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INTRODUZIONE
Il presente lavoro raccoglie alcune delle piø note teorie e prospettive sulle relazioni tra
gruppi al fine di meglio comprendere le dinamiche sottostanti al fenomeno migratorio che
oggi, nel nostro Paese ha una portata notevole, con le conseguenze del caso. All’inizio del
2011 la presenza straniera in Italia era stimata intorno ai 5,4 milioni di unità
(diciassettesimo rapporto sulle migrazioni 2011).
In particolare si cercano di indagare, attraverso la disamina di articoli scientifici, i processi
identitari degli adolescenti immigrati di seconda generazione ed i processi di acculturazione
che affrontano sia gli stessi che i gruppi appartenenti alle società ospitanti.
Il primo capitolo raccoglie alcuni dati inerenti all’immigrazione, sia come fenomeno socio
demografico che come soggetto di studio da parte della psicologia.
Maria Hernadenz , ricercatrice dell’Università di Berkeley (California), ha analizzato la
letteratura inerente al tema dell’immigrazione e della psicologia al fine di mettere in luce i
temi maggiormente trattati e studiati dalla psicologia in relazione al fenomeno
dell’immigrazione (Hernandez, 2009).
Nel secondo capitolo vengono analizzate le relazioni intergruppo, con particolare
riferimento alla Teoria dell’Identità Sociale (SIT).
La SIT è stata elaborata da Tafjel e Turner a partire dagli anni ‘70, e risulta essere la
cornice di riferimento per eccellenza entro la quale indagare le relazioni intergruppo. (Hogg,
1995). Quando si studiano i gruppi, tra cui si annoverano anche le minoranze etniche,
entrano in gioco anche gli stereotipi ed i pregiudizi.
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Secondo Tajfel gli stereotipi nascono dal processo di categorizzazione e ci consentono di
mettere ordine laddove c’è complessità.
Quando sono categorizzati all’interno di un certo gruppo i soggetti tendono, in compiti di
memoria, a ricordarsi prevalentemente di ciò che li rende piø simili tra loro.
Molti degli stereotipi che riguardano gli outgroup nazionali sono negativi in parte a causa
dell’etnocentrismo, ovvero la tendenza da parte di un gruppo a credere che la propria cultura
sia piø importante e l’unica vera cultura verso cui tendere, oltre che a costituire lo schema di
riferimento per tutte le altre culture (Villano, Riccio, 2008).
Nel terzo capitolo vengono raccolte teorie e modelli inerenti all’acculturazione, definita
come “…fenomeno che risulta quando due gruppi aventi differenti culture vengono in
contatto tra loro in modo continuo ed il successivo cambiamento nei modelli culturali
originali di ciascuno o di entrambi i gruppi… “ (Berry, 2008).
Vengono presentati due studi che indagano due differenti processi psicologici.
Il primo studio, di Rohmann, punta l’attenzione sugli atteggiamenti legati alle differenti
strategie di acculturazione nelle relazioni intergruppo (Rohmann et al., 2006), mentre il
secondo di Matera e colleghi, mette in relazione il contatto tra gruppi alle strategie di
acculturazione adottate dai membri delle due culture (Matera et al., 2011).
Legato al fenomeno migratorio vi è anche lo stress che deriva appunto dai processi di
acculturazione.
Esso è definito da Wei come “una reazione di stress in risposta ad eventi della vita che sono
insiti nell’esperienza stessa di acculturazione, quali difficoltà psicologiche di adattamento
ad una nuova cultura, o condizioni psicologicamente stressanti che risultano da una non
familiarità con usi, costumi e norme sociali nuovi. Durante il processo di acculturazione gli
individui possono modificare atteggiamenti, comportamenti ed identità per cercare di farvi
fronte” (Hernandez, 2009).
Voyer (2011) , Verkuyen et al. (2006), Van de Vijver et al. (2008) e Watters (2011) guidano
infine alcune riflessioni sul fenomeno del multiculturalismo qui inteso come costrutto di non
facile definizione (Voyer, 2011).
