Capitolo Primo
L’ADOLESCENZA
1. Adolescenza e pubertà nella ragazza
Il termine “adolescenza” deriva dal verbo latino adolescere che significa crescere,
svilupparsi e rinvigorirsi.
Si è soliti distinguere l’adolescenza dalla pubertà, distinzione che permette di porre
l’attenzione nel primo caso prevalentemente sui processi psicologici ed evolutivi che
si sviluppano e fioriscono nel periodo che va dalla fine della latenza, verso gli 11 - 12
anni, e che si protrae fino all’età adulta, mentre nel secondo caso il termine pubertà si
riferisce più specificatamente allo sviluppo fisico: iniziano a svilupparsi i caratteri
sessuali secondari e, nella ragazza, compare il menarca e la regolazione progressiva
dei cicli di ovulazione.
Lentamente il corpo comincia ad assumere i caratteri sessuali tipici dell’adulto e, allo
stesso tempo, ci si dirige verso l’acquisizione definitiva della propria identità sessuale
e personale.
Sulla base di una rassegna sul tema dell’adolescenza che ho effettuato con particolare
riguardo ai contributi di orientamento psicoanalitico, si evince quanto segue.
Un nuovo stato di eccitazione interna accompagna il giovane nel suo sviluppo: i punti
cruciali di tale processo risultano essere un dirompente risveglio delle problematiche
edipiche unito ad una forte pressione istintuale.
Il superamento di questa sgradevole situazione procede attraverso l’acquisizione di
una percezione di sé definita, ma i mutamenti fisici si possono rivelare destabilizzanti
e gli sconvolgimenti emotivi altrettanto pericolosi. E’ noto infatti che il corpo, così
come viene vissuto, non coincide con la sua immagine reale e a livello fantasmatico
“si modifica lentamente più in base ai desideri e conflitti personali che in base ai
cambiamenti apportati dallo sviluppo e dalla evoluzione della rappresentazione
sociale del corpo reale” (Nenci A. M., Di Prospero B., 1987) e tale scarto assume
caratteri di crisi o conflitto in periodi di transizione come l’adolescenza.
Il Sé che si era sviluppato sulla base delle identificazioni preedipiche ed edipiche
viene rimesso in discussione; il corpo sta maturando e l’adolescente deve arrivare ad
integrare la percezione di un corpo sessuato maturo con un’identità propria,
distaccandosi sempre di più dai genitori edipici.
L’adolescente si difende dall’amore incestuoso che si è risvegliato, spostando gli
investimenti libidici all’esterno con il conseguente reperimento di nuovi oggetti
d’amore: gli oggetti esterni facilitano il giovane in questo processo assumendo il
ruolo di organizzatori del suo mondo interiore con relativa rassicurazione narcisistica
(Kaplan L. J., 1989). Il desiderio sessuale si trasferisce così su oggetti al di fuori della
famiglia, anche se la scelta del partner può essere comunque orientata verso un
compagno/a perfettamente somigliante al modello genitoriale.
I legami infantili devono dunque essere abbandonati: si abbandona la fantasia
infantile di onnipotenza così come si rinuncia alla relazione incestuosa con i genitori
edipici.
Il ragazzo e la ragazza subiscono una perdita nel momento in cui la libido che era
legata ai genitori deve essere rivissuta e reinterpretata e, in tal caso, il modello a cui si
fa riferimento è quello del lutto per la morte di una persona amata: da qui la
locuzione di “lutto per la perdita dei genitori edipici”.
“Eliminare i genitori”, come dice Kaplan (Kaplan L. J., 1989), diventa un’esigenza
che si può attuare in vari modi: sposando valori opposti a quelli rappresentati dalla
famiglia, ribaltando i desideri d’amore e la dipendenza infantile in odio, disprezzo e
ribellione oppure, secondo modalità patologiche, cedendo al rischio di regressioni
come la fuga reale o virtuale o l’agito.
L’adolescente sembra particolarmente predisposto ad utilizzare il suo corpo come
mezzo di espressione e comunicazione, ma quando l’angoscia risvegliata è
insostenibile, le strategie attuate si rivelano spesso traumatiche e con conseguenze
patologiche.
Kaplan precisa anche che non si tratta dell’elaborazione di un vero lutto, ma nel
momento in cui l’adolescente rinuncia gradualmente al passato, è come se acquisisse
la capacità di portare un lutto.
