Alessandro Baricco: “Le utopie del narrare”
Claudio Bracci 5
Se è vero che è sul bordo che l’infinito pesa “infinitamente”, è lì che
probabilmente Baricco cerca di essere con i suoi libri ed è lì che quella
pressione li sfalda ribadendone “l’impotenza del compito”.
Non è un caso che delle sue storie colpisca al capacità di incantare,
portando il lettore in luoghi assoluti destinati a smaterializzarsi col
finire di esse.
Questa ricerca parte quindi dall’ipotesi che esista un forte legame fra la
narrativa di questo autore e la costruzione degli spazi, tesa appunto a
volersi confrontare con la problematica del bordo, della sua ineffabilità
ed indicibilità.
Non credo sia questa la sede per appurare quanto in ciò Baricco si
dimostri scrittore di mestiere o ispirato, ma attraverso questo filo mi
pongo lo scopo di legare le varie suggestioni che i luoghi dei romanzi
offrono e di polarizzarle, se possibile in questa direzione, per ottenere,
non un tutto omogeneo, ma una prospettiva interpretativa.
A tal fine la seguente analisi è divisa in due parti.
La prima prende in esame i luoghi notevoli ed i topoi che ricorrono
nelle storie di Baricco e attraverso un’estesa campionatura ne definisce
il loro carattere di eccezionalità ed assolutezza dal contesto reale.
Si è cercato inoltre di rendere espliciti i legami fra gli spazi ed i
personaggi che in essi si muovono, riscontrando nella loro “tensione al
limite” l’osmosi con i luoghi stessi che ne foggia la caratterizzazione.
La seconda parte sposta il livello dell’analisi in una dimensione più
astratta e mediante categorie dicotomiche cerca di definire una linea
estetica della narrativa di Baricco.
In tal senso si potrebbero anche scambiare le due parti, procedendo in
maniera deduttiva, per leggere nella prima la messa in atto dei principi
della seconda.
Volendo essere una ricerca “esplorativa” nei territori narrativi di
questo autore, il risultato ha portato ad alcune incongruità rispetto alle
linee che, soprattutto nei primi romanzi, erano più nette.
Da qui la necessità di aggiungere una nota finale che vuol essere un
tentativo, non di sistematizzare univocamente un’anomalia, ma di
interpretarla per delineare una direzione verso cui l’autore sembra
muoversi.
Un ultima spiegazione sulle due citazioni.
La prima, commentata più estesamente in seguito, è tratta da un libro
La storia infinita il cui fascino risiede nella sua autoreferenzialità e nel
potere evocativo dell’immaginazione che ne è linfa e morale.
La seconda è la conclusione del Tractatus di Wittgenstein, una ricerca
sui fondamenti della logica che si corrompe dal suo interno, scoprendo
il suo centro fuori dalla logica stessa.
Alessandro Baricco: “Le utopie del narrare”
Claudio Bracci 6
E’, narrativamante parlando, un libro che collassa su se stesso nel
dichiarare il proprio silenzio.
Sono entrambe suggestioni sicuramente non estranee ad Alessandro
Baricco.
Alessandro Baricco: “Le utopie del narrare”
Claudio Bracci 7
Quinnipack
Con Quinnipack, Baricco manifesta fin dal romanzo d’esordio una
modalità di costruire gli spazi che, pur mutando di volta in volta nelle
sue realizzazioni narrative, mantiene delle costanti strutturali
fondamentali nella tensione compositiva delle sue opere.
Leggendo le prime pagine di Castelli di rabbia1 ci si trova
immediatamente sbalzati nel vivo di una staffetta sia fisica che verbale
per la consegna di un pacco, in cui l’abilità dell’autore nel rendere
l’oralità della situazione accattivante, trascina il lettore insieme
all’oggetto da consegnare dentro un’atmosfera corale orbitante tutta
intorno ai due personaggi che sono in qualche modo il nucleo ispiratore
di Quinnipack, i signori Rail.
Attraverso l’analisi del ruolo dei Rail e dello spazio che occupano,
emergeranno dei paralleli da cui si definiranno maggiormente alcune
delle linee guida che caratterizzano questo luogo.
