VII
Le candidature ufficiali dei Paesi dell’Europa Centro-Orientale (PECO) furono
presentate tra il 1994 ed il 1996 e si andavano ad aggiungere a quelle presentate nel 1987
dalla Turchia e nel 1990 da Malta e Cipro. Il Consiglio Europeo riunitosi a Lussemburgo il
12 e 13 dicembre del 1997 ha avviato i negoziati con 6 paesi (Repubblica Ceca, Estonia,
Ungheria, Polonia, Slovenia e Cipro) che costituirono il cosidetto Gruppo di Lussemburgo.
Nel frattempo la Commissione Europea elaborava Agenda 2000, un documento di
riflessione sulle differenti problematiche sollevate dall’allargamento, approvato in via
definitiva dal Consiglio Europeo di Berlino del 1999. Con esso si dettavano anche i criteri
politici-economici che i nuovi stati dovevano rispettare per aderire all’UE. Sempre nel
1999 furono avviate le negoziazioni con i restanti paesi candidati, vale a dire Bulgaria,
Lettonia, Lituania, Romania, e Slovacchia (definiti il Gruppo di Helsinki), mentre la
Turchia veniva riconosciuta come paese candidato.
Nel dicembre del 2000 i capi di Stato e di Governo riunitesi a Nizza sottoscrissero
il trattato che prevede la modifica delle istituzioni europee per far fronte all’incremento
della complessità politica che si avrà dal passaggio da una Unione a 15 ad una a 27 stati.
Nell’ottobre del 2002 tale documento è stato ratificato anche dall’ultimo paese rimanente,
cioè l’Irlanda, rimuovendo così qualsiasi ostacolo giuridico al processo di allargamento.
Due mesi più tardi a Copenaghen, il Consiglio ha dichiarato ufficialmente concluse
le negoziazioni con 8 paesi dell’Europa Centro Orientale (escluse Bulgaria e Romania) e
con i due piccoli paesi del Mediterraneo. La loro completa adesione è prevista per il
maggio del 2004.
Il futuro allargamento rappresenta un evento senza precedenti nella storia europea
non solo in termini geografici ma anche in termini economici. La popolazione dei PECO
equivale a circa il 29% dell’attuale popolazione europea mentre la loro superficie è pari al
33% dell’area dei Quindici. A tale rilevanza in termini geografici corrisponde invece un
limitato apporto in termini economici. Il PIL pro capite dei 10 paesi membri è in media il
40% del livello europeo. La composizione del valore aggiunto nazionale benché sia
diversificata da paese a paese, lascia intravedere nel complesso un livello di sviluppo
inferiore alle economie europee. Il peso relativo del settore primario in termini di PIL varia
dal 3,7% della Slovenia ad oltre il 17% della Bulgaria mentre il settore dei servizi, che ha
un peso medio pari al 71% nei Quindici, ha un peso pari al 63% nei PECO. Ancor più
sbilanciata verso il settore primario è la distribuzione della forza lavoro. Infatti la
percentuale di occupati in agricoltura prossimi a quelli europei (in media il 4,2%) si
registrano solo nella Repubblica Ceca (4,9%), in Slovacchia (6,3%), in Ungheria (6,1%) ed
VIII
in Estonia (6,9%). Negli altri PECO invece il numero di occupati nel settore sono maggiori
fino a raggiungere il 9,7% in Bulgaria, il 19,2% in Polonia ed oltre il 40% in Romania.
Proprio per la sua portata e per le caratteristiche dei paesi candidati, l’allargamento
ha sollevato numerose perplessità e problematiche sotto differenti punti di vista. Ad
esempio l’ampliamento di nuovi 10 paesi (compresi cioè Malta e Cipro) nel 2004 e due
probabili adesioni nel 2007 ha sollevato la questione della riforma delle istituzioni europee
evidenziando l’esigenza di ricercare un giusto punto di equilibrio tra l’efficienza degli
organi comunitari e l’uguaglianza di diritti politici tra i singoli paesi. Così pure dal punto di
vista sociale numerose preoccupazioni sono sorte in merito all’adozione del trattato di
Schengen che potrebbe provocare una vera e propria emigrazione di massa nei Quindici,
specie nei paesi più vicini come Germania, Austria ed in parte Italia.
Numerose perplessità sono state sollevate anche dal punto di vista economico-
finanziario. I limitati livelli di reddito pro capite visti sopra, sono legati anche alla struttura
produttiva caratterizzata dal forte peso del settore agricolo, inefficienze di altri settori e da
una situazione macroeconomica piuttosto incerta. Ciò solleva un duplice problema in una
futura Unione allargata: da un lato problemi di bilancio, mentre dall’altro lato l’esigenza di
ristrutturazione delle economie dei PECO al fine di convergere ai livelli di competitività
dei Quindici.