Parallelamente, il corpo dell’adolescente è ormai separato da quello dei genitori e
l’integrazione del nuovo corpo passa attraverso le sensazioni: è a questo punto che
“interviene la masturbazione come procedimento destinato a padroneggiare
l’esperienza corporea” (Ladame F., 1989).
Laufer (Laufer M., 1986) più di tutti, pone l’attenzione sull’importanza che ha
l’inclusione dei genitali funzionanti nella rappresentazione dell’immagine corporea: il
processo viene definito possesso del corpo che non è altro che il raggiungimento di
un’identità sessuale irreversibile, consolidatasi sulla base di un’integrazione dei
desideri sessuali e delle identificazioni edipiche. L’adolescente perviene ad una
percezione del suo corpo come proprio e non più come un’estensione di quello del
genitore.
Veniamo ora al caso particolare della ragazza.
Come la madre vede nella figlia femmina l’immagine speculare di sé così la bambina
comincia a sperimentare l’identità della madre come “non diversa” dalla sua e a
viversi come “una donna in divenire” dato che, come sostiene Crépault ( cit. in
Oliverio Ferraris A., 1993) “la somiglianza con la madre è soprattutto proiettata nel
futuro”.
La naturalezza e la continuità con cui il femminile emerge spontaneamente durante lo
sviluppo della bambina è sostenuta anche da Neumann e da Perchovich (cit. entrambi
nel medesimo contributo di Oliverio Ferraris A.), l’uno affermando che la bambina
sperimenta la madre come un “tu proprio e non diverso”, l’altra ricordando che “la
femmina si separa come individuo pur permanendo nell’identità di sesso con la
madre”.
E’ poi fondamentale come procede l’acquisizione della propria identità sessuale
femminile, il cui punto di riferimento è la madre; solo cioè, entrando in intima
connessione con la propria natura femminile e appropriandosi definitivamente del
proprio corpo, del proprio spazio e delle proprie potenzialità, la figlia può proseguire
il cammino per diventare anche donna.
Da figlia a donna ed eventualmente a madre, l’identità si raggiunge separandosi per
sempre dal primo oggetto d’amore, disidentificandosi dalla madre pur riconoscendosi
identiche nel corpo; è durante l’adolescenza che la ragazza taglia il legame con il
passato, diventa adulta e autonoma e, pur mantenendo in sé la condizione di figlia, si
appresta ad avvicinarsi a quella di madre.
La figlia si muove alla ricerca della giusta vicinanza e distanza necessarie dalla
madre, poiché la vicinanza permette di sentirsi simile in quanto essere femminile e la
distanza garantisce “la separatezza che l’uguaglianza dei corpi vorrebbe annullare”
(Maiello Hunziker S., 1983).
Alla base della serenità con cui si abbandona uno stadio per passare al successivo c’è
sempre un processo di separazione dalla madre graduale e ben tollerato da entrambe.
A tale proposito, Oliverio Ferraris ha proposto un’interpretazione del mito del
rapimento di Persefone che va al di là della nota metafora del volgere delle stagioni:
il mito sarebbe anche una metafora delle problematiche psicologiche di madre e figlia
al momento del loro “distacco”.
Da un lato emerge un legame tanto forte da mettere in discussione addirittura
l’intervento di Zeus, dall’altro viene sottolineato come la figlia raggiunga
l’indipendenza solo distaccandosi dalla madre e ricercando altri legami al di fuori del
loro rapporto. Affinché il distacco avvenga però, c’è bisogno sia dell’intervento di un
terzo, cioè il padre che è rappresentato da Zeus, sia della complicità di un’altra donna,
Gea, che Oliverio Ferraris interpreta come l’altra faccia della madre, quella che
autorizza il distacco e accetta la crescita della figlia. Gea rappresenta dunque una
figura molto importante: senza il suo intervento la relazione madre - figlia rischia di
diventare esclusiva e fagocitante.
La separazione è necessaria ed è proprio durante l’adolescenza, in funzione del
passato rapporto pregenitale con la madre, che si riproporrà il problema della
separazione; a volte però, capita che la madre non accetti l’allontanarsi della figlia, a
volte che la figlia ricerchi per tutta la vita un legame con la madre.
