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INTRODUZIONE
“Definirò normali noi e quelli che non si discostano per qualche caratteristica
negativa dai comportamenti che, nel caso specifico, ci aspettiamo da loro (…)
Per definizione, crediamo naturalmente che la persona con uno stigma non sia
proprio umana (…) Mettiamo in piedi una teoria dello stigma, una ideologia atta
a spiegare la sua inferiorità”
(Goffman E., 2003, p. 15)
L'adolescenza si colloca oggi in un contesto di profonde mutazioni sociali e culturali
che hanno determinato il prolungamento dei processi di transizione verso l'acquisizione di
ruoli adulti, la scomparsa dei cosiddetti “riti di passaggio” e la nascita di nuove forme di
famiglia. L'obiettivo di questo studio è quello di indagare, alla luce di questi cambiamenti,
come avviene la costruzione di un'identità adulta nel caso di un adolescente con ritardo
mentale. Per fare ciò andrò a esaminare i fattori che determinano lo sviluppo ottimale di
ogni individuo e che nel caso di una persona con ritardo mentale, contribuiscono a
determinare la sua disabilità.
Come proposto dal modello sociale di Michael Oliver (1990), la disabilità è il
prodotto dell'interazione tra l'individuo e la società in cui è inserito. Non è la presenza del
deficit o di una limitazione che crea la disabilità ma l'esistenza di barriere culturali e fisiche
che impediscono la partecipazione dell'individuo alla vita sociale. Le rappresentazioni
negative, legate al tema della disabilità, e una scarsa informazione rispetto a questo
argomento, favoriscono la nascita di atteggiamenti discriminatori e di fenomeni di
emarginazione sociale. Vedremo come la necessità di conformarsi alla normalità ha da
sempre spinto l'uomo ad adeguarsi ai vari modelli che la società ha proposto o “imposto”,
senza lasciare alcuno spazio a ogni forma di diversità fisica e mentale.
Nel primo capitolo viene presentata una rassegna storica delle principali
rappresentazioni sociali legate al tema della disabilità. Vedremo come nel corso della storia
l'uomo, ossessionato dalla ricerca della normalità e della perfezione, ha cercato di
adeguarsi tenacemente ai canoni proposti dalla cultura dominante, respingendo le categorie
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di mostruosità e di diversità. Il concetto di disabilità deve tener conto di questo bagaglio di
immagini che ha plasmato, nel bene e nel male, la cultura contemporanea, dando vita a
stereotipi e stigmi che ancora oggi condizionano, a volte in maniera inconsapevole, le
nostre interazioni sociali.
Nel secondo capitolo vengono analizzati i principali cambiamenti fisici e psicologici
che avvengono in adolescenza. Ho preso in considerazione quegli aspetti dello sviluppo
cognitivo e intrapsichico che possono essere facilmente applicati anche nel caso di un
adolescente con ritardo mentale. Consapevole del fatto che il contesto sociale e culturale
dell'epoca in cui viviamo presenta differenze sostanziali rispetto a quello degli autori presi
in considerazione, andrò a esporre i principali cambiamenti che hanno determinato la
nascita di nuove organizzazioni familiari e la scomparsa dei cosiddetti “riti di passaggio”
all'età adulta. Entrambi questi fattori risultano essere determinanti nella costruzione di
nuove forme di adolescenza, che potremmo definire “interminabili”.
Nel terzo capitolo ho preso in considerazione il tema dell'adolescenza nel caso
specifico della disabilità mentale, andando così a circoscrivere il focus della mia ricerca.
Ho ritenuto opportuno prendere in considerazione tutti quei fattori, definiti ne La
Classificazione Internazionale del funzionamento, disabilità e salute, ICF (OMS, 2001),
come “fattori ambientali”, che contribuiscono al funzionamento ottimale della persona.
Partendo dalla diagnosi di Ritardo Mentale secondo i principali sistemi di classificazione
attualmente in uso, ho esaminato i gruppi sociali più importanti nella vita di un adolescente
disabile: la famiglia e la scuola. Quest'ultima rappresenta una sorta di ancoraggio
dell'adolescente con disabilità al mondo dei normodotati, così che, quando la scuola giunge
al termine, il giovane risulta spesso confuso e disorientato rispetto alla strada da
intraprendere. Il “passaggio” evolutivo che prenderò in considerazione nello svolgimento
della mia indagine empirica (descritta nel capitolo successivo) è quello che va dal termine
della scuola media superiore all'inizio di qualche attività post-scolastica, con l'obiettivo di
determinare se quest'esperienza aiuta il giovane nella costruzione (seppur rallentata e
graduale) di un'identità adulta.