Dal punto di vista del bilancio, i PECO assorbiranno gran parte delle risorse
finanziarie comunitarie in quanto diventeranno i maggiori beneficiari sia dei Fondi
Strutturali (visto che gran parte delle regioni di questi paesi rientreranno nell’Obiettivo 1,
cioè le regioni che hanno un reddito inferiore al 75% del livello europeo) sia dei fondi
destinati alla Politica Agricola Comunitaria (vista la presenza di un numero assai elevato di
aziende e della maggiore importanza del settore primario in questi paesi), cioè delle risorse
destinate a due politiche particolarmente rilevanti e che nel 2002 assorbivano circa il
79,7% del bilancio comunitario.
Dall’altro lato però, i costi relativi agli aggiustamenti graveranno in buona parte
sulle spalle dei PECO i quali dovranno impegnarsi ampiamente per colmare quel gap
produttivo e qualitativo esistente con gli attuali paesi membri. Infatti, le aziende dell’Est
europeo si troveranno a competere in un mercato unico nel quale si trovano efficienti e
competitive imprese europee dalle quali non potranno più essere protette da mirate
politiche nazionali e commerciali.
Entrambe le problematiche si ripresentano, ed in maniera notevolmente accentuata,
per il settore dell’agricoltura.
IX
La PAC (Politica Agricola Comunitaria) è sempre stata, e rimane tuttora, una delle
politiche più importanti in termini di bilancio. Nel 2000 questa assorbiva circa il 45% del
bilancio europeo. Frequentemente ci si è dunque interrogati sulla sostenibilità finanziaria di
un’estensione della PAC ai PECO considerando che i nuovi paesi assorbirebbero fette
consistenti della spesa agricola a fronte di un contributo di bilancio di grandezza
decisamente inferiore. L’adesione dei nuovi stati porterà infatti ad un notevole incremento
delle aziende agricole. Basti pensare che la sola Polonia con i suoi 12,3 milioni di
agricoltori supera il numero di aziende agricole europee (circa 7 milioni).
In secondo luogo, la struttura produttiva generalmente differente da quella dei
Quindici paesi membri, con un’agricoltura che ha un peso maggiore sia in termini di PIL
sia soprattutto in termini di occupazione, lascia intravedere una necessità di ristrutturazione
del settore specie in alcuni paesi particolarmente importanti come Polonia e Romania. Nel
settore primario, al pari di altri settori, è quindi auspicabile un ammodernamento ed una
convergenza verso le strutture europee ma con un aggravante rispetto agli altri:
l’importante peso politico-sociale che ricopre all’interno di alcuni PECO. Tenendo conto di
tali osservazioni sono state sollevate numerose perplessità sugli effetti dirompenti che un
improvviso ed elevato sostegno all’agricoltura potrebbe avere sull’assetto produttivo e
sociale, sulla distribuzione del reddito, sui flussi commerciali nei nuovi stati membri e
sugli stessi equilibri dell’intera UE.
In un tale contesto di dubbi e perplessità sono state portate avanti le negoziazioni
sul Capitolo Agricoltura tra Bruxelles e i paesi candidati all’adesione. Le posizioni iniziali,
volte principalmente a garantire i rispettivi interessi, erano particolarmente lontane. Da un
lato infatti si posizionava una UE, la quale, preoccupata per il forte impatto sul bilancio,
escludeva la piena applicazione della PAC, mentre dall’altro lato i PECO, consapevoli
delle difficoltà di ammodernamento del proprio settore primario e volendo evitare di
divenire dei netti contribuenti al bilancio (cioè pagare più di quanto ricevono), spingevano
al fine di ottenere un trattamento paritario dal punto di vista degli aiuti.
Le maggiori problematiche sono sorte in relazione allo strumento principale della
PAC: i pagamenti diretti. La loro importanza non è solo legata al fatto che sono la base del
meccanismo di funzionamento della politica comunitaria ma anche perché assorbono la
maggior parte dei fondi destinata al settore agricolo. Infatti nel 2000 erano destinatari di
oltre il 60% dei fondi destinati all’agricoltura.