Si è detto che per definizione l’adolescenza è solitamente distinta dalla pubertà:
entrambi questi elementi però, si compenetrano riattivando prepotentemente vissuti di
incertezza, ambivalenza e angoscia relativi al proprio spazio interiore che proprio in
questo periodo va a configurarsi come “cavità originaria” nel senso di luogo centrale
della femminilità (Ferraro F., Nunziante Cesaro A., 1985).
Ammann-Gainotti ha condotto una ricerca (Ammann-Gainotti M., 1990) con 30
soggetti non clinici, cioè ragazze di età compresa tra i 14 e i 16 anni, tutte mestruate,
che hanno risposto per iscritto ad una serie di domande riguardanti le “loro
rappresentazioni corporee e sessuali ed i vissuti emotivi connessi con la funzionalità
corporea e sessuale nell’adolescenza”. I risultati mostrano che la metà delle risposte
appartiene a ragazze che hanno una visione positiva della propria femminilità, mentre
l’altra metà esprime sentimenti negativi, di vergogna, di dolore e inoltre, la presenza
di non risposte suggerisce all’autore che le domande abbiano provocato disagio e
imbarazzo. Le risposte di questo tipo, tuttavia, decrescono con l’aumentare dell’età, a
conferma del fatto che l’adolescenza è un periodo di crisi transitorio.
Negli ultimi anni si è osservato come il processo di acquisizione dell’identità
femminile sia legato anche alle variazioni della percezione dell’interno del proprio
corpo. Se spesso l’essere veramente donna è stato associato al ventre pieno della
maturità, grazie a contributi come quelli di Kestenberg ad esempio, o, più
recentemente, di Ferraro e Nunziante Cesaro (per citarne solo alcuni), si è sviluppata
una prospettiva che, a partire da Melanie Klein, vede già nell’anatomia della bambina
un punto cruciale su cui si basa lo sviluppo psicosessuale femminile.
La bambina non è più vista come il risultato del paragone con la linea di sviluppo del
maschio, ma raggiunge una sua autonomia e peculiarità: i concetti di “pieno” e di
“vuoto” legati a quello di “identità” di Gaddini, si vanno a collegare con quelli di
“spazio interiore” e “spazio cavo” tipici del femminile. Il corpo cavo (Ferraro F.,
Nunziante Cesaro A.,1985), con le sue specifiche funzioni, diventa allora, sia su un
piano astratto che su un piano fisico, il luogo dell’identità della donna; “uno spazio
aperto alla creatività “ che è anche una metafora che allude “alla creatività psichica in
termini generali” (Galdo A., nell’introduzione di Ferraro F. e Nunziante Cesaro A.,
1985).
1.1 Concetto di spazio interiore e di spazio cavo
Durante la pubertà la ragazza assume una nuova consapevolezza relativa ai suoi
“genitali interni” (Kestenberg J. S., 1969), e il suo spazio interiore cavo e ricettivo
inizia a definirsi in relazione agli eventi, alle scadenze e alle potenzialità biologiche
che esso possiede.
Sebbene sia ormai stato dimostrato che la bambina ha una percezione vaginale
precoce anche se inconscia, è solo durante una fase di transizione quale è
l’adolescenza che si concretizza la conoscenza dell’interno del proprio corpo, luogo
da sempre misconosciuto anche a causa della rosa di fantasmi che lo circonda.
Nenci e Di Prospero precisano che lo spazio genitale può essere appreso in una
cultura e in un rapporto con i genitori “in cui si possono condividere funzioni ed
emozioni dello spazio interiore” (Nenci A. M., Di Prospero B., 1987) altrimenti la
bambina rimarrà ancorata alle fantasie di un inquietante “buco nero”.
La rappresentazione dello spazio genitale interiore subisce una serie di cambiamenti;
questi sono in relazione alle concomitanti vicissitudini delle relazioni oggettuali che
la bambina vive all’interno della famiglia durante le varie fasi del suo sviluppo.
Complice di tale difficoltà a rappresentarsi un’immagine del proprio corpo completa
anche dello spazio interno, è l’impedimento fisico di non poterlo esplorare attraverso
l’esperienza diretta (Fabbrini, Meucci in Nenci A. M., Di Prospero B., 1987) come
accade invece ai bambini maschi; questo naturalmente, alimenta l’alone di mistero
che lo contraddistingue, e consente lo svilupparsi delle fantasie ad esso associate.