Nel quarto capitolo verranno descritti gli obiettivi e la scelta del campione della mia
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ricerca. Verrà inizialmente spiegato il motivo della scelta di un approccio qualitativo di
ricerca, delle tecniche utilizzate e della scelta di studio su un caso singolo. L'osservazione
partecipante è la tecnica maggiormente utilizzata, che mi ha permesso di osservare il
comportamento verbale e non verbale del soggetto. Le conversazioni e i comportamenti
sono stati trascritti (riportati in versione integrale in appendice) per poi essere rivisti e
analizzati nella discussione finale dei risultati. La suddivisione del materiale in categorie
mi ha permesso di analizzare i principali risultati emersi e discuterli alla luce della
letteratura presa come riferimento nei capitoli precedenti.
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CAPITOLO 1
LE RAPPRESENTAZIONI SOCIALI DELLA DISABILITA' NELLA
STORIA
Folli, idioti, subnormali, handicappati, disabili o diversamente abili, queste alcune
delle “etichette” utilizzate per indicare tutti quegli individui che manifestano deficit fisici
e/o mentali: “Esseri mostruosi, animali e umani, (che) da sempre sono stati fonte di paura,
di disgusto, di ribrezzo ma anche, e allo stesso tempo, di fascinazione, di curiosità, (e) di
attrazione” (Milanaccio, 2009, p.323).
Nel corso della storia questo duplice atteggiamento si è concretizzato in pratiche di
esclusione sociale, istituzionalizzazione forzata e soppressione delle persone disabili;
pratiche accompagnate da una costante attenzione al tema della disabilità, attraverso
leggende, racconti, ma anche studi e ricerche volte a definire un confine stabile tra la
normalità e l'anomalia, con l'obiettivo di dare un nome e un volto ben preciso a ogni forma
di diversità.
“Le cosmogonie, le mitologie e la storia sono piene di storpi, di gobbi, di ciechi, di
zoppi, di nani e di altri deformi perseguitati, uccisi, sacrificati, cioè resi sacri dal sacrificio”
(Ibidem, 2009, p.160).
La deformità ha da sempre suscitato nell'uomo un'avversione violenta. Il deforme
mobilita nel “normale” dinamiche psichiche profonde segnate dalla paura e dall'angoscia di
poter assomigliare o diventare anche solo per un istante come lui (Ibidem, 2009).
Non è facile tracciare la storia dei disabili fisici e mentali. Questi rappresentano una
categoria di soggetti rimasta spesso ai margini della società o da essa del tutto esclusa. È
stato lo sguardo degli altri a scriverne la storia, siano essi medici, psichiatri, infermieri o
educatori (Canevaro, Goussot, 2000). Questo sguardo rivolto al disabile fornisce una
possibile chiave di lettura dell'evoluzione del concetto di disabilità nella storia e delle sue
rappresentazioni sociali.
Prenderò in considerazione il concetto di “rappresentazioni sociali”, legato al tema
della disabilità, per il loro carattere convenzionalizzante e prescrittivo. Le rappresentazioni
convenzionalizzano le persone e gli oggetti, fornendo loro una forma ben precisa,
assegnandoli a una categoria e a un modello condiviso da un gruppo di persone. La
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rappresentazione sociale di un dato oggetto andrà a condizionare i nostri pensieri e
atteggiamenti in maniera del tutto inconsapevole (Moscovici S., 1989).
“Tanto più la sua origine è stata dimenticata, e la sua natura convenzionale
ignorata, tanto più essa si è fossilizzata: ciò di cui essa è l'ideale gradualmente si
materializza, cessa di essere effimero, mutevole e mortale per diventare invece
durevole, permanente e immortale”
(Ibidem, 1989, p. 34)
Secondo Moscovici (1989) il gruppo e gli individui sono in rapporto di
interdipendenza e contribuiscono alla co-costruzione delle rappresentazioni sulla propria
realtà.
Le rappresentazioni sociali che ci vengono trasmesse, essendo il prodotto di una
sequenza di cambiamenti e di elaborazioni che si evolvono nel corso del tempo,
costituiscono il risultato ottenuto nel corso di parecchie generazioni. Queste derivano così
“dalla realtà di oggi attraverso quella di ieri e dalla continuità che questa presuppone”
(Ibidem, 1989, p. 31).
Diversi autori come William James (1890), George Herbert Mead (1934) e Charles
Horton Cooley (1908), sostengono che i processi di costruzione e di definizione del “Sé”
siano largamente influenzate dalla realtà sociale all'interno della quale l'individuo è
inserito. Le interazioni tra gli individui sono il risultato di un processo di costruzione
sociale, attraverso le quali l'individuo conosce il proprio Sé e definisce la propria identità.
Dai primi anni del '900 si va gradualmente delineando la concezione secondo la
quale l’identità è il risultato di un processo di negoziazione sociale, costituita da ruoli
flessibili, che variano a secondo delle interazioni nelle quali l'individuo è coinvolto.