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Il quarto capitolo infine indaga il percorso di formazione identitaria, personale, etnica e
culturale in relazione all’adolescenza degli immigrati di seconda generazione.
L’identità è un complesso intreccio di percorsi, tutti ugualmente importanti ed incisivi.
Al fine di poter comprendere appieno questo costrutto, i fattori da prendere in
considerazione sono numerosi, sia dal punto di vista sociale, (l’identificazione, l’imitazione
e i processi dialettici), e sia dal punto di vista personale (la consapevolezza di sØ,
l’autocoscienza, l’auto concentrazione, i sentimenti ed i comportamenti) (Adams e
Marshall, 1996). Per quanto riguarda l’identità etnica Phinney propone un modello a tre
stadi, che parte da un periodo nel quale l’identità etnica non viene esaminata dall’individuo
ad un periodo di esplorazione fino ad arrivare ad un’identità etnica consolidata (Phinney,
1990).
Va ad Erikson il merito di avere indagato sistematicamente il tema dell’identità culturale.
Egli descrisse lo sviluppo dell’identità come un processo nel quale entrano in gioco sia
l’identità individuale che quella legata al gruppo. Erikson aprì la strada a numerosi studi
aventi come tema l’identità in generale ma anche quella culturale.
Essere un’adolescente, immigrato di seconda generazione, porta lo stesso ad affrontare
processi cognitivi, sociali e identitari complessi che possono tuttavia condurre ad esiti
differenti . (Ali Akbar Mahdi, 1998, Arnett Jensen, 2003, Farver et al., 2007, Wakefield &
Hudley, 2009).
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CAPITOLO 1
IL FENOMENO MIGRATORIO
“L’uomo che trova dolce la sua patria non è che un tenero principiante;
colui per il quale ogni terra è come la propria è già un uomo forte;
ma solo è perfetto colui per il quale tutto il mondo non è che un paese straniero”
Ugo di San Vittore XII secolo
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1.1. Introduzione
“Quando la nave entrò nel porto di Brindisi era l'alba, mio padre mi svegliò. La sera, siccome avevo
preso posto sulla nave di nascosto e al buio, non mi ero mai reso conto di quanti eravamo. Mio
padre mi diceva di stare in piedi, ma avevo freddo e la coperta che avevo sulle spalle era umida. Nel
porto c'erano tante persone in divisa, forse poliziotti. Ci fecero scendere ad uno ad uno e ci
sistemarono in una scuola che, siccome era estate, era vuota. Una signora della Croce Rossa (aveva
una croce rossa sul braccio) mi diede una cioccolata calda e dei biscotti e un dottore gentile mi
chiese se provavo dolore da qualche parte. Mi indicava la testa, la pancia, le gambe... a me faceva
male il cuore, perchØ pensavo a mia madre e a mia sorella. Nel cortile della scuola, gli albanesi
erano seduti per terra ed in fila, cercavano di non dare fastidio e questo fatto mi riempì di tristezza.
Pensavo al mio paese, ai miei compagni e alla mia scuola che non esisteva piø. Mio padre aveva in
Italia dei cugini, ci vennero a prendere e ci portarono a Roma: andammo ad abitare in una stanza
con sei letti, in un angolo c'era un fornello per cucinare e un piccolo bagno. Un cugino di mio padre
aveva una pompa di benzina a Monteverde e mio padre poteva lavare le macchine per 15.000 lire e
tenere la metà dei soldi. Mio padre era felice perchØ sarei potuto andare a scuola. Ma la scuola fu un
disastro. I compagni mi evitavano, nessuno voleva sedersi vicino a me e quando la maestra mi
chiamava alla lavagna, qualcuno si alzava e odorava la sedia e poi faceva le smorfie come per dire
che puzzava e tutti ridevano. Li odiai subito, tutti. Avevano tutto quello che desideravo: il cappotto,
il berretto, lo zaino, l'astuccio ed il pallone per giocare a calcio. Mi prendevano in giro anche perchØ
non parlavo bene l'italiano. Ben presto capii che in quel "paese ricco e bello" non era facile vivere.
