Introduzione
Il vocabolo “crisi” contiene in sé stratificazioni di concetti diversi.
Nell'immaginario collettivo significa difficoltà, paura, e tali sentimenti sono
vincolati dalle pressanti notifiche e considerazioni apportate dai mass-media. Ma
il vocabolo racchiude in sé un significato più profondo e più fiducioso: “crisi” ha
in sé l'etimologia della parola “decidere” (stessa radice di cernere o separare),
insomma: la“crisi”, da un punto di vista delle potenzialità, piuttosto che dei limiti
insiti nel consueto significato attribuitole, implica che il soggetto “attraversi un
momento particolare della propria vita con un proprio modo di essere e di porsi
nei confronti della situazione, affrontando i fenomeni con determinate
metodologie, con strumenti e mezzi invece che altri, ossia adattandosi al contesto
di riferimento nel modo più funzionale ed efficace possibile.
E l'adolescenza cosa rappresenta se non il periodo caratterizzato da
continue crisi identitarie, sociali, relazionali, periodo del cambiamento per
eccellenza, in cui unico scopo dell'agire sembra essere quello dell'ottenere
compiacimento dalle relazioni interpersonali, dagli scambi con l'altro o, al
contrario, rifugiarsi in se stessi e trovare nella vita intrapsichica una sorta di
protezione dai rischi e dai pericoli del vivere moderno?
Suona strano avere la consapevolezza che questa nostra società, pur nella
sua molteplicità di volti ed interessi sappia creare nei giovani enormi vuoti
esistenziali: la noia aleggia sui banchi di scuola, il cinema non sa sostenere più
l'enorme divario creato dai new-media e da internet e il “film della domenica” si
preferisce “scaricarlo più o meno legalmente” dai siti internet sempre più affollati,
e commentarlo sul nuovo social-network di moda.
La noia, però, si apprende: la si può ben insegnare a un adolescente
proteggendolo da tutti e da tutto (anche dalle proprie responsabilità) ovattandone
la fantasia, la necessità di avere relazioni autentiche, di avere la giusta sensazione
della gioia e della felicità, come del dolore e della sofferenza. Le aspettative
adolescenziali risultano sempre più frustrate: l'ideale che un giovane ha di sé e
della propria vita rimane rinchiuso in costrutti cognitivi e lì combatte per venire
III
Introduzione
fuori con una società adulta troppo spesso assente, sorda al richiamo di aiuto delle
giovani generazioni, testarda e rigida nei propri schemi mentali.
Ecco, allora il bisogno di essere comunque se stessi, ma altrove, poiché la
società non riesce a fornire elementi e modelli individualizzati per permettere
all'adolescente di costruire una propria identità, né tantomeno la famiglia,
detentrice esclusiva del compito educativo, sa offrire fin dalla nascita la sicurezza
di un buon futuro: le sorti sono assolutamente incerte per tutti, aspramente
compromesse da cambiamenti repentini e “aggressivi” che caratterizzano la
“società della velocità”.
Ebbene, il giovane vive di velocità! Non si insinua un “j'accuse”,che
sarebbe anche fuori luogo, nei confronti di coloro i quali non sanno godere e
approfittare degli enormi progressi manifestatisi negli ultimi 20 anni; ma è
doveroso rendersi conto che l'adolescente preferisce creare una seconda identità
(virtuale e fittizia) per realizzarsi, “chattare” ore ed ore on-line (IAD e disturbi
correlati) per trovare amici o semplicemente qualcuno con cui parlare, rintanarsi
anche per anni (hikikomori) all'interno della propria camera diventando
insensibile alla vita, piuttosto che guardare in faccia alla realtà e contrastarla per
migliorarla.
Le famiglie si allarmano, le scuole non sanno più cosa fare: solo il mercato
si interessa dell'adolescenza, portando ai giovani sempre più interessanti soluzioni
alla ricerca della felicità. La psicopatologia prende piede nelle loro teste
trasformandoli in semplici automi da combattimento, inetti, fobici, antisociali o
dalla “socialità virtuale”. Sarebbe interessante poter vedere la reazione di un
giovane se gli si comunicasse che lui è espansività, pienezza, potenza e parte di
una coralità giovanile. Il Futuro sarebbe già ben descritto nel presente giovanile:
bisognerebbe prendere realisticamente coscienza del presente, a questo punto, e
prepararsi ad affrontarne sfide, incognite promesse e realtà.
Il presente lavoro si propone di essere un contributo, seppur minimo, alla
realizzazione di tale sogno, quantomeno ci si auspica vivamente che i giovani
IV
Introduzione
comprendano le sfide presentate dalla società odierna sapendone attentamente e
coscientemente valutare opportunità, realizzabilità, concretezza e vivacità per una
sana formazione di se stessi e una sana percezione di sé all'interno del vivere
sociale.
V
CAPITOLO I
COMUNICAZIONE ED IDENTITA'
“Sono proprio così, io, di fuori, quando -vivendo- non mi penso?
Dunque per gli altri sono quell'estraneo sorpreso nello specchio:
quello, e non già io quale mi conosco:
quell'uno lì che io stesso in prima, scorgendolo, non ho riconosciuto...
...Un estraneo che possono vedere e conoscere solamente gli altri, e io no!”
(Pirandello L., Uno, nessuno e centomila)
1.1.
IL SE' E L'APPARTENENZA SOCIALE
Il sé e l'appartenenza sociale
La complessità della società attuale richiede ad ogni soggetto la capacità di
strutturare percorsi di crescita personale e professionale sempre nuovi e flessibili,
pronti ad una continua ridefinizione in funzione di trasformazioni tecniche e cul-
turali. Il concetto di identità, in questo modo, diventa sempre più articolato e com-
plesso nella sua definizione assumendo nuove connotazioni, catapultandosi in
realtà lontane dalla sfera personale, a tal punto, oggi, da individuare il sé esclusi-
vamente come prodotto di processi di natura sociale, caotica e non lineare.
Il modo in cui ciascuno considera se stesso ha conseguenze importantissime
non solo per la vita attuale ma, molto verosimilmente, per il futuro. Paradossal-
mente siamo artefici del modo in cui le persone ci percepiscono e contribuiamo,
più o meno positivamente, alla costruzione del nostro io sociale, ampliando la vi-
suale dallo schema di sé a un sé frutto di un elaborato processo sociale.
L'entità personale si presenta, così, struttura complessa, dagli elementi multi-
formi e dalle inevitabili differenziazioni che scaturiscono dai diversi tipi di analisi
che se ne fanno. Le forti pressioni sociali che circondano un individuo portano
spesso ad una accelerazione del processo di auto-identificazione: la persona si
scopre attrice di più ruoli e, allo stesso tempo, non in grado di calarsi in un'unica
realtà che ne definisca le proprie peculiarità. Ma, qualora tutto questo fosse possi-
bile, è immaginabile che l'uomo possa definire una sua “sola” vera natura? In real-
tà no.
Come si cercherà di spiegare in seguito, ogni soggetto, pur avendo definito, in
realtà apparentemente, quale sia il proprio ruolo sociale e il miglior habitat di vita,
tende a rompere gli equilibri che si creano per poter spostare il suo limite sempre
più in là, sperimentando l'altra parte di sé e ancora l'altra, nascosta ma sensibile
agli input sociali presenti e pressanti.
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Il sé e l'appartenenza sociale
1.1.1.
CONCETTO DI SE' E SENSO DI APPARTENENZA
Il sé non è un'entità fissa, ma dipendente dalle situazioni: tale dipendenza, di
conseguenza, fa sì che anche la struttura di questa entità sia complessa e non uni-
voca, implichi, cioè, la fattispecie multiforme del sé, considerandolo in ogni suo
aspetto e sfaccettatura; esisterà, in tal senso, la possibilità di indagare la fattispecie
“sé” da un punto di vista squisitamente corporeo, oppure interpersonale, colletti-
vo, o di indagarne le dinamiche da un punto di vista strettamente interiore o di in-
terazione sociale. Se, dunque, fosse posta la domanda: chi sono io (o diversamente
chi sei tu?), non ci dovremmo stupire qualora ogni nostra asserzione corrisponda
alla complessità del nostro essere [es: bianco, medico, laureato, sensibile, grasso,
magro ecc...]1.
Il sé, dunque, è diventato, soprattutto nell'era contemporanea, la dimensione
dell'uomo più studiata e ben a ragione; i corsi di psicologia delle università italia-
ne sono sempre più popolati e non pochi studenti affermano che si studia per capi-
re di più gli altri, ma anche, e perché no, per conoscere meglio se stessi, gli spazi
psicologici più nascosti del nostro essere, le dinamiche che ci spingono ad agire e
ad “essere” in un certo modo piuttosto che in un altro, a scoprire quali sono le di-
namiche che ci fanno rispondere alla società sempre in modo diverso, spesso non
riconoscendoci, tale e tante sono le soluzioni che offrono i nostri schemi mentali
agli input che sopraggiungono.
I primi studi effettuati sul sé risalgono ai pionieristici esperimenti di William
James [1890] e George Herbert Mead [1934], i quali azzardano le loro ipotesi an-
nunciando, in modi diversi, la poliedricità della struttura personale di ogni sogget-
to; James distingue due componenti del sé: l'io, soggetto consapevole, in grado di
conoscere, prendere iniziative e riflettere sul sé; il me, ossia la parte del sé cono-
sciuta dall'io (il modo in cui mi vedo). Esso include una componente materiale,
una sociale e una spirituale. L'impostazione di James, però, appare troppo rigida, e
1 Fiske Susan T., [1991], La cognizione sociale, Bologna, il Mulino, p.90.
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Il sé e l'appartenenza sociale
rischia con il tempo di fissare l'attenzione più su una mera struttura gerarchica del-
le caratteristiche dell'individuo, che sull'aspetto relazionale e sociale, studiato e
approfondito negli studi di Mead.
Pur nella sua limitatezza, però, sottovalutare James non renderebbe giustizia a
un notevole passo avanti fatto dalla psicologia sociale con questi studi: è la prima
volta, infatti, che il sé non è solo l'istanza valutante della realtà, ma a sua volta di-
venta oggetto valutato; sono le stesse persone che si pongono come parametro per
una sorta di autovalutazione, modificando il livello di autostima in base alla scala
di valori adottata dal soggetto stesso2.
Mead [1934], invece, trova la matrice fondante del sé nell'interazione sociale.
Egli afferma che il sé non esiste dalla nascita ma, affinché possa concretizzarsi,
devono essere presenti due condizioni imprescindibili: l'una, la capacità di rispon-
dere e produrre autonomamente simboli; l'altra la capacità di assumere gli atteg-
giamenti degli altri. (in seguito si avrà modo di analizzare più dettagliatamente il
perché, ciò che Mead pone come elemento indiscusso per la formazione del sé, sia
oggi l'oggetto di studio principale delle nuove problematiche derivanti dall'ecces-
siva dipendenza dalla rete e dall'incapacità del soggetto di porsi come essere a se
stante senza cadere nelle trappole della “massificazione”).
La consapevolezza di sé, dunque, deriverebbe, in tal senso, dall'identificazione
che un soggetto può mettere in atto, dal riconoscimento coi principi generali pre-
senti nell'ambiente circostante, in particolare con la capacità che si ha nell'affron-
tare due stadi successivi: il gioco semplice (play) e il gioco organizzato, stadi
evolutivi consequenziali che vedono il soggetto (in particolare Mead studia il
bambino nelle sue fasi di vita) interagire con i ruoli sociali dapprima in modo
molto semplice e sistematico (esempio: gioca a fare la mamma), successivamente
in modo sempre più complesso (game), con la capacità di assumere più ruoli con-
temporaneamente (vedi identità virtuali).
Il sé, quindi, oltrepassa ed estende il limite corporeo fino alla conoscenza dell'
2 Mannetti Lucia [2002], Psicologia sociale, Roma, Carocci editore, p.154.
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Il sé e l'appartenenza sociale
“altro da sè”, dell'entità, secondo Mead, fonte di ispirazione per la formazione di
se stessi 3: è l'idea dell'altro generalizzato [Mead 1934], una sorta di modello inte-
riorizzato che incarna gli atteggiamenti, le disposizioni comportamentali, le strut-
ture mentali della società e garantisce all'individuo l'opportunità, più o meno fatti-
va, di poter agire e modificare la società e le sue strutture più complesse.
Necessario, a questo punto, porre l'accento sulle dinamiche che concernono il
sé, sulle modalità messe in atto per interagire con la società e sui processi che por-
terebbero il sé ad identificarsi unicamente come prodotto-processo sociale.
Le persone scoprono chi sono tramite il confronto sociale. Il teorico Leon Fe-
stinger [1954], ha sostenuto che il processo di confronto sociale è indispensabile
alle persone per determinare il vero e il falso della vita sociale: come dire che un
individuo paragonando il proprio stile di vita ad un altro potrebbe determinare se
carattere, condotte di vita, gusti, costumi e stili di comportamento, corrispondano
a schemi accettabili; lo studioso è arrivato a congegnare una sorta di interpreta-
zione di ruoli sociali,4 un indossare quotidianamente delle maschere che con il
tempo diventano realtà. L'aspetto più interessante di tale studio, però, consiste più
nel porre l'accento sulle differenziazioni; anche se il concetto di maschera, a volte,
è troppo riduttivo -una maschera nasconde il volto e lo rende uguale ad un altro-
comunque si darebbe l'idea di come il fatto stesso di indossarne garantisce il vero
input che qualificherebbe il soggetto come un'entità unica e a sé stante (non è la
maschera indossata a fare la differenza, ma il modo in cui la si indossa).
Vari esperimenti in tal senso sono stati condotti in America: si è chiesto a più
persone di potersi presentare (esperimento con la domanda “chi sei?”): la mag-
gior parte di persone di colore o di ispanici ha preferito una prima descrizione di
sé attraverso il colore della pelle, contrariamente ad anglofoni che avrebbero posto
l'attenzione su aspetti meramente caratteriali e comportamentali.
Ma quale sarebbe la molla che porta il confronto sociale alla ribalta per la for-
3 Fiske S. T., [1991], op. cit., p.82.
4 Paolucci Amedeo, Il sè, pubblicato in amedeopaolucci.it, sezione pedagogia, p.5/7.
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Il sé e l'appartenenza sociale
mazione dello schema personale? La teoria del confronto sociale di Festinger
[1954] rileva che il soggetto si pone sotto lo sguardo giudicante della società per
due motivi principali: per comprendersi (quanto valgo, come posso reagire in fu-
turo ad una situazione simile?) e per auto-accrescersi.
E’ dunque facile individuare anche il tipo di personalità più predisposta al con-
fronto sociale: sono, in genere, le persone più incerte del loro modo di essere, sot-
toposto, a loro dire e in base alle osservazioni effettuate, a criteri di valutazione
poco obiettivi e, perciò, bisognoso di più punti di riferimento per il livello di auto-
stima e di auto-coscienza. In seguito Festinger dice che non è raro che le persone
restino insoddisfatte dell’idea uscita fuori dal confronto con la società; si parla in
tal caso di dissonanza cognitiva5: una sorta di discrepanza tra ciò che noi credia-
mo che la società possa rinviare come feed-back alle nostre richieste di confronto
sociale e ciò che in realtà la società rinvia, spesso un qualcosa di deludente rispet-
to alle aspettative manifestate.
Interviene, a questo punto, un sottilissimo processo di razionalizzazione che
porta le persone a giustificare asserzioni che il sé non può ritenere vere nel modo
più assoluto. Si cambiano comportamenti, solo perchè cambiare è giusto ad una
certa età!; si cambiano i modi di pensare e si ampliano le proprie cognizioni men-
tali apportando la stessa motivazione e cioè che il cambiamento non ha nulla a che
fare con ciò che “la gente dice”, piuttosto con un momentaneo/definitivo modo di
vedere le cose sotto diverse prospettive. In questo modo si può rifuggire dalla dis-
sonanza cognitiva.
Questa sorta di equilibrio instabile del sé individuale (frutto di un lungo ed in-
cisivo processo sociale) porta il soggetto a creare un sé del tutto immaginifico, un
sé ideale che, a ben guardare, assumerebbe proprio le caratteristiche da cui il sog-
getto cerca di discostarsi. E’ una sorta di paradosso e, al contempo, un rifugio in
grado di garantire alla percezione di sé un'auto-verifica costante e una spinta del
soggetto ad auto accrescersi [Swann 1990].
5 Mannetti L., [2002], op. cit., pp.76-78.
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