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volta, svelato dimensioni ed aspetti sempre più variegati di tale
fenomeno, preparando il terreno culturale e scientifico per studi e
ricerche sempre più rivolte ad un’analisi approfondita e
multidimensionale di esso. Come sostiene De Mauro (1997) nel
linguaggio c’è qualcosa di profondamente diverso dal respirare, dal
camminare e dal nutrirsi e questa diversità è data dall’esistenza di un
grandissimo numero di lingue profondamente diverse tra loro. La
complessità del linguaggio come fenomeno psicologico e mentale è
tale che non si possono comprenderne tutti gli aspetti adottando un
unico punto di vista.
Morris (1946) individua cinque criteri utili alla descrizione del
linguaggio. Esso è caratterizzato da:
-una serie di segni arbitrari;
-con un significato comune per una comunità di individui;
-senza riferimenti espliciti alla particolare situazione in cui sono
utilizzati (ossia le parole possono avere significati senza che venga
indicato l’oggetto che rappresentano);
-tali da essere trasmessi e ricevuti dagli interlocutori;
-conformi ad un sistema di regole di combinazione.
Il linguaggio può essere analizzato secondo due dimensioni. Da un
punto di vista funzionale, il linguaggio si prefigge di:
1) permettere ai parlanti di comunicare, di trasmettere informazioni,
pensieri e sentimenti, controllando reciprocamente il comportamento
(comunicazione interindividuale).
2) rendere possibili azioni e pensieri, cioè l’utilizzo dei codici e risposte
linguistiche per “pensare” e guidare e controllare il proprio
comportamento (comunicazione intraindividuale).
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Questo secondo aspetto può essere ricollegato alla manipolazione dei
segnali fisici (suoni linguistici) che comportano l’elaborazione dei
simboli astratti del pensiero.
Per una più esaustiva comprensione del fenomeno del linguaggio vanno
inoltre considerati ulteriori aspetti inscindibili da esso:
a) il “contesto” in cui il linguaggio si manifesta, il quale nasce e si
struttura grazie all’azione e all’interazione sociale.
b) il “rapporto con lo sviluppo cognitivo”, tenendo in considerazione il
fatto che oltre ad essere un sistema di segni convenzionali e di regole
che permette la loro combinazione, il linguaggio è anche soprattutto
un “sistema di significati e contenuti di conoscenza”.
Tra i meccanismi psicologici di funzionamento relativi alla “lingua”,
ossia il sistema linguistico composto di parole, frasi e discorsi, troviamo
la “metacompetenza” (vedi oltre) che rientra nel discorso della
competenza comunicativa. Questa particolare funzione realizzata,
secondo Jakobson (1941), nella descrizione del funzionamento della
lingua stessa, si manifesta in atti comunicativi, quali chiedere una
spiegazione lessicale e porsi interrogativi relativi alle proprie modalità di
comunicazione ed espressione verbale. Tali abilità sono da includere,
secondo alcuni autori quali Tunmer, Herriman e Pratt (1984), in un’area
più vasta della metacognizione insieme alle attività di meta-memoria,
meta-attenzione e di meta-apprendimento.
Il concetto del “linguaggio” in un senso più globale include in sé un
insieme di sistemi comunicativi verbali e non verbali caratterizzati dalle
espressioni facciali, dai movimenti del corpo, dalla gestualità, ma anche
dall’uso di strumenti di vario genere (matita, computer) che rendono
possibile la trasmissione dell’informazione che s’instaura all’interno di
un rapporto sociale. I sistemi linguistici elaborati dall’uomo si possono
7
suddividere in lingue parlate, scritte e segniche, ricorrendo la prima
all’uso del canale acustico-vocale, le ultime a quello visivo-motorio. Le
lingue segniche fanno uso dei movimenti corporei e della percezione
visiva, mentre quelle scritte si realizzano grazie all’uso di un insieme di
strumenti costruiti dall’uomo, e sono realizzate dai più semplici mezzi
comunicativi come la carta e matita a quelli tecnologicamente più
avanzati come la tastiera e il computer (Simone, 1990).
1.1.2 La consapevolezza metalinguistica
Dagli anni settanta, nel campo della linguistica, si è manifestato
sempre maggiore interesse per quelle condotte che denotano la
capacità di riflettere sulle strutture e sul funzionamento del linguaggio.
Si è definito tale capacità con una terminologia molto ampia che
sottende riferimenti concettuali ed empirici. Si parla, per restare in
Italia, di “abilità metalinguistica”, “coscienza”o più
appropriatamente, (Pinto, 1998) di “consapevolezza metalinguistica”.
Jakobson (1963) contempla, fra le funzioni secondarie del linguaggio,
proprio la funzione metalinguistica come attività che consiste nel
parlare della parola medesima, ed assume dunque il linguaggio stesso
come contenuto.
Benveniste (1974) definisce la facoltà metalinguistica come la
“possibilità che possediamo di elevarci al di sopra della lingua, di
astrarcene, di contemplarla, pur utilizzandola nei nostri ragionamenti e
nelle nostre osservazioni”.
Un contributo determinante è stato offerto da un gruppo di autori
australiani Tunmer, Pratt, Herriman (1984) che definiscono la
consapevolezza metalinguistica in tale modo: “In prima
approssimazione, la consapevolezza metalinguistica può essere
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definita come l’abilità di riflettere su e di manipolare le caratteristiche
strutturali del linguaggio parlato, trattando il linguaggio come un
oggetto di pensiero, in opposizione al semplice uso del sistema
linguistico per comprendere e produrre frasi.Essere
metalinguisticamente consapevoli significa iniziare ad accorgersi che
il flusso del discorso, che inizia con segnali acustici e termina con il
significato inteso dal parlante, può essere considerato con occhio
razionale e preso come oggetto a sé stante “
Per Tunmer, Pratt, Herriman, il metalinguaggio sarebbe
contemporaneamente incluso nella categoria generale della
metacognizione alla pari della metamemoria, del meta-apprendimento,
della meta-attenzione e della metacognizione sociale, ed includente a
sua volta quattro aree specifiche: la consapevolezza fonologica, la
consapevolezza della struttura dei segni, la consapevolezza della
struttura frasale e la consapevolezza pragmatica.
Sul piano evolutivo le varie abilità metalinguistiche emergerebbero in
contemporanea e l’elemento di novità consisterebbe nella capacità di
andare oltre il comprendere e produrre frasi, assumendo
intenzionalmente ad oggetto del pensiero i risultati di queste attività di
comprensione e produzione.
Tunmer, Pratt, Herriman distinguono due tipi di consapevolezza:
consapevolezza intuitiva degli scopi degli enunciati, della quale può
fornire prova anche un bambino nelle sue prime fasi di sviluppo
linguistico quando sa effettuare quelle modifiche che hanno un valore
adattivo preciso.Esisterebbe poi una consapevolezza delle
caratteristiche strutturali degli enunciati, il cui sviluppo non è
ipotizzabile prima del consolidamento di certe strutture lessicali e
sintattiche di base, e prima dell’emergere di quel controllo
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metacognitivo di natura trasversale che riguarda tutti gli aspetti
dell’attività mentale.
Tunmer, Pratt ed Herriman collocano la consapevolezza
metalinguistica nella grande famiglia delle attività metacognitive, allo
stesso livello gerarchico di queste, ribaltando la tesi della Donaldson
(1978) che attribuiva alla consapevolezza metalinguistica il ruolo di
matrice delle altre attività metacognitive.
Ricerche empiriche hanno confermato lo sviluppo spontaneo di
processi di analisi che si applicano alla lingua parlata, precedenti ed
indipendenti dall’impatto con il sistema scritto.La prima “palestra”
della consapevolezza metalinguistica è dunque il parlato, sul quale
sono esercitate le iniziali manipolazioni strutturali.