C'è una grande intolleranza perchØ gli albanesi sono considerati cattivi, ladri e sfruttatori. A scuola
tutti parlavano dell'Europa unita, di nazioni diverse che avranno un'unica moneta, ma di noi
albanesi, che non siamo così diversi (anche geograficamente siamo vicini), non importa niente a
nessuno perchØ il nostro paese è povero. Poi la maestra mi spiegò che per me andare a scuola era
una grossa opportunità ed io non conoscevo bene la parola opportunità, ma doveva essere una cosa
come la speranza.” Mattia (www.il pianeta dei bambini che sorridono – testimonianze).
Viviamo ormai in un mondo che potrebbe essere definito come nomade, dove milioni di persone si
spostano (Matera et al. 2011) tanto che oltre il 3% della popolazione mondiale può essere definita
immigrata e questa è una cifra destinata a crescere (Guimond, et al. 2010) .
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I motivi per cui ci si sposta sono diversi, dalle disparità economiche tra i diversi paesi, ai conflitti
civili e internazionali, dalla liberalizzazione del mercato all’incremento dei trasporti. (Esses et al.
2010).
Qualunque sia il motivo che spinge un individuo a spostarsi dal proprio paese, vi è un cambiamento
in atto che richiede spirito di adattabilità sia che per chi arriva sia per chi accoglie. In particolar
modo l’immigrato deve affrontare alcuni possibili ostacoli nella lingua, nel clima, (le migrazioni
infatti solitamente sono da sud verso nord e spesso si migra dai paesi caldi e poveri del cosiddetto
terzo mondo verso paesi freddi ed industrializzati), nella diversa religione, nei valori, fino a
questioni di ordine pratico, come il cibo o l’abbigliamento.
L’Organizzazione Internazionale per l’Immigrazione punta l’attenzione sia sui fenomeni migratori
che vedono coinvolti numerosi paesi occidentali sia, soprattutto, sulla loro gestione. Le diversità
nelle politiche di gestione dell’immigrazione dei diversi paesi sono molte.
L’immigrazione mondiale sta cambiando non solo in termini di portata ma anche di obiettivi, e così
cambiano anche le strategie di integrazione adottate dai vari paesi destinatari. In principio venivano
cercati immigrati che fornivano mano d’opera a basso costo, che venivano impiegati in settori quali
l’agricoltura, l’industria e il settore edile. Negli ultimi due decenni, almeno per quanto riguarda i
paesi con un economia avanzata, (come ad esempio Canada e Australia), c’è stata una vera e propria
“caccia ai talenti”, a persone molto qualificate da impiegare in diversi settori.
L’immigrato ideale sarebbe quindi talentuoso, competente, qualificato dal punto di vista lavorativo,
educato e pronto per essere assimilato nel mercato del lavoro della nazione ospitante. Sarebbe utile
quindi allo sviluppo dell’economia del paese (Wills, 2010).
¨ proprio questo lo scopo che si vuole raggiungere in Europa con l’introduzione della “Carta Blu”,
che permette la mobilità all’interno dell’Unione Europea di persone altamente qualificate a fini
lavorativi per sopperire anche alla scarsità di competenze in alcuni settori economici (Esse set al.
2010).
La carta non garantisce nessun tipo di cittadinanza permanente, ha una durata di tre anni e può
essere rinnovata (europarlamento.it).
Paesi come gli Stati Uniti e l’Inghilterra hanno inserito nelle loro politiche d’immigrazione una
sorta di sistema “ a punti” per gli immigrati, in modo da incentivare un tipo di immigrazione pronta
e qualificata da impiegare nel sistema lavoro, con l’obiettivo di incrementare l’economia dei loro
paesi (Wills, 2010).
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Sotto questo profilo è molto interessante una recente ricerca di Portes che mette in luce alcuni
aspetti economici del fenomeno migratorio, non soltanto per quanto riguarda il paese ricevente ma
anche quello di provenienza degli immigrati (Portes, 2009).
