6
spone di una propria autorappresentazione sociale e che non viene riconosciuta
come tale dal sistema sociale dal quale tuttavia dipende»
5
.
In questo clima di forte mutamento è sembrato utile e importante indagare e
conoscere le persone che si trovano a dover mangiare in mensa. Per farlo ab-
biamo scelto un punto di osservazione privilegiato: la mensa dell’Antoniano
che da oltre 50 anni offre cibo ai “poveri” di Bologna. Siamo consapevoli che
la realtà che abbiamo studiato è “una” realtà e non “la” realtà. Non ci propo-
niamo quindi di fare generalizzazioni che risulterebbero sicuramente azzardate,
tuttavia pensiamo che il materiale empirico ricavato, e che andremo a presenta-
re, possa essere considerato interessante perché permette di raggiungere e ana-
lizzare una realtà in continuo mutamento che spesso viene dimenticata o taciu-
ta. Abbiamo qui tentato, allora, di superare la definizione di povertà come
«condizione sociale unitaria che attraversa tutte le dimensioni della human
condition»
6
privilegiando un approccio cosiddetto micro, attento quindi ad a-
spetti microcomportamentali, al tenore di vita dell’individuo e alla rete di rela-
zioni in cui questo si trova inserito.
Attraverso un’analisi del lavoro di alcuni importanti sociologi come Bau-
man, Beck e Castel il lavoro inizia con una lettura dei cambiamenti intervenuti
nella nostra società e dell’effetto che questi hanno avuto sulla vita degli indivi-
dui. In maniera particolare sottolineeremo i mutamenti che hanno attraversato
il lavoro, rendendolo incapace di offrire quel cardine intorno a cui legare defi-
nizioni di sé, identità e progetti di vita. L’attenzione sarà puntata non solo sulle
conseguenze economiche derivate dalla perdita di un lavoro, ma anche e so-
prattutto alla dimensione relazione che vi è strettamente collegata. Per leggere
il fenomeno, infatti, siamo convinti che tutto ciò abbia un’importanza fonda-
mentale come dimostreranno i dati in nostro possesso.
Nella seconda parte opereremo una prima contestualizzazione della struttura
osservata e ne presenteremo la storia. L’Antoniano apre i battenti nel 1954 e
nella sua storia intercorrono numerosi cambiamenti dovuti sia alle decisioni
5
M. Bergamaschi, Ambiente urbano e circuito della sopravvivenza, cit., p. 26.
6
G. Pieretti, Per una cultura dell’essenzialità. Studi e ricerche sulle moderne povertà urbane, cit., p. 54.
7
della direzione sia alle persone che vi si sono presentate. Analizzarne la storia
ci permetterà quindi di documentare i cambiamenti avvenuti nella struttura e
soprattutto ci consentirà di comprendere come il servizio si presenta oggi con
l’introduzione, nel settembre 2006, del Centro d'ascolto. Capire che tipo di ser-
vizio l’Antoniano voglia offrire e quale sia la mission del suo punto d'ascolto
sarà di cruciale importanza per tarare ogni osservazione e analisi di quanto os-
serveremo nel corso della ricerca.
Dal terzo capitolo entreremo nel vivo dell’analisi presentando il lavoro che
abbiamo svolto sui dati in nostro possesso. Tale lavoro ci ha permesso di trac-
ciare un profilo sociologico delle persone che frequentano questa mensa e ci ha
consentito di analizzare in modo più specifico alcune categorie idealtipiche co-
struite a partire dal nostro universo. Punteremo l’attenzione sul rapporto che
queste persone hanno con i servizi pubblici e del privato sociale, così da poter
capire se sono inserite in un circuito di assistenza o se al contrario sono perso-
ne sfuggite alle maglie dell’assistenza pubblica.
Il passo successivo consisterà nell’approfondire il tipo di rapporto che gli
utenti dell’Antoniano sviluppano con la mensa, studiando la frequenza con cui
ne usufruiscono. Questo lavoro ci consentirà, da un lato, di avere uno sguardo
generale sulla portata del servizio, cioè quanti pasti e quindi quante persone vi
si rivolgono e per quali motivi. Dall’alto lato, invece, ci permetterà di costruire
delle categorie idealtipiche di fruitori della mensa e poterle analizzare nello
specifico. Evidenziare e quantificare queste categorie ci acconsentirà anche di
stabilire se le priorità della struttura trovano una corrispondenza con la reale
utenza che vi si rivolge e quindi di capire se una struttura possa predefinire la
propria utenza o se, invero, è l’utenza stessa a definire il servizio.