Attraverso osservazioni che trovano ormai riscontro in comunità
linguistiche differenti (Formisano, Pontecorvo, Zucchermaglio, 1986;
Goodman, 1990) si è visto che il bambino elabora un suo piccolo
codice di interpretazione delle corrispondenze grafema-fonema assai
prima che la scuola gliene indichi i principi convenzionali.Il grado di
articolatezza di questo codice sembra evolvere secondo una
successione di fasi la cui regolarità sarebbe anch’essa indipendente
dalle particolarità delle varie lingue. Ciò confermerebbe quindi la tesi
in base alla quale l’acquisizione della letto-scrittura all’inizio della
scolarizzazione non può essere considerata il fattore principale dello
sviluppo delle capacità metalinguistiche, ma un consolidamento ed
un’espansione di processi metacognitivi già avviati.
L’analisi dei compiti metalinguistici si è rivelata molto interessante ed
utile per individuare le eventuali differenze qualitative in gruppi di
soggetti che, per ragioni più disparate, abbiano avuto condizioni di
sviluppo linguistico diverse.Il caso tipico è quello dello sviluppo
bilingue e monolingue per cui è sostenuta una maggiore
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consapevolezza metalinguistica nei soggetti bilingue, a parità di altre
condizioni (Balkan 1970,Cummins 1978, Hakuta,1984; Pinto,1993;
Titone,1994; Pinto,Taeschener,Titone,1996;Pinto1997;)
La Bialystok (1991) nel focalizzare quali componenti della
consapevolezza metalinguistica, e a quali livelli di complessità
possono manifestarsi certe differenze fra bilingui e monolingui, ha
potuto osservare che i bambini bilingui, che sanno leggere e scrivere
nelle due lingue, ottengono prestazioni migliori dei corrispondenti
monolingui in tutti i tipi di compiti metalinguistici, mentre i bambini
bilingui che sono tali solo al livello orale sono superiori ai loro
coetanei monolingui unicamente nei compiti metalinguistici basati
sulla componente del controllo.
Per l’italiano vi sono alcuni strumenti di misurazione delle abilità
metalinguistiche, i test TAM-1, TAM-2, TAM-3 concepiti per fasce
d’età diverse e precisamente 4-6 anni, 9-13 anni, adolescenti-
adulti,che sono stati predisposti dalla Prof.ssa M.A.Pinto nell’ambito
del Dipartimento della Facoltà di Psicologia di Roma “La Sapienza”
11
1.2 MECCANISMI SOTTOSTANTI ALL’APPRENDIMENTO
DEL LINGUAGGIO
La capacità di acquisire la lingua alla quale è esposto da parte del
bambino ha da sempre interessato in tutti i tempi studiosi di materie
diverse. Da una parte si tratta di una capacità che solo i bambini
dell’uomo sembrano possedere: una delle capacità che differenzia,
perciò, gli esseri umani da tutti gli altri animali. D’altra parte, si tratta di
un’acquisizione che avviene in modo naturale e in tempi relativamente
rapidi per qualsiasi lingua ed in qualsiasi cultura. Questo fatto ha portato
alcuni studiosi a considerare che le strutture mentali che permettono
l'acquisizione del linguaggio siano innate e specifiche, mentre proprio la
complessità di tale capacità ha spinto altri studiosi a ritenere il linguaggio
come un sistema ugualmente innato, ma che coinvolge una
riconfigurazione di sistemi mentali che esistono in altre specie e
continuano a svolgere anche alcune funzioni non linguistiche. Possiamo
considerare questi due punti di vista come due teorie antitetiche che,
forse con molta semplificazione, possiamo indicare come la “teoria della
modularità” (Pinker e Bloom, 1990, Fodor, 1993) secondo la quale il
1inguaggio viene acquisito e mantenuto grazie ad una «speciale» facoltà
che è indipendente dalle altre facoltà della mente e del cervello, e la
“teoria cognitivista-funzionalista” (Bates e McWhinney, 1989) secondo
cui il linguaggio è acquisito e utilizzato attraverso processi
mentali/neurali comuni anche ad altri domini percettivi, cognitivi e
affettivi.