Portes evidenzia due posizioni opposte.: L’immigrazione, vissuta dal punto di vista dei paesi di
provenienza è un fenomeno positivo poichØ riduce la povertà ed incrementa lo sviluppo
dell’economia degli stessi, grazie ai proventi economici che i soggetti migrati inviano alle loro
famiglie. Per la posizione contraria, la migrazione viene considerata come sintomo causa dello
spopolamento di intere regioni. Lo svuotamento di interi territori consente ai governi di evitare le
loro responsabilità appoggiandosi ampiamente sulle rimesse che provengono dagli immigrati stessi.
Da una parte ci sono governi che chiedono agli Stati Uniti o all’Europa di non respingere i cittadini
che provengono dai loro paesi, in modo che essi possano continuare ad inviare denaro alle loro
famiglie (quindi al loro paese d’origine). Dall’altro lato gli esperti di sviluppo provenienti dai paesi
di emigrazione denunciano che gli stessi flussi in uscita andrebbero contro i lori interessi nazionali.
I fenomeni migratori coinvolgono sia mano d’opera che talenti e professionisti. Per quanto riguarda
la prima forma di lavoro, ovvero la manovalanza, nonostante le critiche che spesso le nazioni
ospitanti muovono, queste migrazioni giocano un ruolo importante nelle loro economie, poichØ
sostituiscono la manodopera locale che va in pensione, inoltre rispondono all’offerta di lavoro di
imprese in settori che la popolazione locale guarda con difficoltà, come l’agricoltura e le
costruzioni. Due scuole economiche di pensiero diverso si interrogano sull’immigrazione in questi
termini.
Una vede l’immigrazione come necessaria compensazione tra regioni che hanno manodopera in
abbondanza da un lato, e regioni che hanno risorse e posti di lavoro da offrire. La migrazione
sarebbe quindi una specie di bilancia. Anche la seconda scuola di pensiero vede come positivo il
fenomeno migratorio, sia per le rimesse di pagamento che gli immigrati mandano alle loro famiglie,
rimesse che hanno sempre un effetto positivo sulle economie locali, sia per le conoscenze acquisite
da chi è migrato che facendo ritorno al proprio paese d’origine, incrementa il capitale sociale dello
stesso.
Portes distingue due forme diverse di immigrazione: quella ciclica e quella permanete.
Nella prima i migranti passano un periodo di tempo all’estero, poi tornano dalle loro famiglie
contribuendo positivamente l’economia dei loro paesi, poichØ ciò che è stato guadagnato altrove
viene speso nel paese d’origine. Al contrario, l’immigrazione permanente, che non prevede
rimpatri, se non per brevi periodi, avrebbe l’effetto opposto.
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Anche la cosiddetta “fuga di cervelli” non ha solo risvolti positivi. BenchØ possa essere d’incentivo
per invogliare eventuali creditori ad investire nelle scuole e nella formazione locale, promuovendo
un’ immagine positiva del paese inviante, priva quest’ultimo di una forza lavoro giovane e
innovativa che potrebbe favorire il paese stesso.
I professionisti che viaggiano fuori dal loro paese per brevi periodi, al rientro in patria, portano con
sØ una serie di ricadute positive, come ad esempio la conoscenza tecnico-professionale acquisita che
può essere diffusa tra i giovani, e, naturalmente, valuta estera da spendere nel proprio paese,
destinata spesso ad essere investita.
Se da un lato i paesi occidentali cercano di attrarre persone qualificate da impiegare, dall’altro si
adoperano per adottare politiche volte a contrastare e prevenire gli ingressi di immigrati “illegali”
(Wills, 2010).
Quest’ultimo tipo di immigrazione sta aumentano velocemente, non solo negli Stati Uniti, dove si
contano circa 11 milioni di immigrati illegali, ma anche in Europa, in Australia ed in Canada. Di
conseguenza, questi Paesi hanno adottato politiche di prevenzione per arginare il fenomeno
dell’immigrazione illegale. In Italia, ad esempio, le politiche di respingimento ai confini e
l’espulsione coatta, hanno ridotto la presenza di immigrati clandestini sul territorio italiano, ma ciò
è stato possibile solo grazie ad accordi bilaterali tra i paesi interessati (Orretto, 2009).