Il “sentire” fisico dell’interno che esperisce la ragazza pubere, porta verso il termine
di questo lungo processo di conoscenza del proprio corpo e, di conseguenza, della
propria femminilità.
Ma torniamo per un momento alle prime vicissitudini di tale spazio interno.
La ragione dell’associazione del concetto di spazio interno con quello di spazio cavo
è da ricondurre alle prime esperienze del neonato (esplicitate da Gaddini R., 1978): in
un momento di indifferenziazione tra il me e il non-me, il bambino si trova in uno
stato di attesa di soddisfacimento dei suoi bisogni.
Tra le necessità primarie di un neonato vi è naturalmente l’essere alimentato,
necessità che il bambino sperimenta come un senso di vuoto fisico. Il sentirsi vuoto
presuppone che esista uno spazio che possa essere riempito. Tale compito viene
assolto dalla “madre sufficientemente buona” di Winnicott, la quale, entrando in
relazione empatica con il suo bambino, saprà quando soddisfare le sue esigenze. A
questo punto ciò che il bambino esperisce sono sensazioni di vuoto e di pieno, ma
anche di duro o di morbido in relazione all’essere contenuti o penetrati.
Il corpo del neonato è paragonabile ad un luogo in cui transitano gli oggetti e le
relazioni ad essi legati. Le peculiarità delle necessità primarie del neonato inducono
quindi a rappresentare il suo corpo come composto da uno spazio interno cavo al
quale si accede attraverso vari orifizi che non si limitano solo alla bocca, come nel
caso dell’alimentazione, ma che comprendono anche l’ano e, nella bambina, la
vagina e l’utero, con funzione di accogliere - contenere - trattenere - respingere -
creare. Gaddini (Gaddini R., 1978) definisce questa fase - in cui per il neonato si
avvicendano sensazioni di vuoto e di pieno ecc. - saturazione della valenza beante: i
termini sono rubati alla chimica in cui “valenza” significa “la capacità di un elemento
di combinarsi per dare origine ad un composto”. Tale definizione rimanda
all’immagine di una struttura aperta in attesa di essere completata, immagine che è di
nuovo evocata dal termine “beante”, dal francese “beant”, cioè vuoto, spalancato, ma
che viene anche utilizzato in locuzioni quali “a bocca aperta”.
L’esigenza di venir “riempiti” e quindi “completati”, rappresenta la “naturale
tendenza dell’individuo appena nato ad integrarsi e a ridiventare completo” (idem)
.Questa definizione però, descrive una disposizione che non si riscontra solo nel
neonato: dalla nascita in poi il processo di sviluppo e di crescita è caratterizzato da
perdite che inevitabilmente provocano senso di vuoto e di angoscia, ma a queste
seguono anche le corrispondenti situazioni in cui si ricostruisce un pieno inteso anche
come vissuto di pacificazione (Maiello Hunziker S., 1988), che va a sedare i timori
primordiali di cadere nel vuoto.
Nell’ottica di una ricerca della ricongiunzione con la parte mancante si possono
leggere anche alcuni successivi comportamenti dell’adulto, ad esempio il coito o la
gravidanza, come una ricerca attiva del completamento e della conseguente
rassicurazione narcisistica.
Come ho già accennato prima, gli organi cavi della bambina sono rappresentati da
bocca, vagina, ano e utero, tutti luogo di stimolazioni di vario genere e che, a partire
dalla progressiva separazione dalla madre, acquisiscono significati differenti secondo
le note fasi dello sviluppo psicosessuale che la bambina attraversa.
Vari autori come Fausta Ferraro e Nunziante Cesaro aiutano, attraverso il supporto di
concetti che a loro volta appartengono ad altri autori come ad esempio Winnicott e
Gaddini, a chiarire il significato che queste vicende assumono nel corso dello
sviluppo.
In primis vi è dunque la bocca che è legata alle vicende dell’alimentazione: all’inizio,
quando il vuoto viene tempestivamente riempito dalla madre con il cibo, il bambino
vive la gratificante e formativa esperienza dell’ “onnipotenza creativa”.