Un primo elemento di tipo spaziale che rivela in maniera più semplice
ma evidente la loro alterità, è l’abitazione in cui vivono che si trova su
una collina poco fuori dalla cittadina, in un paesaggio stereotipato che
lo stesso autore definisce «l’ovvia bellezza di una campagna docile e
regolamentare»2.
Dann Rail è il proprietario della vetreria omonima e presumibilmente
l’uomo più ricco di Quinnipack, ed è allo stesso tempo un viaggiatore e
un sognatore, combinazione fortunata questa per farne un sognatore su
scala eccezionale.
Il vecchio Andersson in punto di morte sintetizza il demone che anima
la vita di Rail così:
Altro elemento a cui accennavo prima è il viaggio che evoca a volte
esotismi piuttosto espliciti (il figlio “illegittimo” è mulatto), ma che
soprattutto fa di questo personaggio il diaframma col mondo esterno.
1
Alessandro Baricco, Castelli di rabbia, Rizzoli, Milano 1997
2
ibid.,pp.149-150
3
ibid.,p.135
«Tu non sei come gli altri, Dann, tu fai delle cose, tante cose, e ne
immagini ancora delle altre ed è come se non ti bastasse una vita sola a
farcele stare tutte.[…]tu sembra che devi vincerla la vita come se fosse
una sfida…sembra che devi stravincerla…una cosa del genere»3
Alessandro Baricco: “Le utopie del narrare”
Claudio Bracci 8
E’, di fatto, lui nella collettività a portare al ritorno dai suoi viaggi
novità di cui la locomotiva è il più macroscopico esempio, ed è di fatto
questo elemento importato dal “mondo di fuori” ad innescare una serie
di eventi fondamentali per la narrazione.
Jun Rail, che sembra confinata in un ruolo di fiera Penelope, incarna per
gli abitanti di Quinnipack l’ideale della bellezza:
E’ chiaro che la forma allocutoria ed iperbolica di questo genere di
passi, frequenti nello stile di Baricco, tende a suggestionare più che
suggerire una sorta di elevazione a mito collettivo di cui siamo chiamati
ad essere partecipi.
Questa strana coppia vive di stranezze e di tic che sembrano scandire
un tempo assoluto e ciclico in cui non c’è spazio per la vecchiaia o per i
giorni che passano; per Dann Rail che non dice mai dove va, un viaggio
può durare mesi o qualche giorno:
La stessa partenza viene annunciata sempre alla stessa identica
maniera:
4
ibid., pp.18-19
5
ibid.,p.21
«Il volto di Jun Rail. Quando le donne di Quinnipack si guardavano allo
specchio vedevano il volto di Jun Rail. Quando gli uomini di Quinnipack
guardavano le loro donne pensavano al volto di Jun Rail. I capelli, gli
zigomi, la pelle bianchissima, la piega degli occhi di Jun Rail. Ma più di
ogni altra cosa - sia che ridesse o urlasse o tacesse o semplicemente
stesse lì, come ad aspettare - la bocca di Jun Rail. La bocca non ti
lasciava in pace. Ti trapanava la fantasia semplicemente. Ti
impiastricciava i pensieri.”4
«[…]la famosa estate in cui partì il mattino del 7 agosto e tornò la sera
dopo, con sette valigie intatte e la faccia di uno che stava facendo la cosa
più normale del mondo. Jun non chiese niente. Lui non disse niente. La
servitù disfece le valigie. La vita, dopo un attimo di tentennamento, si
rimise in moto.»5
Alessandro Baricco: “Le utopie del narrare”
Claudio Bracci 9
La stessa muta intesa segna il ritorno il cui annuncio è dato appunto
dalla spedizione di un pacco, qualche giorno prima, nel quale è avvolto
sempre lo stesso gioiello, a significare un legame la cui forza
comprende e supera le apparenti contraddizioni:
Per la gente di Quinnipack questa coppia affascinante anche per il modo
in cui si amano:
Da questa caratterizzazione dei Rail emergono elementi fondamentali
dell’immaginario collettivo del microcosmo di Quinnipack che
identificano un’atmosfera ed una tensione che permeano interamente
questo luogo.