Nell’ultima parte del lavoro presenteremo invece i dati qualitativi ricavati
dalle interviste semi-strutturate e dall’osservazione partecipante svolta. Siamo
convinti infatti che la sola parte quantitativa non ci permetta di avere un quadro
esaustivo delle persone che usufruiscono della mensa e per questo abbiamo o-
perato anche in direzione qualitativa spinti dall’esigenza di conoscere il punto
di vista degli utenti rispetto ad alcuni nuclei tematici che abbiamo ritenuto im-
8
portante approfondire. Il primo nucleo si rifà anzitutto all’aspetto nutrizionale
del cibo con l’obiettivo di indagare da un lato la struttura della loro dieta ali-
mentare e dall’altro quello di capire se, e come, l’alimentazione in mensa per-
mette alle persone di ricreare un ambiente accogliente in cui posizionarsi.
Un’altro piano di analisi sarà invece incentrato sull’aspetto relazionale e cer-
cherà di sondare quali rapporti si creino all’interno dell’Antoniano sia tra gli
ospiti stessi sia con il Centro d'ascolto. L’attenzione per questo piano tematico
è spinta dalla convinzione che creare relazioni sia indice del tentativo di vivere
lo spazio della mensa come un posto proprio, un posto familiare in cui stare
bene, indagare se gli utenti dell’Antoniano stringono relazioni ci permetterà
quindi di capire se vivono la mensa come un non-luogo o come uno spazio di
aggregazione in cui riconoscersi. Verranno analizzati anche i valori simbolici,
psicologici e sociali che il cibo ha nel nostro universo, convinti che il cibo non
abbia solo la funzione di nutrire, ma che sia strettamente legato ai ricordi e svi-
luppi una propria dimensione emotiva. Considerato che la maggior parte del
nostro universo è composto da stranieri, comprendere quali emozioni suscita il
cibo sarà di notevole importanza per comprendere il grado di attaccamento alla
propria terra, ma anche il grado di integrazione con la “nuova” terra. Infine
punteremo l’attenzione sulla percezione che le persone hanno del servizio stes-
so, così da poter conoscere l’importanza che questo assume nella loro giornata
e nella loro vita e quanto ne condizioni i ritmi. Capire in che misura accettino
tale condizionamento potrà svelare se esiste una strutturazione del sé funziona-
le ai servizi, cioè che ne segue i ritmi, oppure se tale strutturazione rimane pre-
rogativa degli individui stessi. Questi focus verranno indagati da due punti di
vista differenti: il primo come abbiamo detto, è quello degli utenti, ricavato
tramite l’intervista, il secondo è il mio, ed è ricavato tramite l’osservazione
partecipante. Sono ovviamente due punti di vista diversi, ma tra loro risulte-
ranno complementari e in grado di dare una visione di insieme.
9
Questa ricerca, quindi, ci consentirà di conoscere in maniera più approfondi-
ta chi sono le persone che si rivolgono alla mensa dell’Antoniano e allo stesso
tempo ci permetterà di fare alcune considerazioni sul servizio che viene offer-
to, ma soprattutto su come questo venga percepito e vissuto dagli utenti stessi.
10
1. La società liquida degli individui
In questo capitolo mi propongo di effettuare una lettura dei mutamenti che
hanno investito la nostra società e delle conseguenze che questi hanno compor-
tato sulla vita degli individui e sul lavoro sociale. Per far ciò mi riferirò in par-
ticolar modo al lavoro del sociologo polacco Zygmunt Bauman che nelle sue
più recenti pubblicazioni si è occupato del passaggio dalla modernità alla post-
modernità e delle questioni etiche relative.
1. Da “solido” a “liquido”
Per definire la società post-moderna Bauman conia una metafora a mio av-
viso molto convincente: quella di modernità liquida o fluida. L’autore eviden-
zia con questo nome la nuova modernità, quella che Beck chiama seconda mo-
dernità, che si discosta invece dalla modernità solida che viene prima.
Per Bauman la modernità solida coincide con la società dei produttori, men-
tre questa nuova modernità si rifà ad una società dei consumatori ed è proprio
intorno a questo passaggio logico che si sviluppa il pensiero dell’autore.
Possiamo identificare quale società dei produttori la società che si viene de-
lineando con la rivoluzione industriale settecentesca. Ciò che caratterizza que-
sto tipo di società è la centralità attribuita al lavoro. Svolgere un lavoro era
l’unico modo di acquistare una dignità umana e così il pieno impiego divenne
la norma, il fine ultimo a cui tendere. Chi era disoccupato veniva considerato
anormale. I mali individuali così come quelli collettivi potevano essere alleviati
obbligando tutti a lavorare. In questa fase storica, quindi, «il lavoro era conce-
pito come il fulcro della vita individuale e di quella collettiva, oltre ad essere
considerato l’indispensabile strumento di riproduzione dell’intero sistema so-
11
ciale»
1
. Sul piano individuale garantiva la possibilità di sopravvivenza e il tipo
di attività svolta definiva anche la posizione che si poteva raggiungere
nell’ambito della propria comunità e del mondo esterno. Creava quindi delle
biografie standard o di classe. Contemporaneamente il luogo di lavoro diveni-
va il cardine del processo di integrazione sociale in cui si formava l’attitudine
al rispetto delle norme e della disciplina necessaria al mantenimento
dell’ordine. La fabbrica, insieme all’esercito, rappresentava l’istituzione panot-
tica principale della società industriale.
Nella società dei consumatori l’individuo muta il suo ruolo all’interno della
società, se prima la sua funzione principale era quella di produrre oggi è chia-
mato ad assolvere il ruolo nuovo di consumatore. Ovviamente continuerà an-
che a produrre ma questa funzione non risulterà più la principale. «Nello stesso
tempo si avvia un processo di individualizzazione e diversificazione delle si-
tuazione e degli stili di vita che mina nelle sue basi il modello gerarchico delle
classi e dei ceti sociali e ne mette in discussione il contenuto di realtà»
2
.
Dopo aver smantellato il sistema precedente – con i suoi meccanismi
tradizionali di assegnazione dei ruoli sociali, che lasciavano ai singoli individui
la possibilità di accettare il proprio destino e di vivere secondo le norme
prescritte dal loro gruppo di appartenenza fin dalla nascita – la modernità ha
affidato a ciascuno il compito di costruire la propria identità sociale se non dal
nulla, almeno dalle sue fondamenta. La responsabilità individuale si estende
oggi fino a includere la scelta stessa del proprio ruolo sociale con
l’approvazione e il riconoscimento del mondo esterno. Ecco quindi che avviene
il passaggio evidenziato anche da Beck da biografie di classe a biografie
riflessive o «fai da te». La difficoltà però aumenta, se in passato il principale
generatore di identità sociale era il lavoro oggi non può più essere così. I nuovi
posti di lavoro sono in genere a tempo determinato o parziale, senza alcuna
garanzia di continuità, né tanto meno di stabilità. «La flessibilità è diventata la
nuova parola d’ordine»
3
.
1
Z. Bauman, Lavoro e consumismo e nuove povertà, Città Aperta Edizioni, Troina (EN), 2004, p. 35.
2
U. Beck, La società del rischio Verso una seconda modernità, Carocci, Roma, 2000, p. 118.
3
Z. Bauman, Lavoro e consumismo e nuove povertà, cit., p. 48.
12
Al pari del mercato del lavoro, qualunque modello di vita prescelto non de-
ve essere duraturo, bensì variabile in breve tempo o senza preavviso e aperto a
tutte le opzioni o quasi. Le mode culturali irrompono fragorosamente nella
pubblica fiera della vanità, ma invecchiano subito. È meglio dunque assumere
un’identità provvisoria, senza immedesimarsi troppo nel ruolo prescelto, pronti
ad abbandonarlo non appena si decida di impersonarne uno nuovo, più brillante
o non ancora sperimentato. Per far fronte alle sfide della vita contemporanea,
ciò che serve è esattamente «un’identità variabile e multiforme, paragonabile a
una gamma di articoli intercambiabili, sostituibili e destinati a non durare a
lungo, che si può trovare in un negozio»
4
. Lo spirito dei consumatori, al pari
delle industrie che prosperano su di esso, si ribella a qualsiasi regolamentazio-
ne, insofferente a ogni restrizione normativa imposta alla libertà di scelta.