Il capitolo del negoziato relativo al settore primario era suddiviso in due
sottocapitoli: uno relativo alle questioni veterinarie, sanitarie e fitosanitarie mentre l’altro
X
relativo ai pagamenti diretti. In concreto però il nocciolo fondamentale è stato quasi ed
esclusivamente il secondo. L’accordo si è infatti raggiunto quando i PECO hanno
rinunciato a periodi transitori e sconti in termine di aquis in cambio di aiuti.
Dopo il rifiuto iniziale di un’estensione dei pagamenti diretti da parte della
Commissione, come espressamente dichiarato in Agenda 2000, e giustificato non solo per
l’eccessivo aumento della spesa per la PAC ma anche per altri motivi quali la natura
compensatoria del pagamento e soprattutto i possibili effetti negativi nel processo di
ristrutturazione dei PECO, Bruxelles ha dovuto fare alcuni passi indietro. Così nel gennaio
2002 la Commissione ha avanzato una proposta che prevedeva una estensione graduale del
pagamento diretto disaccoppiato (cioè un pagamento non collegato al volume di
produzione). Dopo un rifiuto iniziale dei PECO, una sorta di compromesso si è raggiunto a
Copenaghen apportando alcune modifiche sostanziali alla proposta della Commissione,
come ad esempio la possibilità di avere aiuti complementari statali più elevati in modo da
raggiungere gli stessi livelli di quelli erogati nell’UE dopo soli 7 anni anziché 10.
Nonostante gli accordi siano già stati conclusi e le linee direttive nella fase di
adesione già ben delineate, ancora alcuni dubbi e perplessità sull’immediato futuro dell’UE
vengono sollevati. Saranno sufficienti i fondi stanziati per far fronte ai problemi relativi ad
un’Unione allargata? Dovranno essere apportati successivi aggiustamenti nel breve e
medio periodo? E se si, quali? Come ridistribuire i fondi ed i contributi tra i paesi in un’UE
a 27 Stati? Quali effetti si ripercuoteranno sul mercato di un’Unione allargata? Numerosi
economisti si sono adoperati per cercare di trovare una risposta a questi quesiti ponendosi
soprattutto nell’ottica europeista.
Non si può tuttavia non tenere conto anche del punto di vista dei paesi dell’Europa
Centro Orientale e cercare di capire quali possano essere gli effetti dell’adesione sul loro
settore agricolo. Adesione vuol dire rinunciare ad una politica agricola nazionale. Aiuti
statali ed altre misure destinate al settore agricolo saranno completamente abbandonati o
comunque mantenuti entro determinati limiti previsti dalla legislazione europea. In
sostituzione delle politiche nazionali verrà estesa ai nuovi paesi la PAC, una politica
parzialmente differente a quelle attualmente adottate dai PECO e che persegue obiettivi
fino ad ora trascurati, o comunque messi in secondo piano, in questi paesi. Che effetti avrà
l’applicazione della PAC sui PECO? In che modo reagirà la loro produzione agricola? Chi
ne beneficerà maggiormente? Una politica attenta a problematiche tipiche di paesi “ricchi”
sarà appropriata anche in ambienti economici-sociali differenti? E’ la politica più adatta ad
andare incontro alle esigenze di ristrutturazione del settore agricolo dei PECO?
XI
Nel tentativo di fornire una risposta a questi quesiti lo studio è stato suddiviso in
due parti: una parte generale che tratta complessivamente la situazione dei PECO ed una
seconda parte in cui viene affrontato un caso studio specifico: la Romania. Basandosi su
una ricca letteratura si è proseguito ad una attenta analisi del settore agricolo dei PECO.
Per fare ciò non si poteva non parlare dell’evento che ha caratterizzato gli sviluppi
economici dei paesi dell’Europa Centro Orientale negli ultimi 15 anni: la riforma
economica.
Nel primo capitolo viene fatta una breve descrizione di questo processo cercando di
evidenziare problematiche ed effetti ad esso correlate. Il passaggio da un’economia
pianificata ad una di mercato ha notevolmente influenzato gli elementi principali del
settore. L’agricoltura particolarmente protetta e sostenuta dall’intervento statale durante il
periodo comunista ha visto, in seguito al processo di riforma, l’abbandono di tutte quelle
misure che la rendevano un settore particolarmente tutelato. La liberalizzazione dei prezzi
sia dei prodotti agricoli che degli input utilizzati nel processo di produzione, la
privatizzazione della terra e delle grandi aziende statali e collettive, le modifiche apportate
ai settori strettamente connessi al settore primario nonché gli sviluppi relativi alle
infrastrutture fisiche ma soprattutto a quelle istituzionali (es. sviluppo del sistema bancario
o della legislazione commerciale) hanno avuto un forte impatto sia sulla produzione che
sul consumo dei prodotti agricoli. Se si comprende come sono state affrontate determinate
questioni e come è stato perseguito il processo di riforma dai differenti leader politici nel
corso degli anni ’90, si riesce anche a capire l’attuale situazione strutturale delle agricolture
dei PECO. A seconda di come si sia realizzata la privatizzazione, la riforma in termini
legislativi volta alla tutela del diritto di proprietà ed alla modifica del diritto commerciale
ed altri sviluppi legati al processo di transizione si sono venuti a delineare gli elementi
principali di queste agricolture.
Obiettivo principale del secondo capitolo è quello di descrivere in generale il
settore primario dei PECO. L’agricoltura di questi paesi è un’agricoltura non solo
particolarmente importante dal punto di vista economico e sociale ma anche arretrata se
messa a confronto con quella europea. La frammentazione della Superficie Agricola
Utilizzata (SAU), la presenza sul mercato di grandi aziende collettive, la sovraoccupazione
agricola e soprattutto la mancanza di capitale da investire affiancata ad elementi di
carattere socio-culturale ereditate dal vecchio sistema pianificato (come ad esempio la
bassa propensione al rischio, la preferenza ad intraprendere attività personali, il basso
livello di istruzione nelle zone rurali) hanno reso le aziende di tali economie poco
XII
competitive sia sullo scenario internazionale che europeo. In ogni caso è giusto precisare
che si registrano notevoli diversità all’interno di tale insieme di paesi. Ungheria,
Repubblica Ceca e Slovenia sembrano esser dotate di un apparato produttivo non molto
lontano dagli attuali paesi membri dell’UE. Ma in paesi come Romania e Polonia o come
in due delle tre Repubbliche Baltiche ed in Bulgaria, i rendimenti agricoli sono al di sotto
delle media europea in particolar modo nel settore animale (il settore maggiormente colpito
dal processo di riforma). La necessità di un’ulteriore ristrutturazione del settore, sommata
alla prospettiva di aderire all’UE hanno poi influenzato le scelte politiche e commerciali di
questi paesi descritte nella parte conclusiva del capitolo.
Le caratteristiche attuali dell’agricoltura dei PECO sono il punto di partenza per
l’adesione visto che questa è prevista nel maggio del 2004 per 8 dei 10 PECO. Ma per
poter capire quali effetti potrà avere sulle loro agricolture l’integrazione nell’Unione
Europea è necessario tenere conto di due elementi fondamentali: la PAC e la convergenza
delle politiche dei PECO.
Il terzo capitolo illustra il processo di allargamento dell’UE il quale si è intrecciato
con un processo parallelo conclusosi solo il 26 Giugno 2003: la riforma della PAC. La
Commissione ha affrontato le due questioni in maniera separata. La modifica degli
strumenti della PAC era uno degli obiettivi prefissati dalla Commissione e che doveva
essere portato a termine indipendentemente dagli sviluppi dell’allargamento. Infatti la
riforma Fischler rappresenta il risultato di un processo di riforma iniziato all’inizio degli
anni ’90 per far fronte oltre che ad esigenze interne (controllo del budget, semplificazione
amministrativa, una più equa distribuzione dei fondi tra le aziende ecc.) anche alla
pressioni internazionali, specie nell’ambito del WTO, dove la PAC era stata spesso
accusata di proteggere eccessivamente l’agricoltura europea e di supportare il settore in
maniera distorsiva. Pagamento unico disaccoppiato per azienda basato sul livello dei
pagamenti diretti recepiti nel corso del triennio 2000-2002, semplificazioni amministrative,
modulazione ed altri principi sono le linee guida della riforma e sembrano essere
sufficienti per far si che l’Unione Europea si possa presentare alle trattative in corso in
sede di WTO con tutte le carte in regola.
Tale riforma ha un ulteriore pregio: nonostante sia stata portata avanti in maniera
separata dal processo di allargamento converge sotto molti aspetti con le decisioni prese a
Copenaghen. L’accordo della capitale danese aveva infatti introdotto pagamenti diretti
disaccoppiati (anche se qui sono stati introdotti più che altro per ragioni di carattere
amministrativo) ed alcune semplificazioni amministrative (ad esempio il pagamento
XIII
semplificato) simili a quelle successivamente previste dalla riforma Fischler. Tali
similitudini dovrebbero facilitare il passaggio alla completa applicazione della PAC dei
PECO nei primi anni dell’adesione.