La mancanza quasi totale di elementi paesaggistici descrittivi sembra
voler rendere maggiormente quella che definisco “atmosfera” del luogo
che praticamente resta una “città invisibile” senza precisi riferimenti
6
Ivi
7
ibid., p.31
8
ibid , p.28
«[…]con una cerimonia prevista e doverosa, una cerimonia minuscola,
quasi impercettibile e assolutamente intima: lui spegneva la lampada, lui e
Jun restavano nel buio, in silenzio, uno accanto all’altra nel letto in bilico
sulla notte, lei lasciava scivolare qualche istante di nulla, poi chiudeva gli
occhi e invece di dire:
- Buona notte
Diceva:
Quando parti?
Domani, Jun.
L’indomani partiva.»6
«Così erano il signore e la signora Rail.
Così strani da pensare che li tenesse insieme chissà quale segreto.
E infatti era così.
Il signore e la signora Rail.
Vivevano la vita.»7
«L’unica cosa che spesso risultava evidente, anzi quasi sempre, e forse
sempre, l’unica cosa era che in quello che facevano e in quello che erano
c’era qualcosa - per così dire - di bello. Così. Tutti dicevano: “E’ bello
quel che ha fatto il signor Rail”. Oppure: “E’ bello quel che ha fatto Jun”.
Non si capiva quasi niente, ma almeno quello si capiva.»8
Alessandro Baricco: “Le utopie del narrare”
Claudio Bracci 10
geografici; in questo senso, commentando il rapporto fra finzione e
realtà nei narratori di questa generazione, anche Barenghi in un
intervento su “Linea d’ombra”, scrive:
tutto ciò concorre a rafforzarne la valenza fantastica con esiti che
ammiccano alla Macondo di Cent’anni di solitudine di Marquez.
E in effetti Quinnipack è popolata da figure molto diverse fra loro, la cui
casistica ampia e bizzarra ha però un denominatore comune che sembra
scaturire dalla cittadinanza stessa:
La figura di Pekish è anch’essa emblematica per l’unicità del suo
personaggio; con lui Baricco vezzeggia la sua attività di musicologo e
crea così un supermusicista capace di riconoscere note che gli altri non
sentono il quale si dedica a ricerche acustiche sulla spinta di intuizioni
quanto mai originali: l’idea che la voce possa essere spinta nei tubi
come un liquido ed anche riascoltata facendola tornare indietro è una
delle idee più originali del racconto.
L’umanofono, strumento in cui ognuno suona la sua nota a comando,
come le canne dell’organo è un’altra sua invenzione che rafforza ancor
di più il senso di coralità che aleggia sul paese.
E proprio l’immagine di questa macchina semplice eppur ingegnosa
(«Effettivamente se c’è molta gente che non è in grado di mettere in fila
tre note senza stonare è invece molto raro trovare qualcuno incapace di
emettere una nota una con perfetta intonazione e buon timbro.»10) che
potrebbe rispecchiare la tecnica di costruzione che Baricco ha usato
per definire questo luogo: ad ogni personaggio la sua tonalità a dare
pennellate singole più o meno rapide per fornire un quadro della
cittadina vivo eppure quasi distaccato dal mondo reale.
La musica che si sente a Quinnipack ha qualcosa di ineffabile ed
inspiegabile che attira gente dai paesi vicini ad ascoltare quelle strane
melodie che Pekish compone; lo stesso campanile della città emette una
nota inesistente.
9
Alessandro Baricco, Castelli di rabbia, op. cit., p.208
10
ibid., p.71
«La storia è ricca di movimento e di azioni; tuttavia i fatti contano meno
della disposizione d’animo dei personaggi e, in generale, dell’atmosfera
che si respira nel teatro delle varie vicende narrate[…]»
«A Quinnipack Si ha negli occhi l’infinito »9.
Alessandro Baricco: “Le utopie del narrare”
Claudio Bracci 11
Eppure quella musica calza esattamente quella la città, quando Pekish
inventa la sfilata di addio per Penth con le due bande, queste coprono
perfettamente lo spazio della strada maestra con la durata della musica.