Possiamo quindi dire che se la società dei produttori è per sua natura plato-
nica, alla ricerca delle regole e dei modelli ultimi di tutte le cose, quella dei
consumatori è aristotelica, ovverosia pragmatica, flessibile, fondata sul princi-
pio che non ci si deve preoccupare troppo presto di attraversare il ponte prima
di esserci arrivati vicino. L’unica iniziativa lasciata al consumatore consapevo-
le è quella di trovarsi nel luogo in cui le occasioni non mancano e nel momento
in cui se ne offrono.
2. I cambiamenti del mondo del lavoro
L’idea di progresso propria della modernità solida si rifà alla possibilità di
creare la vita al fine di renderla più soddisfacente e dunque migliore. Oggi tut-
tavia quest’idea di progresso appare «poco familiare da indurre a chiedersi se
esiste ancora. Questo accade perché anche il progresso è stato oggi «individua-
lizzato», o, più precisamente, deregolamentato e privatizzato»
5
. È deregola-
mentato dal momento che le offerte di aggiornare la realtà attuale sono molte e
4
Z. Bauman, Lavoro e consumismo e nuove povertà, cit., p. 50.
5
Z. Bauman, Modernità liquida, Laterza, Bari, 2000, p. 154.
13
diverse e dal momento che la questione se una particolare novità significhi
davvero un miglioramento è stata lasciata al libero dibattito prima e dopo la sua
introduzione ed è destinata a restare controversa anche a scelta già avvenuta.
Ed è privatizzato perché l’oggetto del miglioramento non è più un’impresa col-
lettiva, bensì individuale: sono i singoli uomini e donne che sono autonoma-
mente chiamati ad usare, singolarmente, il proprio ingegno, risorse e industrio-
sità per conquistare una condizione più soddisfacente e lasciarsi alle spalle
qualsiasi aspetto della loro condizione attuale essi possono detestare. Per dirla
con Beck «l’individuo in quanto tale diventa l’unità di riproduzione del sociale
nel mondo organico»
6
.
Esattamente come prima per progettare il futuro bisogna avere in mano il
presente. L’elemento di novità è la presa dell’individuo sul proprio presente
che per molti è quanto meno insicura e spesso completamente assente.
Nella modernità solida al lavoro vennero attribuiti molti valori ed effetti be-
nefici, ma alla base di qualsiasi merito ad esso riconosciuto c’era il suo presup-
posto contributo a quel processo di creazione all’ordine, all’atto storico di ren-
dere la specie umana responsabile del proprio destino. Il lavoro così definito
era uno sforzo collettivo cui partecipava ogni singolo individuo. In questa so-
cietà salariale l’acquisizione delle protezioni sociali matura essenzialmente «a
partire dall’inscrizione degli individui in collettivi di protezione (…) il lavora-
tore in quanto individuo abbandonato a se stesso non possiede pressoché nulla
(…) è l’istanza del collettivo che può rendere sicuro l’individuo»
7
.
Quando l’insicurezza diventa permanente l’idea di ordine totale da erigere
piano dopo piano in uno sforzo di lavoro prolungato, coerente e mirato ha poco
senso. I lassi di futuro si accorciano e la durata della vita nel suo complesso
viene sezionata in episodi affrontati uno per volta. La natura del progresso, un
tempo cumulativa e di lungo periodo, cede il passo a richieste indirizzate sepa-
6
U. Beck, La società del rischio Verso una seconda modernità, cit.
7
R. Castel, L’insicurezza sociale. Che significa essere protetti?, Einaudi, Torino, 2004, pp. 36-37.
14
ratamente ai singoli episodi. «In una vita regolata dal precetto della flessibilità,
piani e strategie non possono che essere di breve periodo»
8
.
«E così il lavoro ha mutato carattere. È sovente un’operazione una tantum,
l’attività di un bricoleur, mirata a quanto è a portata di mano, più il risultato di
un’occasione presa al volo che il prodotto di un processo pianificato e pro-
grammato»
9
. Il lavoro ha perso la centralità attribuitagli nella galassia dei valo-
ri dominanti dell’epoca della modernità solida e del capitalismo pesante. Non è
più in grado di offrire quel perno intorno al quale legare definizioni di sé, iden-
tità e progetti di vita. Né è facile immaginarlo nel ruolo di fondamento etico
della società, o perno etico della vita individuale.
