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Ai colori non-spettrali dedico l’ultimo capitolo per un’analisi interdisciplinare nella
quale spiegherò in cosa consiste la loro peculiarità. Una singolarità di questi cromatismi
risiede nel fatto che essi, dal punto di vista fisico-chimico, non appartengono allo
spettro della luce visibile, tuttavia il nostro occhio è in grado di vederli. Il motivo di
questa nostra capacità percettiva sta nella particolare elaborazione effettuata dal nostro
sistema occhio-cervello, costretto ad “inventarsi” e “ricostruirsi” tonalità che nella
nostra evoluzione percettivo-linguistica occupano una posizione ancora immatura a
causa della scarsa esperienza visivo-percettiva. La loro particolarità sta anche nel loro
effetto: attivano infatti funzioni contrastanti del nostro Sistema Nervoso
Neurovegetativo e quindi ci inducono ad avere emozioni, sensazioni e comportamenti
ambigui e indefinibili; ciò è valido non solo per l’uomo ma per tutto il mondo naturale:
molti insetti adottano questi colori con funzioni ben precise nel pieno rispetto delle
leggi per la sopravvivenza.
Proprio per la loro caratteristica di indurre effetti psichici ambivalenti, la “famiglia dei
viola”, dalle civiltà antiche fino ai giorni nostri, ha finito per acquisire e consolidare
una serie di significati universalmente validi per tutte le culture: dal porpora, come
simbolo di regalità e di ricchezza, al viola, come simbolo di penitenza e sofferenza e di
qualcosa che sta al di là della conoscenza, al lilla e al magenta, come simboli di
seduzione, dolcezza e femminilità. Nel penultimo paragrafo illustrerò, attraverso alcune
esemplificazioni dei marchi maggiormente noti e relativi siti internet, come questi
cromatismi vengono studiati e impiegati oggi dal marketing, dalla pubblicità e dalla
comunicazione nella loro accezione di stimolare particolari emozioni nel cliente-
consumatore.
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2. LUCE, MATERIA, COLORE
2.1 La luce: da Aristotele ad Einstein
La luce è nell’etere la stessa
cosa che il suono è nell’aria
Eulero
Noi tutti oggi sappiamo che la luce è una delle tante forme di energia e che essa
si propaga nello spazio circostante in forma di “pacchetti” di energia, il cui numero e la
cui grandezza sono direttamente proporzionali rispettivamente all’intensità e alla
frequenza del fascio di luce. Tali “pacchetti” sono costituiti dai cosiddetti fotoni o
quanti di energia. Quando tali fotoni arrivano ad un metallo colpiscono gli elettroni di
tale oggetto (che fino a quel momento si trovavano in uno stato di minima energia)
cedendo loro per intero la loro energia; se però la radiazione li investe con una
frequenza abbastanza alta, gli elettroni escono dal metallo (salto energetico) in numero
tanto maggiore quanto più intensa è la radiazione passando così allo stato di
eccitazione.
Questa teoria era stata proposta nel 1905 da Albert Einstein e Ernst Planck e
rappresenta la moderna visione dei fenomeni luminosi.
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Ma per arrivare a questa teoria ci sono voluti secoli..anzi millenni! Nel corso dei quali
gli scienziati hanno avanzato svariate ipotesi riguardo a quale fosse la vera natura della
luce, quello strano fenomeno che scandisce le attività quotidiane dell’uomo sin dalla
preistoria.
Sappiamo che già nell’antichità Aristotele aveva intuito che il suono (e in generale ogni
forma di energia generata da una sorgente) si propaga nello spazio circostante
sottoforma di moto ondoso di opportuna natura.
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Tale fenomeno però non spiegava la
propagazione della luce attraverso gli spazi interstellari: secondo la concezione
tradizionale infatti un’azione a distanza tra due soggetti non può avvenire senza che tra
i due sia interposto un oggetto materiale capace di trasmettere la forza. Ciò mandò in
2
A. Frova, Luce colore visione, Milano, Biblioteca Universale Rizzoli, 2003, pag. 75.
3
Ivi, pag. 25.
4
crisi gli studiosi dato che lo spazio era considerato “il vuoto assoluto”, cioè un ambiente
immateriale, che quindi non contiene particelle
4
. Ma se davvero fosse così, se lo spazio
cioè fosse “vuoto” la luce verrebbe interamente assorbita o diffusa, cosa che invece non
avviene.
Perciò Aristotele introdusse una nuova sostanza, sconosciuta ai nostri sensi, costituente
il Sole e i corpi celesti, l’etere, giustificando così la trasmissione dell’azione delle forze
a distanza.
Per secoli quindi prevalse la teoria ondulatoria della luce il cui vero fondatore è
l’olandese Christian Huygens.
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Solo nel XVII secolo con Isaac Newton si fece avanti la teoria corpuscolare. Lo
scienziato negò la luce come fenomeno ondulatorio dato che essa manca della proprietà
comune a tutte le onde, cioè quella di aggirare gli ostacoli: il suono può essere sentito
comunque anche se fra la sorgente e l’ascoltatore viene interposto un muro; mentre se
fra una sorgente luminosa e l’osservatore viene messo un oggetto materiale, di questo
se ne vedrà l’ombra.
La luce quindi si propaga in linea retta.
Newton concorda quindi con i pitagorici, i quali, duemila anni prima, ipotizzarono che
la luce doveva essere costituita di particelle emesse dalla sorgente che a loro volta,
colpendo un oggetto, lo illuminavano.
La teoria corpuscolare prevalse per quasi un secolo, quando gli esperimenti di Thomas
Young e Augustin Fresnel stabilirono la supremazia della teoria ondulatoria.
Per quanto riguarda l’etere, solo nel 1800 grazie agli esperimenti di Albert Abraham
Michelson e Edward Morley si dimostrò che esso non esiste.
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Molti esperimenti dimostrarono tuttavia il carattere ondulatorio della luce, ma se l’etere
non esisteva, di che onda erano fatti i fenomeni luminosi?
Verso la metà dell’Ottocento Michael Faraday suggerì che ci fosse un certo legame tra
la luce e le propagazioni del campo elettrico e del campo magnetico dato che anche tali
forze elettriche e magnetiche possono esercitarsi a distanza.
Per spiegare queste due forze, caduto il concetto di etere, si fece ricorso ai cosiddetti
campi di azione di una forza, ossia la regione dello spazio in cui una data forza
4
Ivi, pag. 29.
5
Ivi, 2003, pag. 32.
6
Ivi, pag. 46.
5
(elettrica, magnetica, gravitazionale ecc…) è presente. Si dimostrò che se un campo
magnetico è reso variabile nel tempo, cioè non è statico, assieme all’onda magnetica
viaggia anche un’onda elettrica. Tale effetto combinato dei due campi è detto onda
elettromagnetica.
A confermare tale concetto giunse qualche anno più tardi James Clerk Maxwell
(successivamente riconfermato da Hertz) sviluppando le ipotesi di Faraday: la luce è
un’onda elettromagnetica, generata cioè da oscillazioni di campi elettrici e magnetici.
Egli arrivò a formulare le famose “equazioni di Maxwell” (pubblicate nel 1864) in
grado di descrivere totalmente il fenomeno della propagazione delle onde
elettromagnetiche. Sostenne che le due forze (elettrica e magnetica) oscillanti sono
interdipendenti e perpendicolari tra loro e al raggio di propagazione (la radiazione
luminosa quindi è un’onda trasversale).
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Maxwell calcolò la velocità a cui tali onde
emesse dalla sorgente si propagavano nello spazio e arrivò alla conclusione che la
velocità di propagazione nel vuoto è indipendente dalla frequenza dell’onda e coincide
con la velocità della luce, pari cioè a 300.000 Km/s. Concluse quindi che la luce è una
particolare onda elettromagnetica.
8
A cavallo tra Ottocento e Novecento Planck ed Einstein chiarirono completamente ogni
dubbio introducendo la teoria dei quanti, la quale concilia le due ipotesi ondulatoria e
corpuscolare spiegando così tutti i fenomeni di interazione tra luce e materia compreso
l’effetto fotoelettrico scoperto dal fisico tedesco Philipp Lenard nel 1899.