Ci si trova così, continuamente davanti ad un senso di compiuta
rotondità in cui spazio e tempo coincidono e gli incroci dei destini
sembrano inevitabili (la vendetta dei figli della vedova dell’emporio che
rimanda all’ineluttabilità di Cronaca di una morte annunciata).
La cittadinanza quinnipackiana appare come caratteristica che
accomuna i personaggi per la piccola dose di follia che alimenta la loro
vita e si manifesta in varie gradazioni.
Di fatto, non è proprio così. Quinnipack più che essere un luogo in cui ci
sono persone strane è un luogo in cui le persone un po’ folli devono,
per un periodo più o meno lungo, approdare.
Pekish è arrivato da chissà quale vita con un nome non suo e la sua
genialità musicale lo condurrà alla pazzia; stessa fine spetta a Hector
Houreau, architetto geniale e incompreso che l’accidente di un ritaglio
di giornale condurrà fino a Quinnipack per realizzare il suo sogno, il
Crystal Palace, e dare sfogo al demone che lo consumerà in un
manicomio.
La follia violenta tocca anche personaggi secondari come l’assistente
del professor Dallet che, incoraggiato per lettera Pekish nelle sue
ricerche, si toglie la vita dopo aver ucciso il superiore ed il suo amante.
Anche Jun è ferma nell’impasse del destino che Quinnipack le
garantisce ed è questo il segreto che condivide con Dann:
Pehnt invece passa attraverso il processo inverso, il ragazzino
trovatello che ha il destino nella taglia della sua giacca e il senso del
mondo nelle pagine di un diario, uscirà da grande da quel microcosmo
per entrare a far parte della schiera delle persone normali; gli scrive
Pekish da Quinnipack:
11
ibid., p.212
12
ibid., p.207
«Quinnipack, questa casa, il vetro, tu, Mormy e perfino io, tutto il resto
non è che una grande fermata imprevista. Miracolosamente da anni il suo
destino trattiene il fiato. Ma un giorno tornerà a respirare. E lei se ne
andrà.»
11
«Ho smarrito un amico si chiamava Pehnt. Era un ragazzo intelligente. Ne
sapete mica qualcosa?»12
Alessandro Baricco: “Le utopie del narrare”
Claudio Bracci 12
Pehnt sa di essere finito nel mondo reale e risponde infatti così:
C’è quindi una sorta di magnetismo che attira a sé inevitabilmente
chiunque abbia negli occhi l’infinito ed inversamente “normalizza”
chiunque si allontani.
Luogo delle epifanie e della dimensione dei desideri, Quinnipack alla
fine del romanzo si rivelerà in tutta la sua carica utopica come
invenzione di un ladruncolo e di una prostituta, spazio fantastico
ritagliato nello squallore del reale:
13
ibid., p.208
14
ibid., p.242
« Ognuno ha il mondo che si merita. Io forse ho capito che il mio è questo
qua. Ha di strano che è normale. Mai visto niente del genere a Quinnipack.
Ma forse proprio per questo io ci sto bene.»13
«E’ una specie di gioco. Serve quando hai lo schifo addosso, che proprio
non c’è verso di togliertelo. Allora ti rannicchi da qualche parte, chiudi gli
occhi, e inizi ad inventarti storie. Quel che ti viene. Ma lo devi fare bene.
Con tutti i particolari. E quello che la gente dice, e i colori, e i suoni.
Tutto. E lo schifo a poco a poco se ne va. Poi torna, è ovvio, ma intanto,
per un po’, l’hai fregato.»
14
.
Alessandro Baricco: “Le utopie del narrare”
Claudio Bracci 13
Locanda Almayer
A due anni di distanza dal romanzo di esordio, Baricco affida i suoi
personaggi al benefico influsso del mare i cui echi mitici ed esistenziali
evocati, forniscono alla narrazione un fondale di sicuro impatto sul
lettore.
La Locanda Almayer (nome di memoria conradiana) è il luogo in cui
sono ambientati i due terzi di Oceanomare, altro romanzo costruito sulla
sovrapposizione ed il solido intreccio dei destin i dei personaggi.
Nella concezione di questo spazio il riferimento al Castello dei destini
incrociati di Calvino è quanto mai palese, e l’autore stesso semina di
continuo “tracce” che oscillano spesso, a mio avviso, fra la citazione
ammiccante e l’omaggio a quei valori della narrativa che le Lezioni
americane hanno lasciato come testamento spirituale a queste
generazioni di scrittori.
Lo stesso Baricco in un articolo sottolinea questa parentela sotterranea
con lo stile di Calvino che tocca irrimediabilmente chiunque voglia fare
letteratura oggi.
Scrive:
Un altro riferimento per la connotazione di questo spazio può essere la
locanda in cui si consuma il dramma dei personaggi di Palla di sego;
anche lì Maupassant adopera questo luogo come sfondo per il confronto
15
Alessandro Baricco, Oceanomare, Rizzoli, Milano 1998, pp.36-37
16
Alessandro Baricco, Buio e silenzio intorno a Palomar, in “la Repubblica”, 16 marzo 1997, p.28
«Posata sulla cornice ultima del mondo, a un passo dalla fine del mare, la
locanda Almayer lasciava che il buio, anche quella sera, ammutolisse a
poco a poco i colori dei suoi muri: e della terra tutta e dell’oceano intero.
Pareva – lì solitaria – come dimenticata. Quasi che una processione di
locande, di ogni genere e età, fosse passata da lì, costeggiando il mare, e
tra tutte se ne fosse staccata, una, per stanchezza, e lasciatasi sfilare
accanto le compagne di viaggio avesse deciso di fermarsi su
quell’accenno di collina, arrendendosi alla propria debolezza, chinando il
capo e aspettando la fine. Così era la locanda Almayer. Aveva quella
bellezza di cui solo i vinti sono capaci. E la limpidezza delle cose deboli. E
la solitudine, perfetta, di ciò che si è perduto.»15
«Se scrivi, e sei italiano, e vieni tradotto, poi ti chiedono, gli stranieri,
quali sono i tuoi modelli. E per quanto tu divaghi tra americani e tedeschi,
alla fine loro vogliono che tu dica: Calvino. E tu finisci per dirlo. “Bè, si,
ovviamente, Calvino”. Però non sapresti dire, precisamente, il perché». 16
Alessandro Baricco: “Le utopie del narrare”
Claudio Bracci 14
“sociologico” di situazioni completamente diverse che nella locanda si
trovano in una condizione di interdipendenza.
Tra i richiami più gradevoli, la prontezza di risposta e l’ironia salace
della Locandiera goldoniana che sembra caduta a pioggia su tutti i
piccoli abitatori della casa.
Nell’esame di questo luogo è opportuna una premessa di tipo teorico
che si renderà utile per tutto il corso di questa analisi; la forte rilevanza
che acquistano le ambientazioni di questo autore, trovano riscontro in
un famoso saggio del russo Michail Bachtin nel quale definendo la
categoria dei cronotopi rispetto alla narrazione egli scrive:
Questo spunto può aiutarci a focalizzare meglio alcuni aspetti di questa
analisi rispetto soprattutto a quelli che sono i valori intrinseci luoghi
scelti.
Questa è l’accoglienza che riceve il professor Bartleboom quando
scrive il suo nome sul registro degli ospiti:
17
Michail Bachtin, Le forme del tempo e del cronotopo nel romanzo, in ID., Estetica e romanzo, Einaudi,
Torino 1997, p.397
«Prima di tutto, è evidente il loro significato d’intreccio. Essi sono i centri
organizzativi dei principali eventi d’intreccio del romanzo. Nel cronotopo
si allacciano e si sciolgono i nodi dell’intreccio. Si può dire esplicitamente
che ad essi spetta il significato principale nella formazione
dell’intreccio»17
Alessandro Baricco: “Le utopie del narrare”
Claudio Bracci 15
Col varcare la soglia di questo luogo ci si spoglia dei “svolazzi” quasi
come per iniziazione a quello che è il recupero della propria originalità.
Ogni stanza ha un bambino come angelo custode che veglia sul sonno
dell’ospite e ne protegge i sogni.