Queste due teorie rimandano a prospettive diverse sia relativamente
all’evoluzione della specie umana che relativamente all'ontogenesi della
capacità di linguaggio esclusivamente umana.
Secondo i sostenitori della prima teoria il linguaggio è l'esempio classico
di una improvvisa mutazione della specie che ha portato ad una nuova
12
abilità complessa. Secondo i sostenitori della seconda teoria il linguaggio
si è evoluto gradualmente da abilità preesistenti. Questo punto di vista
favorisce l'idea di una continuità e suggerisce che le condizioni
soggiacenti alla capacita’ di parlare siano presenti anche nei primati non
umani. Relativamente all’ontogenesi, la prima idea, cioè la concezione
che il linguaggio sia un sistema modulare, sostiene che le abilità
linguistiche sono innate e specifiche, mentre la teoria funzionalista, che
anche ammette che i bambini hanno delle capacità notevoli al momento
della nascita, sostiene che la particolare abilità con cui essi riescono ad
acquisire il linguaggio si basa su abilità cognitive e percettive più
generali.
Alcuni decenni or sono i linguisti e gli psicolinguisti che facevano
indagini sull'acquisizione del linguaggio, furono influenzati dal punto di
vista chomskiano, e si dedicarono soprattutto all’indagine della
acquisizione della semantica e della sintassi indipendentemente da altri
sistemi di conoscenza. Successivamente, tuttavia, i ricercatori si sono
progressivamente sempre più resi conto che la capacità linguistica non si
esaurisce solo ed esclusivamente con la semantica e la sintassi ma
comprende molti altri campi, fonologia, morfologia, pragmatica, e
implica, o è molto collegata con abilità non linguistiche, comunicative,
percettive e cognitive. Intanto erano stati raccolti dati sull'acquisizione di
molte lingue, su un numero di soggetti sempre maggiore con ricerche
impostate allo stesso modo ed utilizzanti strumenti identici. Si è perciò
potuto osservare che accanto a notevoli somiglianze sussistono anche
notevoli differenze tra le lingue, e all'interno di una stessa lingua tra i vari
soggetti. La realtà appare dunque molto più complessa e variegata di
quanto i modelli «a priori» lascino prevedere complicando notevolmente
il quadro iniziale, ma nello stesso tempo possono aiutarci ad elaborare un
13
modello di riferimento teorico che, anche se incompleto, ci appare allo
stato attuale come l'unico che non è al momento falsificato dai risultati di
ricerche empiriche.
Molti studiosi oggi concordano che la capacità di acquisire un linguaggio
sia un'abilità innata, ma non necessariamente specifica e indipendente da
altre capacità. Si ritiene che, almeno inizialmente, essa sia strettamente
collegata a meccanismi percettivi e cognitivi più generali. Possiamo
ipotizzare che solo in un secondo tempo il linguaggio, ma soprattutto
alcune abilità particolari, possano «modulizzarsi» costituendo dei domini
separati e molto specifici.
Tratteremo, comunque, separatamente nelle sezioni successive i diversi
tipi di approccio.
14
1.3. IPOTESI INNATISTA
1.3.1. Chomsky
Nel 1957 comparve, nel panorama degli studi sul linguaggio, lo studioso
americano Chomsky che mise in risalto i punti più critici del precedente
approccio comportamentista. Partendo da una visione critica verso la
linguistica strutturale, Chomsky evidenziò in che modo una grammatica
descrittiva tradizionale, come “grammatica a stati finiti” con una
produzione sequenziale di parole limitate da una serie di regole ristrette,
sia inadeguata a spiegare tutte le regole trasformazionali costitutive del
linguaggio.