Per quanto riguarda la convergenza delle politiche settoriali, i governi dei PECO
hanno cercato da un lato di adottare misure di sostegno sempre più simili a quelle della
PAC ed intensificare i rapporti commerciali con l’Unione Europea, dall’altro lato,
beneficiando dei fondi europei (PHARE, ISPA e soprattutto, in relazione del settore
agricolo, il fondo SAPARD) hanno cercato di perseguire uno sviluppo delle zone rurali,
nonché la creazione delle strutture amministrative necessarie per il corretto funzionamento
delle politiche comunitarie.
Dopo aver effettuato una breve descrizione della politica agricola europea ed aver
descritto in breve il processo di convergenza dei PECO, il terzo capitolo si chiude con una
riflessione sui possibili effetti della PAC sul loro settore agricolo. L’analisi è basata
sull’esame dei risultati ottenuti dai modelli elaborati da alcuni autori e dalla stessa
Commissione Europea che lasciano intravedere i possibili sviluppi su diversi aspetti del
settore agricolo: il livello di produzione e di consumo, il mercato della terra ed infine gli
effetti sul reddito delle aziende agricole.
La seconda parte del lavoro è dedicata ad un paese specifico: la Romania. Nel
passaggio dal generale al particolare è stata però mantenuta la struttura della prima parte.
Dopo una breve introduzione del paese, si è proseguito ad analizzare quello che è stato
concretamente fatto nel corso degli anni ’90. Successivamente si sono analizzati gli
elementi cruciali della sua agricoltura cercando di vedere attentamente ciò che si produce,
la struttura aziendale, il livello di produttività e le recenti politiche agrarie e commerciali.
Infine sono state avanzate conclusioni sui possibili effetti dell’estensione della PAC su
questo singolo paese.
La scelta della Romania come paese su cui concentrare l’attenzione non è stata
casuale, bensì il frutto di alcune riflessioni.
Innanzitutto il paese balcanico ha degli stretti rapporti commerciali con l’Italia. Il
nostro paese è il principale partner commerciale europeo della Romania sul mercato
complessivo dei beni. L’importanza in termini di import ed export è in parte mantenuta
anche per quanto riguarda il mercato agricolo. Mentre paesi come Polonia, Repubblica
Ceca e le Repubbliche Baltiche per la loro lontananza dal punto di vista geografico hanno
dei limitati rapporti commerciali con il nostro paese, i prodotti agricoli rumeni, quali ad
esempio animali vivi e prodotti ortofrutticoli hanno come principale destinazione europea
XIV
l’Italia. Inoltre la Romania ha buone potenzialità in alcuni settori come ad esempio nella
produzione di vino e di suini che la rendono una potenziale concorrente del nostro paese in
una futura Unione a 27 stati.
In secondo luogo molto è già stato scritto sui paesi prossimi all’adesione mentre la
Bulgaria e la Romania sono state in parte tralasciate dalla letteratura. L’attenzione ai paesi
balcanici è stata infatti ridotta dall’importanza della prima fase di adesione da un lato e dal
dibattito sul futuro di due paesi particolarmente rilevanti quali la Federazione Russa e
l’Ucraina dall’altro. Proprio per tale ragione il materiale specifico sul caso è carente. I
rapporti delle organizzazioni internazionali ed europei non sono particolarmente attuali ed i
dati ufficiali, come gli sviluppi recenti delle politiche agricole, sono difficili da reperire.
Un ulteriore motivo è legato al fatto che la Romania è il più importante paese
candidato all’adesione, dopo la Polonia, in termini di grandezza geografica ed economica.
Altri paesi particolarmente interessanti e vicini all’Italia come Ungheria, Slovenia o
Bulgaria hanno infatti un peso del tutto secondario almeno dal punto di vista
dell’agricoltura. Invece il settore primario rumeno con i suoi oltre 4 milioni di agricoltori
rappresenterà una buona fetta del mercato agricolo europeo ed avrà dunque un forte
impatto sugli sviluppi dell’agricoltura di una Unione a 27 stati.
Infine, la Romania è forse lo Stato che maggiormente interpreta i problemi del
settore agricolo dei PECO. Lo stato balcanico rappresenta una sorta di “pecora nera” del
gruppo: è il paese con il più grave ritardo nel processo di riforma, con la più alta
percentuale di occupati nel settore (oltre il 40%) e con un livello di produttività
estremamente basso visto il suo elevato grado di frammentazione della SAU ed il basso
utilizzo del fattore capitale.
Parte Prima
Paesi dell’Europa Centro Orientale
2
CAPITOLO 1
LA TRANSIZIONE NELL’EUROPA DELL’EST
1.1 La Riforma nel Settore Agricolo
1.1.1 La crisi delle economie pianificate
Con la caduta del muro di Berlino del 1989, si sono aperti nuovi scenari politici ed
economici per l’Europa Centro Orientale. Infatti, tutti i paesi “satelliti” del blocco
sovietico hanno avviato una profonda riforma dal punto di vista istituzionale, politico ed
economico
1
.
A partire dai primi anni ’90 il processo di riforma avviatosi in alcuni paesi già una
ventina di anni prima, ha conosciuto un ulteriore spinta in seguito al definitivo abbandono
dell’esperienza del socialismo reale. Fin dai primi anni ’70 in alcuni paesi, come
l’Ungheria, furono introdotte riforme per incentivare le imprese ad apportare
miglioramenti dal punto di vista dell’efficienza. Segnali di riforma si sono avuti anche
durante gli anni ’80, in cui la stessa URSS, cioè lo stato guida dei paesi socialisti, iniziò un
lento processo di riforma guidato dal presidente sovietico Gorbaciov.
Ma la vera e propria radicale riforma è stata introdotta in Polonia solo nel gennaio
del 1989. Il sindacato polacco Solidarnosc, dopo essere stato per lungo tempo bandito dal
regime comunista, ed esser salito al potere con le elezioni del 1989, abbandonò
definitivamente la pianificazione statale dell’economia per passare velocemente ad
un’economia di mercato. Così nel gennaio del 1990 venne rimosso il controllo su quasi
tutti i prezzi e si diede vita ad un programma di stabilizzazione macroeconomica.
A partire dal quel momento si può parlare di un vero “big bang” economico che
coinvolse tutte le economie dell’Est europeo. Pur non realizzandosi un processo chiaro ed
uniforme, ma variabile da paese a paese, la linea guida da seguire era pur sempre la
medesima: abbandono della pianificazione economica per dar vita ad una economia di
mercato.
1
C’è comunque da precisare che nella maggior parte dei paesi candidati all’adesione non si è mai
completamente instaurato un sistema di economia pianificata anche se, come nell’ex Unione Sovietica, il
prezzo si riduceva ad un vero e proprio meccanismo contabile.
3
Un processo che per alcuni economisti non si limita all’esperienza europea ma va
oltre i confini del Vecchio Continente, vedendo crollare il perno fondamentale dell’idea
comunista, cioè l’URSS. Infatti l’abbandono di economie pianificate è stato portato avanti,
quasi contemporaneamente, anche in paesi quali la Cina o il Vietnam, cosicché ad oggi le
uniche economie centralizzate che sono riuscite a sopravvivere a questa “rivoluzione” sono
soltanto Cuba e Corea del Nord. Attenendosi allo scenario europeo, i paesi riformanti
possono essere divisi in due diverse categorie:
- i PECO (Paesi dell’Europa Centro Orientale) che sono candidati ad aderire all’Unione
Europea, cioè, Polonia, Ungheria, Repubblica Ceca, Slovacchia, Bulgaria, Romania,
Estonia, Lettonia, Lituania, Slovenia. A tali paesi possono essere aggiunti anche altri
non candidati all’adesione quali Albania, Croazia, Macedonia e Bosnia;
- i CSI cioè la Comunità degli Stati Indipendenti che comprende Russia, Ucraina,
Bielorussia, Moldavia, Georgia, Armenia, Azerbaijan, Kazakistan, Kyrzkystan,
Uzbekistan, Turkmenistan e Tajikistan.
1.1.2 Gli elementi portanti della riforma
Secondo due studi, l’uno effettuato da Swinnen e Liefert per l’ERS (Economic
Research Service), e l’altro effettuato da Csaki e Nash per la World Bank gli elementi
portanti della riforma sono i seguenti
2
:
1) Liberalizzazione del mercato: si tratta della rimozione di controlli statali
sull’allocazione sia delle risorse che della produzione, in modo che sia “la mano
invisibile del mercato” a determinare l’indirizzo produttivo all’interno di un paese. Il
termine di liberalizzazione del mercato, quindi include due nozioni fondamentali:
- la liberalizzazione dei prezzi;
- liberalizzazione del mercato in senso stretto (cioè eliminazione dei sussidi destinati
ai produttori e consumatori di prodotti agricoli e di barriere verso l’esterno).