Ma se il destino deve fare il suo corso “mischiando” le carte dei
personaggi nel suo disegno, questo posto avrà la caratteristica di non
avere mai porte serrate:
Locanda quindi come
punto d’incontro, crocevia di vite ed esperienze diverse, complementari
o contrastanti che qui vengono a contatto in un’atmosfera di
“regressione” nella quale si perdono i connotati sociali esterni e si
amplificano la facoltà oniriche.
La locazione è altrettanto pregna di significati simbolici; scrive in una
lettera Bartleboom:
18
Alessandro Baricco, Oceanomare, op. cit., pp.17-18
19
ibid., p.213
«Ismael Adelante Ismael prof. Bartleboom Con svolazzi e tutto. Una cosa
ben fatta.
Il primo Ismael è mio padre, il secondo mio nonno.
E quello?
Adelante?
No, non quello lì…questo.
Prof.?
Eh.
Professore, no? Vuol dire professore.
Che nome scemo.
Non è un nome…io sono professore, insegno, capite? Io vado per la strada
e la gente mi dice Buongiorno professor Bartleboom, Buonasera professor
Bartleboom, ma non è un nome, è quello che faccio, insegno…
Non è un nome.
No.
Va be’. Io mi chiamo Dira
Dira
Sì. Vado per la strada e la gente mi dice Buongiorno Dira, Buonanotte
Dira, sei bella oggi Dira, che bel vestito che hai oggi Dira, Hai mica visto
Bartleboom per caso, no, è nella sua stanza, primo piano, l’ultima in fondo
al corridoio, questi sono gli asciugamani, tene te, si vede il mare, spero
che non vi dia fastidio.
Il professor Bartleboom – da quel momento semplicemente Bartleboom –
prese gli asciugamani.»18
«Niente chiavi, nella Locanda Almayer»19
Alessandro Baricco: “Le utopie del narrare”
Claudio Bracci 16
Questa posizione a ridosso del mare ne fa un luogo di frontiera
un posto carico di fascino e inquietudine:
La tranquilla intimità della casa contrapposta alla furia degli elementi
esterni è un tema che Bachelard parlando della binomio casa- inverno
dei Paradisi artificiali di Baudelaire commenta con frasi che mutandis
mutanda possono essere applicati proficuamente all’immagine di
Baricco scambiando alla neve il mare:
E, come sarà più evidente in seguito, Baricco è uno “scaltro” sognatore
di case.
La vicinanza al mare non si manifesta solo come contrapposizione, anzi,
si riscontra maggiormente il legame con esso e la funzione di
20
ibid., p.21
21
ibid., p.153
22
ibid., p.129
23
Gaston Bachelard, Poetica dello spazio, Dedalo, Bari 1999, p.67
«E’ sul colmo di una piccola collina, proprio davanti alla spiaggia. La sera
si alza la marea e l’acqua arriva fin quasi sotto alla mia finestra. E’ come
stare su una nave»20.
«da non crederci tanto è bello, e quieto, e leggero, e finale.»21,
«In bilico sull’orlo della terra, a un passo dal mare in burrasca, riposava
immobile la locanda Almayer, immersa nel buio della notte come un
ritratto, pegno d’amore, nel buio del cassetto.»22.
«Ad ogni modo, al di là della casa abitata, il cosmo invernale è un cosmo
semplificato. Esso è una non-casa nello stile in cui un metafisico parla di
un non-io. Dalla casa alla non casa si ordinano facilmente tutte le
contraddizioni. Nella casa, tutto si differenzia, si moltiplica, dall’inverno
essa riceve riserve di intimità, finezze di intimità. Nel mondo fuori della
casa, la neve cancella i passi (come il mare con le orme sulla sabbia),
imbroglia i sentieri, spegne i rumori, maschera i colori: si ha la sensazione
che si stia mettendo in moto una negazione cosmica a partire
dall’universale biancore (le tele bianche di Plasson). Il sognatore di case
sa bene tutto ciò, sente tutto ciò, e, attraverso la diminuzione d’essere del
mondo esterno, conosce un aumento di intensità di tutti i valori di
intimità.»23.