In seguito alle prime vicissitudini della separazione, un altro organo cavo, l’ano,
comincia ad espletare le sue funzioni di espellere e di trattenere: l’espulsione implica
la percezione di uno spazio interno collegato con l’esterno attraverso un’apertura. A
ciò si aggiunge l’angoscia di perdita del Sé legata alla fuoriuscita delle feci, che come
è noto vengono inizialmente vissute come una parte di sé. La successiva
consapevolezza di poter trattenere quello che viene introdotto nel corpo con
l’alimentazione, cioè di poter assimilare una parte del cibo, rinforza la coesione del
Sé, mitigando in parte le primarie fantasie di svuotamento senza fine e, al controllo
delle feci, corrisponde una loro rappresentazione come primo prodotto creativo. A
partire da qui poi si sviluppano fantasie di nascita secondo l’equazione feci -
bambino, fantasie distruttive ecc.
Lo spazio cavo, quindi, si scopre sin da ora dotato di un potenziale creativo che verrà
rievocato durante l’adolescenza.
In tale periodo, naturalmente, gli organi cavi vengono tutti indistintamente assimilati
ad un interno misterioso ed unificato.
Anche la vagina viene percepita, seppure in modo confuso. Infatti, al di là del
significato che il controllo degli sfinteri assume nello sviluppo psicosessuale e delle
relazioni oggettuali, Ferraro e Nunziante Cesaro (Ferraro F., Nunziante Cesaro A.,
1985) fanno notare come il trattenere e l’espellere l’orina provoca, nella bambina,
stimolazioni anche vaginali. Allo stesso modo l’eccitazione che parte dal clitoride si
diffonde verso gli organi contigui. Come accade per il vissuto dell’ano, anche la
vagina è percepita come un’apertura verso l’esterno da cui possono uscire i contenuti
interni, ma da cui possono penetrare anche i pericoli esterni (Micati L., 1988). Ma la
conoscenza di tale interno viene, come già accennato, ostacolata dalla sua
inaccessibilità.
L’acquisizione progressiva del controllo sulle funzioni corporee e la parallela
conoscenza del proprio corpo mitigano, in una situazione non patologica, le fantasie
angosciose evocate dalla relazione oggettuale in corso, e così continua ad accadere
sino all’adolescenza, cioè sino al momento in cui è fondamentale pervenire ad una
rappresentazione di sé stabile ed organizzata.
E’ anche in questo senso che il menarca giunge con la funzione di organizzatore.
1.2 Il menarca
In “Menarca” J. S. Kestenberg (Kestenberg J. S., 1969) sostiene l’ipotesi che la prima
mestruazione funge da punto di riferimento su cui la ragazza può organizzare molte
delle sue esperienze; in tal caso il menarca reca sollievo. Secondo l’autrice la
fuoriuscita del sangue e l’eventuale dolore, divengono elementi che permettono di
“definire i confini corporei” e di integrare nell’immagine corporea anche la parte
invisibile.
Il menarca inoltre, permette di differenziare la realtà dalla fantasia: la successiva
regolarità del ciclo infatti, impone delle scadenze che consentono di confrontare i
vissuti del corpo reali con la fantasia.
Gli appuntamenti mensili poi, impongono alla ragazza un’ulteriore attenzione verso il
proprio corpo: le operazioni di pulizia ad esempio, autorizzano un nuovo contatto ed
un rapporto con esso che sollecita l’instaurarsi di una certa intimità.
Secondo Chasseguet-Smirgel (cit. in Ammann-Gainotti M., Tambelli R., 1986) gli
eventi che accompagnano la mestruazione ripropongono fantasie legate al controllo
sadico-anale citate in precedenza: la tensione addominale da un lato, e la possibilità
di controllare un oggetto cioè la creatività - o la fertilità - dall'altro (così come il parto
è spesso associato all’espulsione delle feci).
Il tema della fertilità che si attiva nella pubertà è molto complesso ed è collegato ad
una serie di problematiche come ad esempio possa essere variamente percepita ed
utilizzata in situazioni patologiche, che rimandano al rapporto della bambina con la
madre e alla possibilità di identificarsi con lei; in generale è proprio con la prima
mestruazione, espressione delle potenzialità procreatrici, che la bambina dovrebbe
superare l’odio provato in passato nei confronti della madre preedipica e finalmente
identificarsi con lei in quanto donna.