Il lavoro ha acquisito un significato principalmente estetico. Ci si attende
che sia gratificante di per sé anziché essere valutato in base agli effetti reali o
presunti che arreca al prossimo o al potere della nazione e del paese, per non
parlare di felicità alle generazioni successive. Viene misurato e valutato in base
alla capacità di intrattenere e divertire, di soddisfare non tanto la vocazione eti-
ca del produttore e del creatore quanto i bisogni e i desideri estetici del consu-
matore, di chi cerca sensazioni e di chi colleziona esperienze.
«Flessibilità» è la parola d’ordine del giorno, e quando viene applicata al
mercato del lavoro essa preconizza la fine del lavoro così come lo intendiamo e
annuncia invece l’avvento del lavoro con contratti a termine o senza contratto,
posizioni prive di qualsiasi sicurezza, ma con la clausola del fino a ulteriori
comunicazioni. La vita lavorativa è satura di incertezza.
L’odierna incertezza è una possente forza di individualizzazione. Divide an-
ziché unire, e poiché i peggiori disastri colpiscono alla cieca, scegliendo le
proprie vittime alla cieca, l’idea di interessi comuni diventa sempre più nebulo-
sa e perde qualsiasi valore concreto. Non potendo più individuare categorie
predestinate andiamo incontro ad una generalizzazione dei rischi che genera
appunto insicurezza vissuta come individuale.
8
Z. Bauman, Modernità liquida, cit., p. 158.
9
Z. Bauman, Modernità liquida, cit., p. 159.
15
L’odierna versione «liquefatta», «fluttuante», frammentata e deregolamenta-
ta di modernità inaugura l’avvento del capitalismo leggero e fluttuante, caratte-
rizzato dal disimpegno e dall’allentamento dei legami che uniscono capitale e
lavoro. Il capitale si è sbarazzato della propria dipendenza dal lavoro grazie a
una nuova libertà di movimento che in passato non poteva neanche sognare.
Questo significa un mercato del lavoro flessibile, in cui i lavoratori perdono il
potere contrattuale che avevano con il capitale pesante.
«Il fenomeno che tutti questi concetti tentano di inglobare e articolare è
l’esperienza congiunta di insicurezza (della propria posizione, diritti, qualità
della vita), di incertezza (rispetto alla loro stabilità presente e futura) e di vul-
nerabilità (del proprio corpo, della propria persona e relative appendici: i pos-
sedimenti, il quartiere, la comunità)»
10
.
La precarietà diviene il tratto distintivo della condizione preliminare di tutto
il resto: la qualità della vita, e in particolare quella derivante dal lavoro e
dall’occupazione. Il punto cruciale è tuttavia che, almeno da un punto di vista
psicologico, a esserne colpiti sono non solo i lavoratori in soprannumero, ma
anche tutti gli altri, sebbene per il momento solo di striscio. Nel mondo della
disoccupazione strutturale nessuno può sentirsi completamente garantito.
Ecco che in assenza di una gratificazione di lungo periodo, la gratificazione
immediata appare a buon motivo una strategia quanto mai ragionevole. In un
mondo in cui il futuro è quanto mai indistinto e nebuloso, ma più probabilmen-
te irto di rischi e pericoli, porsi obiettivi distanti, ignorare l’interesse privato
per accrescere il potere del gruppo e sacrificare il presente in nome di una feli-
cità futura non sembra una prospettiva attraente e neanche sensata. «In altre pa-
role legami e unioni tendono ad essere considerati e trattati come cose da esse-
re consumate, non prodotte; sono soggetti agli stessi criteri di valutazione di
tutti gli altri oggetti di consumo»
11
.
10
Z. Bauman, Modernità liquida, cit., p. 186.
11
Z. Bauman, Modernità liquida, cit., p. 190.
16
A differenza della produzione, il consumo è un’attività individuale, endemi-
camente e irrimediabilmente individuale anche laddove viene espletata in com-
pagnia.
3. Città e comunità
Secondo la definizione classica di Robert Sennett, una città è «un insedia-
mento umano in cui è probabile che individui estranei si incontrino»
12
, estranei
che tali restano al termine del loro incontro. La conseguenza è che la vita urba-
na richiede un tipo di capacità tutta speciale e molto sofisticata, un intero arse-
nale di qualità che Sennett elenca sotto la rubrica di «buona creanza», cioè
l’attività che protegge le persone le une dalle altre, ma consente loro di godere
della reciproca compagnia. Indossare una maschera possiamo dire è l’essenza
della buona creanza.