Alessandro Baricco: “Le utopie del narrare”
Claudio Bracci 17
diaframma che essa assume per gli animi tormentati che la popolano;
Padre Pluce in una lettera:
L’inquietudine che il luogo trasmette, più volte definita “malattia”
sembrerebbe essere più plausibilmente la proiezione delle piccole follie
degli ospiti:
A differenza di ciò che accadeva per Quinnipack, qui il luogo guadagna
un primo piano e viene sottoposto a continue tensioni narrative che ne
esaltano il ruolo di cornice; basti come ulteriore esempio l’abile uso di
quinta che Baricco ne fa nella descrizione del dramma finale che ha
della coreografia operistica:
Luogo funzionale alla narrazione, ma, allo stesso tempo, luogo
assolutizzato e, come già per Quinnipack, irraggiungibile dagli uomini
comuni.
24
Alessandro Baricco, Oceanomare, op. cit., p.153
25
ibid ., p.92
26
ibid., p.214
«[…]la locanda Almayer che non è un posto perfettamente sano, stante la
vicinanza pericolosa col mare»24.
«C’è qualcosa di …malato in questo posto. Non te ne accorgi? I quadri
bianchi di quel pittore, le misurazioni infinite del professor Bartleboom…e
poi quella signora che è bellissima eppure è infelice e sola, non so…per
non parlare di quell’uomo che aspetta…quel che fa è aspettare, Dio sa
cosa, o chi…E’ tutto…è tutto fermo un passo al di qua delle cose. Non c’è
niente di reale, lo capisci questo?»25
«Savigny tremava, c’era sangue dappertutto. E un silenzio assurdo.
Riposava, la locanda Almayer. Immobile. – Alzati, Savigny. E prendila tra
le braccia.[…]Strano, piccolo corteo. Il corpo bellissimo di una donna
portato in processione. Un morto fardello di sangue tra le braccia di un
uomo che si trascina tremando, seguito da un’ombra impassibile che
stringe in pugno un coltello. Attraverso la locanda, così, fino ad uscire
sulla spiaggia. Un passo dopo l'altro, nella sabbia, fino in riva al mare. Una
scia di sangue, dietro. Un po’ di luna, addosso.»26
Alessandro Baricco: “Le utopie del narrare”
Claudio Bracci 18
Non a caso è l’uomo più straordinario di quella locanda, che di posti
fantastici ne ha visti più di ogni altro, a dire:
C’è un’ultima osservazione che va dedicata alla “settima stanza”.
Questa camera ospita una persona misteriosa di cui nessuno sa nulla e
la cui esistenza stessa è messa in dubbio o addirittura postulata come
quella di Dio.
E difatti l’ospite non è altro che il deus ex machina della storia, l’autore
stesso, che conclusa la sua opera esce a chiacchierare con i bambini
della locanda e gli spiega le ultime suggestioni che il mare conserva per
chi scrive.
Alla sua partenza, che sancisce la fine della storia, la locanda Almayer,
che ha concluso la sua funzione narratologica, si disfa alle sue spalle
Con questo ultimo stratagemma di “play within the play” sembra che
Baricco voglia stravincere nell’ammaliare il lettore con un finale che
comincia in sordina e finisce con una pirotecnica citazione del finale di
Cent’anni di solitudine.
27
ibid., p.163
28
ibid., p.95
29
ibid., p.227
16
Emanuele Trevi, Narrativa Recente (1992-1993), in “Nuovi argomenti”, n°48 (1993), p.112
«Non so come hai fatto a trovarmi. Questo è un posto che quasi non
esiste. E se chiedi della locanda Almayer, la gente ti guarda sorpresa, e
non sa. Se mio marito cercava un angolo di mondo irraggiungibile, per la
mia guarigione, l’ha trovato. Dio sa come hai fatto a trovarlo anche tu.»27
«In mille posti diversi del mondo, ho visto locande come questa. O forse:
ho visto questa locanda in mille diversi posti del mondo. La stessa
solitudine, gli stessi colori, gli stessi profumi, lo stesso silenzio. La gente
ci arriva e il tempo si ferma.»28
«in mille pezzi, che sembravano vele e salivano nell’aria, scendevano e
salivano, volavano, e tutto portavano con sé, lontano, anche quella terra e
quel mare, e le parole e le storie, tutto, chissà dove, nessuno lo sa, forse
un giorno qualcuno sarà così stanco che lo scoprirà.»29