Tale percorso però non è così lineare. L’impatto che la ragazza ha con questo evento
è abbastanza forte e può suscitare angoscia.
Nel corso degli anni vari autori (Klein, Deutsch, Freud, Chasseguet-Smirgel e altri)
hanno proposto la loro visione delle mestruazioni, ponendo di volta in volta l’accento
sul fatto che la vista del sangue risveglia ora l’angoscia di castrazione ora il timore di
avere un interno distrutto dalle rappresaglie della madre: Vincent (Vincent M., 1997),
ad esempio, sostiene che poiché è impossibile trattenere il sangue mestruale, dato che
non esiste uno sfintere come per l’urina e le feci, si mobilitano angosce di distruzione
che vanno a rinforzare il timore di aggressione, altri invece affermano che si può
vivere il menarca come una punizione per l’attività masturbatoria che è
accompagnata dal senso di colpa oppure può essere associata ad immagini di ferite, di
lacerazioni che a livello inconscio corrispondono ad esperienze di distacco e di
perdita.
La perdita più lacerante e più dolorosa che deve affrontare il bambino, maschio o
femmina che sia, resta sempre quella dal corpo della madre. Laufer (Laufer M., 1986)
afferma che lo sviluppo procede tramite una progressiva separazione del proprio
corpo da quello della madre e ogni fase di questo processo implica la perdita di
soddisfacimento libidico diretto ad opera della madre e la costruzione e
interiorizzazione di un’immagine corporea che alla fine include i genitali. La capacità
di affrontare tale processo senza incorrere in risvolti patologici dipende in buona
parte da come si è svolto in processo di separazione - individuazione che segue la
nascita e da cui dipende la futura percezione di un Sé coeso.
Come fanno notare Ferraro e Nunziante Cesaro ( Ferraro F., Nunziante Cesaro A.,
1985), è stato trattato con maggiore enfasi il carattere perturbante del menarca, a
discapito del suo “aspetto maturativo”. A questo è legato il riconoscimento di una
sessualità matura in cui prevalgono la consapevolezza della propria creatività e la
possibilità di vivere serenamente anche le successive esperienze del coito, della
gravidanza e della maternità (eventi che continuano peraltro, ad evocare timori
relativi al proprio corpo).
La possibilità di vivere l’inizio delle mestruazioni come un fatto positivo, di cui non
ci si deve vergognare (cioè nel suo significato di segnale di maturità), è dovuta in
gran parte all’informazione fornita alla madre e dalla sua capacità di “tramandare”
alla figlia una femminilità vissuta positivamente. Da una ricerca condotta da Dei,
Bucciantini, Rosati e Bruni (Dei M., Bucciantini S., Rosati D., Bruni V., 1985) in cui
sono state confrontate 96 coppie madre - figlia, è emerso, ad esempio, che il vissuto
negativo del menarca può essere trasmesso inconsapevolmente alla figlia.
Da un altro punto di vista anche Fornari (Fornari F. in Cerutti R., 1988) sottolinea
questo aspetto: solo svincolandosi dal desiderio di “appropriarsi confusivamente di
ciò che non si ha, per diventare ciò che non si è (cioè la madre), la ragazza si rende
conto che il suo corpo è portatore di qualcosa di prezioso”. L’esito positivo del
processo di acquisizione dell’identità è garantito dalla trasmissione di generazione in
generazione dell’immagine del corpo femminile come “contenitore di un tesoro”,
rinforzata anche dalle nozioni elargite dalla madre.
Dall’immagine imponente di un corpo materno che può contenere ogni cosa, la
ragazza passa gradualmente, superando invidia e odio verso la madre, ad
un’immagine del proprio corpo con un interno differenziato e sano, in cui gli organi
cavi cominciano a svolgere la loro funzione specifica: la vagina come fonte di
piacere, l’utero come contenitore.
Non sono gli eventi in sé però che determinano la maturità della sessualità femminile,
in altre parole, non è tramite un rapporto sessuale o una gravidanza che la ragazza
diventa finalmente donna; se infatti i vissuti che li accompagnano sono rimasti legati
a nodi non risolti durante lo sviluppo, allora il corpo potrebbe diventare il veicolo con
cui si esprime la conflittualità.