7
J. Tornquist, Colore e luce, Milano, Istituto del colore, 2001, pag. 29.
8
A. Frova, Luce colore visione, Milano, Biblioteca Universale Rizzoli, 2003, pag. 51
6
2.2 Interazione luce-materia
La luce proviene sempre
dalla materia:nasce
dalla materia e scompare,
modificata dalla materia.
John Tornquist
9
Un corpo che riceve luce può trasformarla in energia non visibile cioè
assorbirla (riemettendo le onde più lunghe, cioè calore), oppure rifletterla, riemetterla
nel visibile, trasmetterla (trasparenza).
A seconda del materiale che investe, il fascio luminoso può subire fenomeni quali:
Riflessione: è il fenomeno per cui un raggio, incidendo su una superficie detta
riflettente, viene rinviato secondo un raggio riflesso che forma con la normale alla
superficie un angolo di riflessione uguale all’angolo di incidenza e giacente sullo
stesso piano.
Riflessione di un raggio luminoso
su una superficie lucida.
Riflessione diffusa: incidendo una superficie ruvida le onde luminose riflesse non
sono parallele, quindi non possono produrre un’immagine.
9
J. Tornquist, Colore e luce, op. cit., p. 40.
7
Riflessione diffusa di un raggio luminoso
su una superficie perfettamente diffondente.
Rifrazione: un raggio incidente, passando da un mezzo ad un altro con diverse
proprietà ottiche, varia secondo certe leggi la direzione di propagazione.
Rifrazione di un raggio luminoso che incide
una superficie passando fra due mezzi diversi.
Diffrazione: un’onda colpendo un corpo opaco vicino al bordo, cambia direzione
penetrando nella regione d’ombra (per esempio: onde d’acqua che trovano un
ostacolo).
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Diffrazione delle onde: le onde che si formano al di là dello
schermo non conservano più la direzione primitiva di propagazione,
ma assumono direzioni divergenti, con fronti d’onda
semicircolari come se provenissero dal centro dell’apertura.
2.3 Composizione spettrale della luce
La gamma delle onde elettromagnetiche è molto ampia ed è costituita da diversi
tipi di radiazioni, alcune a noi visibili, altre che ci giungono senza attivare i nostri
organi della vista, come le onde radio, l’infrarosso, l’ultravioletto, i raggi X.
Le onde che chiamiamo visibili sono quelle in grado di eccitare il nostro senso della
vista.
Ogni onda è costituita da alcune proprietà:
frequenza, cioè il numero di oscillazioni compiute in un secondo dai campi elettrico
e magnetico; essa è determinata dal comportamento della sorgente che la emette
(non dal mezzo che la propaga) e si misura in hertz (Hz).
lunghezza d’onda, cioè la distanza tra due massimi dell’onda stessa, e si misura (nel
caso della luce) in nanometri (nm).
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L’occhio umano è sensibile ad una parte molto piccola dell’intero spettro delle onde
elettromagnetiche, e va approssimativamente dai 380 ai 720 nm, rispettivamente tra la
soglia dell’ultravioletto e quella dell’infrarosso.
Quindi tra 0 e 380 nm e tra 720 nm e infinito vi sono altre radiazioni che non siamo in
grado di percepire affatto o percepiamo solo in parte (come il calore nell’infrarosso).
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Tra questi 2 valori noi percepiamo quelli che chiamiamo colori: questo è spiegato
dall’esperimento attraverso cui Newton dimostrò che il raggio di luce bianca
comprende tutte le tonalità.
10
A. Frova, Luce colore visione, op. cit., p. 65.
Spettro della luce solare che giunge sino
a noi: non si discosta molto da quella che
è la curva di luminosità dell’occhio
umano.
10
Egli fece entrare un raggio di luce bianca in un prisma di vetro, e notò che le diverse
componenti cromatiche subivano una rifrazione il cui angolo era diverso per ciascuna
di esse, ossia ognuna subiva una deviazione dalla propria direzione di propagazione
tanto maggiore quanto minore era la lunghezza d’onda corrispondente. Il rosso perciò
deviava meno rispetto al violetto.
La dispersione della radiazione
della luce attraverso il prisma.
Newton riuscì anche a ricombinare i vari colori semplicemente ponendo un secondo
prisma questa volta capovolto.