2
Infatti nello studio condotto dai due autori, Csaki e Nash (2000), venivano considerati 5 elementi portanti
della riforma che sono: la liberalizzazione dei prezzi e del mercato; la riforma del territorio e la
privatizzazione; la privatizzazione e la riforma di aziende che riforniscono gli input ed i servizi necessari al
sistema produttivo agricolo; il sistema finanziario legato all’agricoltura; infine la riforma istituzionale.
Quindi, in breve, il rapporto della World Bank non fa altro che considerare in maniera distinta il sistema
finanziario e la riforma istituzionale, che invece sono state prese in considerazione nel medesimo punto (nel
4°, cioè nella modifica delle infrastrutture) dal rapporto effettuato dagli economisti dell’ERS.
4
Entrambi gli elementi hanno portato ad una sostanziale modifica non solo del
volume di produzione ma anche della composizione del consumo e del mercato.
2) Privatizzazione della imprese agricole: il processo di privatizzazione consiste
principalmente nel passaggio della proprietà dallo stato ai privati. Ma a ciò ha fatto
seguito un processo di ristrutturazione aziendale, in quanto ora l’impresa verrà gestita
in maniera differente per ottenere fini diversi. Ora infatti il privato non sarà più
interessato a perseguire interessi pubblici come la sicurezza alimentare o l’incremento
delle esportazioni ma il suo vero fine sarà quello di incrementare i profitti.
Quindi il concetto di privatizzazione è strettamente legato a quello di
ristrutturazione aziendale. D’altronde se il fine della riforma è creare un mercato
competitivo ed efficiente i nuovi proprietari devono seguire la logica del profitto che
sta alla base di ogni economia capitalistica: i produttori che vogliono incrementare i
loro guadagni, o che comunque non vogliono essere buttati fuori dal mercato, devono
ridurre i costi ed incrementare la propria efficienza;
3) La creazione di infrastrutture necessarie: Con il termine infrastrutture si intende
quell’insieme di istituzioni e servizi rivolti a garantire un corretto funzionamento del
mercato e strumentali al sistema produttivo generale. Sono dunque mezzi trasversali,
non rivolti ad un determinato settore di un’economia ed in quanto tale utilizzabili anche
dall’agricoltura. Tale categoria è piuttosto ampia e vi rientrano sia le cosidette
infrastrutture istituzionali come i sistemi bancari e finanziari, sistema informativo del
mercato, il diritto commerciale (che ha il particolare compito di proteggere e chiarire
situazioni che coinvolgono i produttori, nonché quello di risolvere eventuali dispute)
nonché quelle fisiche come le strade, ferrovie, porti, luoghi di stoccaggio, ecc.
4) Riforma di operazioni che stanno a monte (upstream operations) e a valle (downstream
operations) del processo produttivo agricolo: i settori “a monte e a valle” del settore
agricolo sono quei particolari settori strettamente collegati all’agricoltura in quanto
forniscono gli input necessari al sistema produttivo (upstream) ed eseguono successive
lavorazioni o distribuiscono i prodotti (downstream). Anche in questi due settori a
partire dal 1990 è stato avviato un processo di riforma che dovrebbe portare ad un
totale abbandono del vecchio sistema produttivo pianificato per lasciar posto alla
5
creazione di un mercato competitivo. Quindi la produttività delle aziende impiegate in
tali settori dovrebbe apportare indirettamente vantaggi al settore agricolo.
1.1.3 Le sue conseguenze
Le economie riformanti hanno dunque intrapreso politiche di liberalizzazione dei
prezzi, di privatizzazione-ristrutturazione dei differenti settori e di riforma infrastrutturale.
Gli effetti principali di questo processo sono stati principalmente due: da un lato si
è verificata una brusca caduta della produzione e dall’altro si è modificato il mercato
cambiando la composizione del consumo e della produzione.
Il brusco crollo della produzione, è ben visibile dai dati riportati nella Tab.1.1. Ogni
paese, ha registrato un crollo
3
del PIL che si aggira tra il 10 ed il 50% per arrivare al 61 %
dell’Ucraina. Le uniche eccezioni sono rappresentate dalla Polonia e da quei paesi
rientranti nel gruppo dei CSI in cui il processo di riforma è ancora arretrato (vedi poi) e che
ha permesso di mantenere un livello produttivo stabile (ed in alcuni casi crescente).
Tab.1.1 Variazione del livello di produzione nei paesi in via di transizione ( in %¹).