La buona creanza non può essere privata e prima di diventare un’arte acqui-
sita individualmente deve essere una parte integrante del quadro sociale. Quin-
di è l’ambiente urbano che deve essere “costumato”. Questo significa che in
primo luogo deve essere dotato di spazi che la gente possa condividere in qua-
lità di persone pubbliche. In secondo luogo una città deve mostrarsi ai suoi abi-
tanti come un bene comune non riducibile all’aggregato di singoli propositi e
come un compito comune che non può essere assolto da una massa di propositi
individuali, cosicché mettere una maschera pubblica è un atto di coinvolgimen-
to e partecipazione anziché di disimpegno, di occultamento del vero io.
«Le città odierne presentano svariati luoghi definiti come “spazi pubblici”
che possono rientrare in due ampie categorie. Entrambe si discostano però dal
modello ideale di spazio civile per due caratteristiche opposte ma complemen-
tari»
13
.
12
R. Sennett, La caduta dell’ uomo pubblico. Sulla psicologia sociale del capitalismo, Mondadori, Mi-
lano, 2006.
13
Z. Bauman, Modernità liquida, cit., p. 105.
17
La prima di queste due categorie si rifà a quegli spazi urbani molto ampi che
però non generano nessun tipo di volontà di fermarcisi. Bauman porta qui
l’esempio di un luogo chiamato La Défense, un enorme piazzale che si estende
sulla riva destra della Senna. Ciò che colpisce l’osservatore da subito è
l’inospitalità del luogo: tutto quanto la vista può abbracciare appare sorpren-
dente, ma scoraggia dal rimanerci. Gli edifici che circondano il piazzale sono
imperiosi e impervi; imperiosi proprio perché impervi, due qualità complemen-
tari che si rafforzano a vicenda. Niente mitiga, né tanto meno spezza,
l’uniforme e monotona vuotezza della piazza.
La seconda categoria di spazio pubblico ma non civile mira a servire i con-
sumatori, o piuttosto a trasformare il residente urbano in consumatore. Tali
spazi stimolano l’azione, ma non l’inter-azione. Condividere lo spazio fisico
con altri impegnati in attività simili accresce la rilevanza di tale attività, gli
conferisce l’approvazione in forza del numero e così ne corrobora il senso, lo
giustifica senza bisogno di parlare. «L’obiettivo è il consumo, e il consumo è
un passatempo letteralmente e irreversibilmente individuale»
14
. Le masse che
riempiono i «templi del consumo» di Gorge Ritzer sono masse, non congrega-
zione, mucchi non squadre, aggregati non totalità. Il tempio del consumo è un
pezzo di spazio galleggiante, un luogo senza luogo, che esiste di per sé, che è
racchiuso e al contempo consegnato all’infinità del mare. L’isolato luogo senza
luogo, diversamente da tutti i luoghi occupati o attraversati quotidianamente, è
anche uno spazio purificato. «I luoghi si shopping/consumo offrono ciò che
nessuna realtà reale esterna può dare: un equilibrio pressoché perfetto tra liber-
tà e sicurezza»
15
. All’interno dei loro templi gli acquirenti/consumatori posso-
no trovare ciò che cercavano all’esterno: il confortevole sentimento di apparte-
nenza, la rassicurante impressione di fare parte di una comunità. Ma l’idea di
comunità che qui si richiama si rifà ad una comunità come scorciatoia per
l’aggregazione, e per un tipo di aggregazione che non si verifica quasi mai nel-
la vita reale; un’aggregazione fatta di pura e semplice uguaglianza, del tipo, noi
14
Z. Bauman, Modernità liquida, cit., p. 107.
15
Z. Bauman, Modernità liquida, cit., p. 109.
18
che siamo tutti uguali, un’aggregazione che non è un obiettivo da raggiungere
ma qualcosa che è dato. «L’immagine di comunità è così purificata da tutto ciò
che potrebbe far nascere un sentimento di differenza, e tanto meno di conflit-
tualità. In tal modo il mito della solidarietà comunitaria è un rituale di purifica-
zione»
16
. Il trucco, tuttavia, sta nel fatto che il sentimento di un’identità comu-
ne è una mistificazione dell’esperienza. Dentro il tempio l’immagine diventa
realtà. Le folle che riempiono i corridoi dei centri commerciali si avvicinano
come nessun altro all’ideale di comunità che non conosce alcuna differenza.
«Essere dentro» costituisce una vera comunità di fedeli, uniti sia dai mezzi che
dai fini, dai valori in cui si crede e dalla conseguente logica comportamentale.