Il tentativo di questa prima parte del mio lavoro è quello di ripercorrere le tappe
salienti della storia della disabilità e delle sue rappresentazioni sociali più diffuse, partendo
dalle pratiche barbare dell'antichità e individuando i cambiamenti più importanti in materia
di integrazione e di presa in carico delle persone con disabilità. L'obiettivo di questa
rielaborazione storica è quello di individuare la realtà sociale, della nostra società
occidentale contemporanea, all'interno della quale la persona con disabilità è inserita.
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1.1 L'ATTENZIONE RIVOLTA AL DISABILE NELL'ANTICO EGITTO
L'interesse per la disabilità viene documentato per la prima volta nell'antico Egitto.
Un papiro egizio risalente al 1550 a.C., il Papiro Ebers, basato sugli scritti del fisico
Imhotep, contiene una raccolta di antiche ricette mediche e formule magiche che venivano
usate per la cura di molte malattie (Winzer, 1993).
Il Papiro Ebers fornisce la dimostrazione dell'esistenza di una vasta cultura medica
nell'antico Egitto; oltre alle malattie cardiovascolari, all'interno del papiro vengono trattati i
disturbi mentali come la depressione e la demenza, e alcune “anomalie” che riguardavano
il corpo, come il nanismo, deformazioni ossee, nonché le numerose conseguenze fisiche e
invalidanti della poliomelite (Halioua, 2005).
“I nani acondroplastici, o nemu, erano incaricati di svolgere lavori ben specifici,
come la custodia e la manutenzione dei guardaroba dei loro signori e i lavori di
oreficeria […] Ben integrati nella società egizia, essi occupavano a volte
posizioni invidiabili, come quella di Seneb, un sacerdote funerario della tomba di
un grande signore della V dinastia”
(Ibidem, 2005, p. 154)
Una delle condizioni cliniche più frequenti nell'antico Egitto era la cecità e i primi
manoscritti riportano la descrizione medica di alcuni disturbi visivi fornendo utili
prescrizioni per la sua cura. Gli egizi erano interessati non solo allo studio delle cause e
della cura della disabilità, ma anche al benessere personale degli individui disabili. É
documentata la loro partecipazione nella vita sociale e religiosa, come parte integrante
della società: ad esempio gran parte dei poeti e dei musicisti dell'antico Egitto erano non
vedenti (Winzer, 1993).
La Stele di Rem (Glypoteck, Copenaghen) ci offre una delle “prime rappresentazioni
grafiche della persona disabile” (Pesci G., Pesci S., 2005, p. 13).
In questa stele egizia viene raffigurato un servo il cui corpo mostra i segni evidenti
della poliomelite che lo ha colpito. Il servo affetto da questa malattia invalidante viene
raffigurato in un corteo funebre mentre porta ornamenti, cibi e vestiti alla corte del faraone.
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L'altezza del personaggio dimostra, inoltre, la sua integrazione sociale, in quanto le
proporzioni delle figure egizie, nelle rappresentazioni grafiche, corrispondono al peso
sociale delle persone che vengono raffigurate (Ibidem, 2005).
1. 2 LA PRA TICA DELL'INF ANTICIDIO NELL' ANTICO MONDO OCCIDENT ALE
Cercando di circoscrivere il tema della disabilità nella cultura occidentale, esso
appare in maniera evidente nella civiltà greca e latina con la tristemente famosa pratica
dell'infanticidio.
Nella civiltà greca, così come in quella romana, l'immagine sociale del disabile
veniva equiparata a un “errore della natura” (Lepri, 2011). Sia i Greci che i Romani
condividevano l'idea che uno Stato vitale si basasse sulla forza fisica dei suoi cittadini,
giustificando così una serie di leggi volte a eliminare coloro che non potevano contribuire
al mantenimento di uno Stato solido (Winzer, 1993).
I valori dominanti dell'epoca classica rispecchiavano l'ideale kalos kai agathos (bello
e buono); come narrato nella tragedia di Sofocle, “Filottete”; forza e bellezza venivano
considerati ideali da raggiungere, mentre bruttezza e malattia non venivano tollerate perché
associate alla colpa e alla volontà divina. Una posizione, questa, in contrasto con la
possibilità di accettare la disabilità fisica e psichica. Qualsiasi imperfezione fisica veniva
così accostata al male e interpretata in chiave morale e/o religiosa come punizione e
castigo (Ferrucci, 2004).
Il filosofo greco Aristotele, a sua volta, sosteneva la necessità di una legge che
impedisse ai bimbi deformi di sopravvivere perché inutili allo Stato:
“Quanto all'esposizione e all'allevamento dei piccoli nati sia legge di non
allevare nessun bimbo deforme […]”
(Aristotele, Politica, VII, 16, 1336b)
Ancora prima di Aristotele, il suo maestro Platone affermava che il compito della
giustizia e della medicina era quello di curare i cittadini sani nel corpo e nello spirito: