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Benché la riformulazione sia stata involutiva per la psicologia in generale, ha
permesso un graduale ed organico sviluppo della psicologia del traffico, che in caso
contrario si sarebbe trovata impreparata ad affrontare compiti così nuovi e vasti in
Italia.
Sebbene gli ultimi anni abbiano visto aumentare la sensibilità verso la psicologia del
traffico, i margini di sviluppo della materia sono ancora ampissimi e le sue
potenzialità, usate solo in piccola parte.
Ciò è probabilmente dovuto, alla scarsa conoscenza della materia sia da parte del
sistema traffico che della popolazione in generale.
Tuttavia l’utilità della psicologia del traffico è dimostrata sia in campo diagnostico che
applicativo e viene oggi usata in diversi settori quali: la prevenzione, la riabilitazione,
la valutazione dell’idoneità alla guida, la costruzione dei veicoli e delle infrastrutture
(ergonomia), ecc.
La diagnostica riveste, a mio parere, un’importanza particolare; riuscire ad
individuare atteggiamenti e comportamenti pericolosi nel traffico o eventuali problemi
psicomotori può essere non solo utile alla valutazione dell’idoneità alla guida, ma
anche fondamentale in chiave preventiva.
La continua ricerca di strumenti testistici sempre più affidabili è di fondamentale
importanza per individuare le fonti di pericolo ed aumentare la sicurezza.
Il lavoro che andrò tra breve a descrivere nasce da questa doppia esigenza; ovvero
la promozione della conoscenza della materia e la ricerca di nuovi strumenti atti
valutare il comportamento nel traffico.
Quest’elaborato sarà quindi strutturato secondo le suddette esigenze, offrendo
dapprima una parte descrittiva che adotterà, come esempio, le realtà dove la
psicologia del traffico si è sviluppata maggiormente (Austria, Germania),
proseguendo con la descrizione di uno strumento testistico già in uso negli Stati
Uniti: il “Dula Dangerous Driving Index” (Dula e Ballard, 2003) (DDDI), ed al suo
adattamento alla realtà italiana.
La ricerca avrà inizio con una parte introduttiva, nella quale saranno descritti i
significati dello studio della psicologia del traffico, gli ambiti di studio e le principali
teorie del comportamento.
Nel seguito della prima parte si cercherà di dare una spiegazione degli studi di
ergonomia, del driver improvement, della riabilitazione, della terapia, nonché delle
misure preventive e riabilitative.
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La seconda parte si occuperà dei requisiti psicologici dell’idoneità alla guida, degli
influssi che possono inficiarla (relativi all’uso di sostanze, all’affaticamento, ecc.),
nonché della sua valutazione.
Verranno fatti alcuni esempi di come avvenga la valutazione in altri paesi (Germania)
e verrà descritto il sistema ART 2020 per la valutazione delle funzioni cognitive e
degli aspetti di personalità.
Infine saranno descritti e considerati alcuni metodi d’analisi e valutazione della prova
di guida pratica.
La terza parte tratterà del materiale testistico da adattare alla realtà italiana (DDDI),
nel dettaglio: la sua descrizione e l’analisi dell’iter usato per la validazione del test
originale negli USA (campione, valutazione validità ed attendibilità, ecc).
La quarta ed ultima parte tratterà le modalità adoperate per le traduzione del test
originale, gli adattamenti eseguiti per renderlo compatibile con una realtà culturale
differente, il campione utilizzato, i sistemi di elaborazione dei dati dopo la
somministrazione, l’analisi dei dati.
Seguirà una parte conclusiva nella quale si esamineranno i risultati ottenuti.
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PARTE PRIMA
Introduzione
La psicologia del traffico studia il comportamento alla guida e tutti gli effetti ad esso
collegati.
La guida fa parte di un sistema complesso, non si può analizzare il comportamento
alla guida senza tener conto del “sistema traffico” nella sua totalità; fanno parte di
questo sistema diversi fattori: l’interazione tra gli utenti della strada; le strutture
(strade, segnaletica, ecc.); le leggi; i veicoli e la loro progettazione (ergonomia); le
caratteristiche individuali, ecc.
La comprensione del comportamento ed il tentativo di influenzarlo in modo positivo,
non può prescindere dalla collaborazione con altre figure che lavorano nell’ambito
traffico e che si occupano in diversa misura della progettazione di veicoli, della
legiferazione, della progettazione e costruzione delle strade, della segnaletica, del
livello politico, ecc.
Il sapere psicologico deve lavorare in modo interdisciplinare, trasmettendo
conoscenze sul comportamento umano utili ad altre figure che operano in questo
settore. In quest’ottica possiamo individuare molteplici campi di intervento della
psicologia del traffico:
ξ Attività diagnostica in tutti i settori del trasporto
ξ Driver improvement
ξ Riabilitazione e terapia
ξ Ergonomia e consulenza; progettazione/valutazione veicoli e infrastrutture
ξ Educazione stradale
ξ Consulenza nello sviluppo di leggi
ξ Campagne di marketing e prevenzione
ξ Consulenze per politici e tecnici del traffico
ξ Istruzione in corsi universitari; formazione esperti del traffico di altre discipline
ξ Sviluppo interventi di sicurezza stradale e mobilità
ξ Valutazione efficacia interventi di sicurezza stradale e mobilità
ξ Perizie e consulenze (es. dopo incidenti, in ambito giudiziale, ecc.)
ξ Programmi “train the trainer” (scuole guida, polizia, ecc.).
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In ognuno di questi settori lo psicologo del traffico collabora secondo il sapere
inerente al proprio campo di studio.
La psicologia del traffico interviene nei vari ambiti sopra descritti con diverse modalità
secondo il fine che si propone di raggiungere; essa può intervenire con fini di:
ξ Selezione e diagnosi: quando cerca di individuare particolari classi di
conducenti, tramite apposite procedure diagnostiche, mirate a selezionare
peculiari caratteristiche dei probandi (Risser, 2004).
È da sottolineare che difficilmente tali strumenti hanno una grande validità
predittiva, ciò a causa della natura di eterogeneità dei comportamenti nel
traffico ed alla mancanza di criteri che siano sufficientemente connessi al
comportamento reale in questione.
ξ Influenza diretta: tenta di influenzare il comportamento in modo diretto
facendo ricorso a campagne di prevenzione, addestramento, corsi di guida,
terapia, driver improvement, ecc.
In questi casi l’intervento è diretto sull’utente e si deve basare su concetti
fondamentali della psicologia del traffico e della psicologia generale quali la
formazione, i pregiudizi, l’attitudine al rischio, l’adattamento e la
compensazione, ecc (Risser, 2004).
È importante considerare i limiti dell’intervento diretto, al fine di valutarne
meglio il rapporto costi/benefici e la presa in considerazione di misure
alternative.
ξ Influenza indiretta: non interviene direttamente sui conducenti ma cerca di
condizionarne il comportamento migliorando il “sistema traffico” e le sue
infrastrutture (Risser, 2004).
Sono di questo tipo la creazione e la messa in vigore di nuove leggi;
l’innovazione tecnologica dei veicoli; gli interventi sulle condizioni di traffico e
sulle infrastrutture (segnaletica, strade, illuminazione, ecc.).
Lo psicologo deve essere consapevole delle funzioni psicologiche da
stimolare e delle tecniche da usare in modo da produrre i cambiamenti
comportamentali desiderati.
I limiti dell’intervento indiretto riguardano proprio la difficoltà di riuscire a
considerare tutti fattori, che nell’attuare un intervento, possono condizionare il
comportamento.
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I concetti psicologici più importanti con i quali si cerca spiegare il comportamento
alla guida derivano da concetti psicologici di portata generale e riguardano:
ξ Gli atteggiamenti
ξ La motivazione
ξ Aspetti sociali della situazione
ξ Le emozioni
ξ Lo stress
ξ La desiderabilità sociale e la pressione sociale
ξ La percezione, la cognizione, gli organi sensori (vista udito, ecc.)