In sostanza, Chomsky afferma che l’input che ci viene offerto
rappresenta un quadro incompleto della lingua di cui si tratta. Sostenendo
l’idea che l’acquisizione della “struttura” del linguaggio dipenda da un
“Language Acquisition Device” (LAD), ovvero da un dispositivo di
acquisizione del linguaggio che ha come base una grammatica universale
o una “struttura linguistica profonda”, Chomsky battezzò una nuova
grammatica chiamata “generativo-trasformazionale”. Il LAD è
programmato per far riconoscere nella struttura di “superficie” di
qualunque lingua naturale, la sua struttura “profonda” grazie all’affinità
fra la grammatica universale innata e la grammatica di qualsiasi altra
lingua naturale. Il LAD estrae le regole di realizzazione grammaticale
della lingua specifica, permettendo così all’aspirante parlante di generare
e produrre potenzialmente tutti gli enunciati possibili in quella lingua.
Tale dispositivo mentale regola anche i processi di acquisizione
successiva a quella della madrelingua. Per Chomsky, la sintassi è
indipendente dalla conoscenza del mondo, dal contenuto semantico e
dalla funzione comunicativa. Il compito principale di una teoria
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linguistica è proprio quello di specificare la forma della grammatica, che
rappresenta una teoria degli universali linguistici ed un’ipotesi sulla
struttura intellettiva dell’uomo. Secondo Chomsky (1968) questa
competenza linguistica innata comporta, anche per l’acquisizione di una
seconda lingua, la costituzione di una grammatica personale che deriva
dalle regole sintattiche della prima lingua dell’individuo.
Chomsky distinse nella frase una struttura profonda da una superficiale,
la prima identificata come quella astratta e sottostante che determina
l’interpretazione semantica della frase stessa. La struttura superficiale,
invece, favorisce l’interpretazione fonetica della frase. Per produrre una
frase, a partire dalla struttura profonda, è necessario applicare delle
regole di trasformazione che riorganizzano gli elementi della frase. In
base a questa concezione la sintassi di una lingua presenta due sistemi di
regole. Da una parte c’è un sistema di base che determina la struttura
profonda e quindi l’introduzione di nuove proposizioni, dall’altra un
sistema trasformazionale che si applica per arrivare alla struttura
superficiale. Molte volte la forma logica di una frase, espressa dalla sua
struttura profonda, può essere completamente differente dalla
grammatica superficiale. La sintassi non è altro che la struttura profonda,
mentre l’espressione della sintassi è la struttura superficiale. Un’altra
distinzione importante elaborata da Chomsky fu quella relativa alle
nozioni di “competenza” e di “esecuzione”. Con la prima ci si riferisce
all’insieme di “regole sintattiche, semantiche e fonologiche, che un
parlante deve implicitamente possedere per essere in grado di parlare e
comprendere”, con ciò s’intende la conoscenza che l’individuo ha della
lingua stessa. Per “esecuzione”, invece, Chomsky intese la produzione
o comprensione di frasi soggetta ad una serie di fattori psicologici che
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possono far deviare l’esecuzione dalle regole del linguaggio (Flores
D’Arcais, 1993).
1.3.2 Pinker
Su posizioni analoghe a quelle di Chomsky si muove un altro studioso,
Steven Pinker, il quale ipotizza l’esistenza di un gene del linguaggio
presente negli uomini, che spiegherebbe le diverse abilità individuali
rispetto all’apprendimento delle lingue.
Secondo Pinker noi apparteniamo ad una specie che ha una straordinaria
capacità di plasmare con estrema precisione gli eventi nel cervello altrui
con il linguaggio; emettendo semplicemente suoni con la bocca noi
possiamo far sorgere l’uno nella mente dell’altro nuove combinazioni di
idee dotate di significato. In qualsiasi storia naturale della specie umana il
linguaggio compare sempre come una caratteristica predominante. Un
linguaggio comune immette i membri di una comunità in una rete di
condivisioni di informazioni. Pinker parla di istinto di apprendere
parlare e comprendere il linguaggio.
