione umana non
“giudica la verità, ma secondo la verità, che non è essa, ma da cui essa è”.
1
R.Bonghi “Opere inedite o rare di Alessandro Manzoni”, Milano, Fratelli Rechiedei, 1883-1898
2
Id. II, 485
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2. DAL PENSIERO AL LINGUAGGIO: CRITICA ALL’ ASTRATTISMO DEL COGITO
CARTESIANO
Potremmo chiederci a questo punto perché sia necessario, per arrivare al linguaggio, introdurre la critica
manzoniana a Cartesio. La risposta è semplice. Basta ripensare quella nozione di “Ragione” – regola della
soggettività, per comprendere come essa costituisca il punto di partenza per introdurre il discorso sul
linguaggio, prodotto (convenzionale, come vedremo )del pensiero umano. Procedendo per ordine,
possiamo dire che, come Manzoni scrive, “nessun pensiero può svolgersi senza che cominci dal pensiero e
non presupponga il pensiero, non se stesso, ma quello che lo regola e lo critica e che non può essere
criticato”. Dunque ci troviamo di fronte ad un’ esplicita critica nei riguardi di un “cogito” come quello
concepito da Cartesio. Basti pensare all’ evidenza del presupposto cartesiano sintetizzabile nella formula
“cogito ergo sum” – “penso, dunque, sono”. E ‘ un concetto che racchiude l’ inizio. In particolare è l’
inizio di un principio che Cartesio pone come fondamento dell’ autoevidenza razionale del pensiero,
indubitabile, incondizionato. Ma è proprio questo che Manzoni critica.
Cartesio ha misconosciuto la preesistenza di una logica anteriore all’ antipresupposto per eccellenza, ossia
il cogito. Come Manzoni precisa, è una “distraction admirable” il voler dedurre da altre verità una
conseguenza che si considera evidente di per sé, senza presupposizioni. Il cogito cartesiano viene
insomma ridotto ad uno pseudoprincipio che implica l’ illusione di disporre e credere solo a sé. Un’
illusione alimentata in special modo dall’ elaborazione concettuale stessa della mente che, pensando, non
può evitare di svolgersi in modo logico e, quindi, di chiamare in causa altre certezze oltre a sé.
Supponendo infatti che il pensiero potesse, come dice Cartesio, dubitare di tutto tranne di se stesso, non
potrebbe, scrive Manzoni, “conseguire alcuna certezza, ma resterebbe sempre isolato e sterile. Gli
mancherebbe il passo all’ altra certezza, perché gli mancherebbe un medio e senza un medio esente da
incertezza è impossibile passare ad ulteriori certezze”. Si incorrerebbe così in un’ aporia assoluta.
Teorizzando un siffatto astrattismo del cogito, Cartesio è colpevole, secondo Manzoni, di aver diviso, per
così dire, l’ uomo, di avergli lasciato solo la coscienza in germe, una coscienza da cui ricavare “tutto un
mondo di verità”. Da tale stato ha origine il circolo vizioso che ha poi portato Cartesio a dover ricondurre
l’ uomo alla concretezza , pena la possibilità del venir meno della ricerca della verità che egli si proponeva
di assegnare all’ uomo stesso.
Il cogito rappresenta insomma “l’ illusione di credersi dubitante di tutto tranne di sé quando si è affermata
la ragione stessa del dubitare” perché, come Manzoni precisa, “è impossibile quando si esamina una cosa,
cominciar dall’ esame perché non si può esaminarla se non si crede prima a qualche altra”. Chi esamina o
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nomina le cose per analizzarle non può dunque credere di cominciare, in quanto avendo nominato è già
stato presupposto l’ inizio. Il nominare stesso, infatti, presuppone un cominciamento.
In Cartesio risultano allora sovvertiti la ragione individuale per quella universale, e la soggettività per l’
oggettività. E tuttavia non è solo qui che si ferma la critica manzoniana. C’ è qualcosa di più sottile che
Manzoni cerca di far trapelare nella polemica a Cartesio. Possiamo individuarla tornando al concetto di
uomo “dimidiatus”, “diviso”, ridotto a pura intellezione. E’ lì che si focalizza il problema, nella viziosa
astrattezza dell’ uomo depauperato del “superfluo”, abbandonato alla unica- presunta- certezza di “vedersi
pensare”. Come accennato, Manzoni rimprovera a Cartesio di trascurare un elemento: la concretezza. Ma
cosa altro è questa concretezza se non il relazionarsi in una comunicazione solidale?
Ecco emergere il linguaggio, che varca l’ isolamento del cogito cartesiano. Si apre in questi termini,
filosofici, la discussione manzoniana sul linguaggio.
3. LA CRITICA ALLA TEORIA SENSISTICA ED EMPIRISTA DEL LINGUAGGIO DI
CONDILLAC E LOCKE
Dalle brevi considerazioni finora espresse è possibile intravedere i primordi di una teoria manzoniana sul
linguaggio. Ma per addentrarci nei dettagli della sua elaborazione è inevitabile considerare la critica che
Manzoni esprime nei confronti di filosofi che si sono occupati dell’ origine del linguaggio
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. Uno di questi
è il sensista Condillac. Bisogna premettere che la polemica manzoniana a Condillac reca in sé un profondo
dissenso rispetto ai principi generali del sensismo. Accennandone brevemente, si può dire che Manzoni
critichi innanzitutto la riduzione, operata dai sensisti, dell’ uomo visto come pura percezione, corrispettivo
del “dimidiatus” cartesiano, ridotto a intelletto. Da qui nega che il presupposto di ogni cognizione sia un
dato di fatto, sostituito, invece, dall’ idea, condizione del fatto stesso e non- come per i sensisti- effetto di
quest’ ultimo. In secondo luogo Manzoni rinnega la “petizione di principio” del sensismo che , partendo
da idee generali tenta poi di negare che si debba prendere le mosse da idee generali; mentre invece, com’
egli precisa, ogni parola, anche se designa un particolare, resta sempre generale. Così, quando Condillac
sostiene che una proposizione è il risultato delle particolari cognizioni per cui “può farci discendere solo
alle cognizioni donde ci siamo sollevati ad essa”
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commette, secondo Manzoni, un grave errore
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In particolare, l’ interessamento di Manzoni nei confronti della filosofia francese è dovuto all’ influenza esercitata sul giovane
Manzoni durante il soggiorno parigino del 1805- 1810, dove venne a contatto con i circoli intellettuali nei quali si ritrovavano gli
“ideologi”, eredi spirituali degli enciclopedisti che collocavano al centro della loro ricerca, sulle orme di Condillac, la questione
sull’ origine delle idee.
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Bonghi, V , 49
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