Indice di variazione della produzione ¹
Grano Carne Agricoltura Industria GDP
Ungheria 88 65 72 112 98
Repubblica Ceca² 87 73 72 86 91
Polonia 99 98 92 108 122
Romania 93 76 97 68 75
Bulgaria 68 50 59 50 68
Russia 61 48 60 50 61
Ucraina 61 41 51 39 39
Kazakistan 46 45 47 44 51
Bielorussia 73 57 58 96 71
Uzbekistan 246 108 99 72 97
Turkmenistan 335 126 118 45 90
Nota (1): i dati riportati fanno riferimento al biennio 1997-99 e sono espressi come variazione in percentuale della produzione media
registrata negli anni 1986-90 =100. Quindi, per es. l’indice 72 dell’Ungheria per la produzione agricola sta a significare che nel 1997-99
la produzione è crollata al 72% del livello medio registrati nel quadriennio 1986-90.
Nota (2): i dati relativi alla Repubblica Ceca sono combinati con quelli della Slovacchia
Fonte: Swinnen e Liefert, 2003
3
Bisogna comunque sottolineare che i dati contenuti nella tabella possono essere considerati approssimativi
e quindi non precisi. La tendenza generale di tali dati è di un’approssimazione in eccesso, cioè danno una
visione esagerata del declino produttivo. Le cause di questa imprecisione sono principalmente dovute alla
difficoltà nel reperire dati corretti nel periodo precedente la riforma. Infatti nel periodo di economia
pianificata, le aziende, in ogni settore, sovrastimavano la loro produzione per mostrarsi migliori, mentre nel
periodo di transizione esse hanno l’incentivo di sottostimare il proprio livello produttivo per evitare
imposizioni di tasse e per giustificare eventuali ed aggiuntivi sussidi statali. A ciò deve essere aggiunta la
difficoltà di misurare la crescita di produzione di industrie private e nel settore terziario (Swinnen e Liefert,
2003).
6
Per quanto riguarda l’industria, i declini sono stati più limitati in paesi dell’Europa
Centro Orientale rispetto a quelli verificatesi nei paesi più vicini all’ex Unione Sovietica
dove una grave crisi ha colpito l’industria pesante. L’unico settore che ha conosciuto uno
sviluppo e che per certi versi ha impedito una più pesante caduta del PIL è stato il settore
terziario che comprende una vasta categoria dei servizi che va da quelli forniti per la cura
personale a quelli legati alle attività legali.
Per quanto riguarda il settore agricolo, sensibili crolli produttivi si sono riscontrati
in paesi quali Russia (60%), Bulgaria (59%), Bielorussia (58%), Ucraina (51%) e
Kazakistan (47%). Anche all’interno del settore agricolo le conseguenze legate alla riforma
sul settore del bestiame e quello delle coltivazioni non sono state uniformi. Infatti come si
può notare dalla Tab.1.1 in tutti i paesi, le perdite nella produzione di carne (bene
principale e rappresentativo del settore agricolo zootecnico) sono state maggiori rispetto e
quelle subite nella produzione di grano. Così, seppur con differenze più o meno accentuate
in ogni singolo paese, a perdite del settore del bestiame che si aggirano mediamente tra il
30% e il 50 % corrisponde un crollo medio del grano compreso tra il 10 ed il 30%.
Contemporaneamente alla caduta di produzione si è registrata un altrettanto brusco
crollo di consumo interno (vedi Tab. 1.2). Ma il suo trend negativo non è stato il frutto del
crollo della produzione. La difficoltà di acquistare generi alimentari, nonché di
salvaguardare la sicurezza alimentare, è dipeso innanzitutto da fenomeni quali la
disoccupazione e l’inflazione estremamente elevati.
Tab. 1.2 Variazione dei consumi pro capite
Carne (in Kg) Latte (in Kg) Cereali (in Kg) Patate (in Kg)
1990 1997 1990 1997 1990 1997 1990 1997
Polonia 73 66 230 204 145 157 144 136
Ungheria 101 84 178 156 148 113 58 66
Romania 74 50 99 179 173 205 59 82
Russia 75 48 184 (1) 145 164 (1) 156 106 125
Ucraina 68 32 184 (1) 156 164 (1) 160 131 126
Stati Uniti 113 117 256 254 109 116 55 62
Germania 96 83 224 236 94 83 81 79
Gran Bretagna 72 73 227 234 93 95 105 113
Giappone 38 42 65 68 133 118 25 26
Nota (1): i dati sono relativi all’intera URSS
Fonte: Swinnen e Liefert, 2003
Non è infatti un caso che il consumo si è spostato da beni di alto valore, come carne
ed altri prodotti derivanti dal settore zootecnico, ad altri più economici, come cereali e
patate, il cui consumo non è diminuito, ed anzi, in alcuni casi è aumentato. Ma in paesi