ξ Funzioni motorie e psicomotorie
ξ Capacità di reazione
Modelli di studio e teorie del comportamento
Il comportamento umano è, come sottolineato in precedenza, un fenomeno
complesso che risente dell’interazione di numerosi fattori. L’analisi del
comportamento in psicologia del traffico può riguardare sia caratteri generali sia
fattori particolari o categorie di studio, basti pensare allo studio degli utenti della
strada in generale, oppure solo ad alcune specifiche categorie, come i motociclisti, o
ancora allo studio di casi singoli (Drexler & Themessl-Huber, 2004).
La complessità dello studio del comportamento ha fatto sì che nel tempo si siano
sviluppati molteplici modelli e teorie di studio (Rutter & Quine, 2002).
Alcuni approcci vedono il comportamento come un continuum, altri lo suddividono in
fasi, altri ancora si rifanno alle interazioni reciproche tra individuo e società.
L’idea di base è che non esistano teorie universali che possano spiegare il
comportamento in tutte le situazioni, bensì modelli che secondo l’argomento di studio
si adattano meglio all’analisi della situazione e ne costituiscono la base teorica più
consona sia per la spiegazione sia per gli interventi da attuare.
Prenderemo in esame, a titolo di esempio, tre tipi di modello che descriveremo
brevemente per far comprendere la complessità nello studio e nell’analisi secondo i
punti di vista considerati.
Modelli gerarchici
Il comportamento è qui descritto sulla base di una gerarchia precisa con un livello
superiore che gestisce ed ordina livelli inferiori; ad esempio i modelli rappresentativi
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prevedono livelli superiori che lavorano in astratto sovraordinati a livelli inferiori che
elaborano informazioni di tipo operativo.
I modelli gerarchici offrono la possibilità di analizzare il comportamento
considerandolo secondo diverse prospettive che vanno da quelle motivazionali, agli
atteggiamenti a comportamenti più operativi, provando ad intervenire ai livelli
adeguati.
Possiamo differenziare i modelli gerarchici tra sistemi funzionali e sistemi
tassonomici.
ξ Nei sistemi funzionali il comportamento è spiegato in base a tre livelli che
interagiscono tra loro: il livello strategico (la pianificazione del
comportamento); il livello tattico (il comportamento e la scelta di come
metterlo in pratica); il livello operazionale (livello di azione pratico) (Michon,
1985; Molen & Botticher, 1988). Questi tre livelli funzionano ed interagiscono
in modo differente secondo i soggetti che li attuano, basti pensare ad un
conducente anziano che compensa deficit a livello operazionale con differenti
e più complesse programmazioni strategiche.
Questi modelli sono adottati nei programmi riabilitativi, laddove occorrano
strategie per evitare il ripetersi di comportamenti sconvenienti. In uno di questi
casi, la guida in stato di ebbrezza, si cerca di insegnare ad usare determinate
pianificazioni strategiche per evitare il ripetersi di comportamenti operativi
sconvenienti.
ξ Nei sistemi tassonomici vengono creati inventari di categorie che si suppone
influenzino il comportamento. Uno degli approcci più conosciuti è il GEMS
(generic error modelling system) (Reason, 1990). Questo sistema classifica gli
errori secondo tre cause potenziali: 1) errori relativi alle abilità della persona
(skill based); sono i comportamenti appresi ed eseguiti in modo automatico,
costituiscono il livello più basso di tassonomia, ad esempio cambiare le
marce. 2) errori relativi al sistema normativo esistente (rule based); sono le
norme e le regole su cui si basa il comportamento, per esempio fermarsi al
rosso. 3) errori relativi alla conoscenza attuale (knowledge based); si
basano sulla presenza e disponibilità di conoscenze per la soluzione di
problemi in nuove situazioni. Il GEMS distingue inoltre tra errori come sviste
(slips) o come errori (lapse) riconducibili a capacità deficitarie del conducente
(Reason, 1990).
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Modelli a stadi
Sono modelli che individuano fasi ben determinate all’interno del processo di
attuazione del comportamento. A differenza dei modelli gerarchici non esiste una
gerarchia tra livelli superiori ed inferiori.
I principali e quelli che andremo ad esaminare sono: il modello transteoretico (TTM)
ed il PAPM (precaution adoption process model); all’interno di entrambi i modelli si
distinguono nettamente fasi in cui predominano processi cognitivi e fasi in cui
predomina l’effettiva esecuzione del comportamento.