Alle due categorie di spazi pubblici ma non civili ne va aggiunta poi una
terza che vede la sua concettualizzazione in Marc Augé: i non luoghi
17
. I non
luoghi sono uno spazio privo di espressioni simboliche di identità, relazioni e
storia (esempi: aeroporti, anonime stanze di albergo). Qualunque attività debba
essere e venga espletata nei non luoghi, chiunque si trovi lì deve sentirsi come
a casa propria, ma nessuno deve comportarsi come a casa propria.
L’elemento distintivo dei luoghi pubblici ma non civili è l’irrilevanza
dell’interazione. Se evitare gli estranei non è possibile, si può quanto meno
tentare di evitare di intrattenervi rapporti. Tuttavia quanto più è possente la
spinta all’omogeneità e i tentativi di eliminare la differenza, tanto più difficile è
sentirsi a casa in presenza di estranei; quanto più minacciosa appare tale diffe-
renza, tanto più profonda e intensa è l’ansia che produce. Diventa sempre più
facile associare la vista degli estranei alle diffuse paure dell’insicurezza.
«Con l’arte della negoziazione degli interessi comuni e di un destino
condiviso ormai in disuso; con l’idea di bene comune guardata con sospetto,
ritenuta minacciosa, nebulosa o bizzarra, la ricerca di una sicurezza in
un’identità comune anziché in un accordo su comuni interessi diventa il modo
più sensato, per non dire più efficace e redditizio, di procedere; ma i timori
legati alla
16
R. Sennett, Usi del disordine. Identità personale e vita nella metropoli, Costa & Nolan, Genova, 1999.
17
Nella definizione di non-luoghi si veda M. Augé, NonLuoghi. Introduzione a un’antropologia della
surmodernità, Eleuthera, Milano, 1993.
19
identità e alla sua difesa dalla contaminazione rendono l’idea di interessi co-
muni, e in particolare di interessi comuni negoziati, ancor più inverosimile e
fantasiosa, e la capacità e volontà di perseguirli meno probabile»
18
. Il venir
meno dell’ideale di un destino comune ha rafforzato il fascino della cultura in-
tesa però come etnicità che è, a sua volta, un modo legittimo di scavarsi una
nicchia all’interno della società. Questo significa soprattutto operare una sepa-
razione territoriale, il diritto ad uno spazio difendibile, quindi circondato da
guardie armate che fanno entrare solo persone della stessa identità e vietano
l’accesso a tutti gli altri
19
. Allora, come afferma Sennett, «preservare la comu-
nità diventa un fine in sé; l’espulsione di quanti non vi appartengono diventa
competenza della comunità»
20
. Tale mondo comunitario è completo nella mi-
sura in cui tutto il resto è irrilevante, o più esattamente ostile. L’armonia inter-
na del mondo comunitario brilla e risplende rispetto all’oscura e intricata giun-
gla che inizia appena al di là del cancello. È lì, in quella giungla selvaggia, che
tutte le persone accalcate al calduccio dell’identità comune scaricano (o spera-
no di eliminare) le paure che le hanno spinte a cercare un riparo comunitario.
Una comunità inclusiva sarebbe una contraddizione in termini. La comunità del
vangelo comunitario è o una comunità etnica o una comunità immaginata sul
modello etnico in cui noi significa come noi; loro significa diversi da noi. Non
che noi siamo identici in tutto e per tutto; esistono anche delle differenze, che
vengono tuttavia minimizzate e neutralizzate dalle similitudini. Allo stesso
modo, loro non differiscono da noi in tutto e per tutto, ma si differenziano per
un aspetto che è più importante di altri. Si noti che la questione di quale delle
differenze sia quella cruciale è minore e soprattutto secondaria, quasi sempre
una riflessione a posteriori più che il punto di partenza di una tesi. La visione
di una comunità è così quella di un’isola d’intima e confortevole tranquillità in
un mare di turbolenza.
18
Z. Bauman, Modernità liquida, cit., pp. 118-119.
19
A tal proposito risulta emblematica l’esperienza dei CID americano per cui rimandiamo a F. Mantova-
ni, La città immateriale. Tra periurbano, città diffusa e sprawl: il caso Dreamville, FrancoAngeli, Mila-
no, 2005.
20
R. Sennett, La caduta dell’ uomo pubblico. Sulla psicologia sociale del capitalismo, cit.