Il linguaggio non è un artefatto culturale che impariamo così come
impariamo a leggere l’ora, è un pezzo a sé del corredo biologico del
nostro cervello; è una abilità complessa e specializzata che si sviluppa
spontaneamente nel bambino senza sforzo conscio o istruzione formale
che viene usato senza la coscienza della sua struttura logica che è
qualitativamente lo stesso in ogni individuo e che è distinto da capacità
più generali come l’elaborare informazioni o il comportarsi in modo
intelligente.
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Il termine ISTINTO suggerisce l’idea che l’uomo sa parlare più o meno
nello stesso senso in cui il ragno sa tessere la sua tela. Il linguaggio è il
prodotto di un istinto biologico ben progettato.
La concezione del linguaggio come istinto fu articolata per la prima volta
nel 1871 da Darwin che ne concluse che la capacità linguistica è una
tendenza istintiva ad acquisire un’arte, un progetto non solo degli esseri
umani ma osservato anche in altre specie. I meccanismi di funzionamento
del linguaggio sono lontani dalla nostra coscienza. La difesa più famosa
in questo secolo del linguaggio come istinto è dovuta a Chomsky (vedi
sezione precedente), il linguista che per primo svelò la complessità del
sistema.
Inoltre il linguaggio si costruisce in parte con la comunicazione e ogni
società ha il proprio, tuttavia non è vero che noi pensiamo in una lingua
specifica: Pinker afferma che i nostri pensieri si articolano in una
silenziosa forma di espressione del cervello, un linguaggio del pensiero o
“mentalese”, esiste un linguaggio mentale astratto che dà forma ai
pensieri e che noi traduciamo di volta in volta nella nostra lingua madre.
Questi pensieri si rivestono di parole soltanto quando abbiamo bisogno di
comunicarli ad un ascoltatore.
Ogni pensiero particolare nella nostra testa abbraccia una grande quantità
di informazioni, ma quando dobbiamo comunicare un pensiero a
qualcun’altro l’arco di attenzione è breve e le labbra sono lente. Per fare
arrivare informazioni nella testa dell’ascoltatore in una quantità di tempo
ragionevole un parlante può codificare in parole solo una frazione del
messaggio e contare sull’ascoltatore per completare il resto.
Il tempo non è una risorsa limitata, le varie parti del cervello sono
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connesse direttamente l’una all’altra da grossi fasci di neuroni che
possono trasferire rapidamente enormi quantità di informazioni. Dunque
le persone non pensano in inglese, italiano, cinese; pensano in un
linguaggio del pensiero. Il linguaggio del pensiero probabilmente
somiglia un po’ a ciascuna di queste lingue; presumibilmente ha dei
simboli per i concetti e combinazioni di simboli. Ma a paragone di
qualsiasi altro linguaggio il Mentalese deve essere per certi versi più
ricco e per altri più semplice: più ricco per esempio perchè ad una parola
devono corrispondere diversi simboli, più semplice delle lingue parlate
perchè parole e costruzioni specifiche della conversazione (come un o il)
sono assenti e non c’è bisogno di informazione sulla pronuncia delle
parole o sul modo di ordinarle. Può darsi che i parlanti inglesi pensino in
una specie di quasi inglese semplificato e che i parlanti apache pensino in
un quasi apache semplificato, ma per far sì che tutti questi linguaggi del
pensiero servano al ragionamento essi devono somigliarsi molto di più di
quanto non si somiglino le loro controparti parlate ed è probabile che
siano uguali: un mentalese universale.
Conoscere una lingua significa allora conoscere come tradurre il
mentalese in sequenze di parole e viceversa.
Le persone senza linguaggio possono comunque possedere il mentalese e
i bambini e molti animali non umani ne hanno presumibilmente versioni
semplificate.
Certamente se i bambini non possedessero un mentalese in cui tradurre
da e nella lingua madre non è chiaro come potrebbe aver luogo
l’apprendimento della lingua in questione o addirittura cosa significa
apprenderla.