ξ Modello transteoretico (Prochaska & DiClemente, 1982): per mettere a punto il
modello sono stati individuati dieci fattori di personalità ed ambientali
responsabili della modificazione comportamentale. Gli studi basati su questi
dieci fattori hanno individuato sei fasi del comportamento: 1) noncuranza; 2)
presa di consapevolezza; 3) preparazione; 4) comportamento; 5)
mantenimento; 6) stabilizzazione.
Il comportamento si attiverebbe secondo queste fasi partendo dalla
noncuranza dove il soggetto non manifesta ancora l’intenzione di cambiare,
passando per la presa di consapevolezza del comportamento da attuare, alla
preparazione all’azione fino ad arrivare al comportamento vero e proprio ed al
suo mantenimento e stabilizzazione nel tempo. È un modello dinamico in cui il
passaggio ad una fase successiva può anche non essere stabile, con la
possibilità di ritorno a fasi precedenti (ad esempio noncuranza).
ξ PAPM (Weinstein, 1988): è molto simile al modello transteoretico. Prevede
sette stadi responsabili nella modificazione del comportamento: 1) non
conoscere; 2) ignorare; 3) riflettere; 4) prendere decisioni negative; 5)
prendere decisioni positive; 6) fare proprio; 7) mantenere. A differenza del
modello visto prima in questo caso abbiamo la possibilità che il
comportamento si fermi ad una fase negativa e non evolva più verso un
miglioramento.
Modelli cognitivo-motivazionali
Sono modelli che considerano il comportamento non solo come risultato di
atteggiamenti e comportamenti connessi, ma come la somma di numerosi fattori di
influenza interni ed esterni, di variabili normative, situazionali e di pianificazione
intenzionale.
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In altre parole il comportamento è frutto di elaborazioni personali e complesse della
situazione, questo spiegherebbe, inoltre, l’incongruenza che spesso si manifesta tra
comportamenti ed atteggiamenti.
Appartengono a questa categoria di modelli diverse teorie tra le quali la teoria
dell’azione ragionata; il modello delle credenze relative alla salute; la PMT (protection
motivation theory); HAM (healt action model); ecc.
ξ Teoria dell’azione ragionata: la comprensione del comportamento passa, oltre
che per l’atteggiamento, anche per l’intenzione di metterlo in atto. L’intenzione
sarebbe, secondo gli autori (Ajzen & Fishbein, 1975; Ajzen & Fishbein, 1980),
determinata da tre fattori: 1) l’atteggiamento nei confronti del comportamento
da attuare; 2) le norme soggettive, cioè la motivazione soggettiva a
conformarsi alle norme; 3) controllo sul comportamento.
ξ Health belief model (Rosenstock, 1966; Becker, 1974): il modello delle
credenze relative alla salute identifica tre fattori responsabili dei
comportamenti alla luce della prevenzione del rischio.
Il primo fattore è rappresentato dalla percezione individuale della propria
vulnerabilità, il secondo fattore è la misura soggettiva dell’entità del rischio,
cioè quanto una persona è in grado di identificare il rischio in una determinata
situazione, il terzo elemento riguarda il valore che una persona attribuisce alla
propria salute.
Inoltre vi sono altri due elementi importanti nella messa in atto o nel
mantenimento di una comportamento: il rapporto costi benefici ed il grado di
efficacia percepito grazie al comportamento.
ξ Protection Motivation Theory (Rogers, 1983; Prentice-Dunn & Rogers, 1986):
in questo modello si presume che la probabilità dell’adozione di un
comportamento preventivo dipenda principalmente da due fattori. Il primo
fattore è la valutazione soggettiva del pericolo e quindi la minaccia percepita
dal soggetto; il secondo riguarda la valutazione delle risorse di coping ed in
particolar modo i costi/benefici e l’efficacia o meno del comportamento,
nonché la percezione di autoefficacia nell’ottenere i risultati desiderati.
ξ Health Action Model (Tones, 1995): la teoria è basata sull’assunto che le
persone con buona autostima siano più motivate a mettere in atto
comportamenti sicuri.