Le condizioni politiche, economiche e sociali di un dato paese condizionano ampiamente gli
atteggiamenti verso gli immigrati e l’immigrazione. Anche per questo motivo le diverse visioni
economiche e sociali del fenomeno, dovrebbero essere integrate ed entrare nelle Agende politiche
dei paesi coinvolti. (Wills 2010).
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1.2. Aspetti socio-demografici
Negli ultimi dieci anni gli immigrati nel mondo sono aumentati di 64 milioni, arrivando a 214
milioni (dato Oim).
Gli emigrati italiani, nel mondo, sono 4,2 milioni. Gli studenti stranieri sono 3,7 milioni.
Nel 2009 sono 32,5 milioni i residenti con cittadinanza straniera nei 27 Paesi della UE, cioè il 6,5%
della popolazione, mentre altri 14,8 milioni sono diventati cittadini dei paesi di accoglienza
(attualmente nella misura di 776 mila l’anno), per cui quasi un decimo della popolazione europea
non è nata nel Paese in cui attualmente risiede. Secondo le statistiche dell’Alto Commissariato delle
Nazioni Unite per i rifugiati, sono 15,4 milioni i rifugiati nel mondo, 850 mila i richiedenti asilo, e
358 mila le domande d’asilo, di cui 10 mila presentate in Italia. “Nel futuro cambieranno gli scenari
migratori e, a causa della diminuzione della popolazione in età attiva, la Cina sarà il massimo polo
di attrazione migratoria, così come continuerà a esserlo l’Europa” (ISTAT, 2007).
Le scelte sottostanti il fenomeno migratorio sono diverse: disoccupazione elevata o
sottoccupazione, povertà, conflitti armati, degrado dell'ambiente e disastri naturali, violazioni dei
diritti umani, opportunità maggiori o speranza di raggiungere una migliore qualità della vita.
Anche la durata del soggiorno è una variabile da tenere in considerazione. Si può decidere di
spostarsi temporaneamente, con la speranza di fare ritorno al paese d’origine, oppure si può mirare
ad una migrazione permanete. (Carolin Hagelskamp, Carola Su´arez-Orozco e Diane Hughes,
2010).
Nel rapporto annuale dell’Istat si legge che: “il fenomeno dell’immigrazione nel nostro Paese ha
assunto dimensioni via via crescenti in un arco di tempo relativamente breve. Da paese
“tradizionalmente” di emigrazione l’Italia si è trasformata negli ultimi 15 anni in una delle mete
privilegiate di flussi migratori provenienti – nell’ordine - dall’ex Europa dell’Est (“paesi in
transizione”), dall’Africa (Maghreb e paesi del Golfo di Guinea), dall’Asia (Cina, Filippine, India e
Sri Lanka), dall’America Latina (Perø ed Ecuador in particolare). I cittadini stranieri residenti in
Italia al 1° gennaio 2010 sono 4.235.059 pari al 7,0% del totale dei residenti (a Gennaio 2012 gli
stranieri residenti risultano 4.859.000).”
La quota di stranieri comunitari, nordamericani e argentini, pur permanendo, si è fatta marginale.
Circa la metà dei residenti stranieri (2 milioni 86 mila individui, pari al 49,3% del totale) proviene
dai paesi dell’Est europeo: in particolare, circa un quarto proviene dai Paesi Ue di nuova adesione
(1 milione 71 mila, escludendo Cipro e Malta, 888 mila dalla sola Romania); un altro quarto (1
milione 15 mila) è rappresentato dai cittadini dei paesi est-europei non appartenenti all’Ue.
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I cittadini dei paesi est-europei (+181 mila nel corso del 2009, +9,5%) contribuiscono per circa la
metà anche all’incremento degli stranieri residenti: quelli dei paesi Ue di nuova adesione sono
cresciuti complessivamente di circa 105 mila unità (+10,9%), mentre quelli dei paesi dell’Est
europeo non facenti parte dell’Unione sono aumentati di 76 mila unità (+8,1%). I cittadini dei paesi
asiatici sono complessivamente cresciuti di 71 mila unità, con un incremento relativo del 11,6%.
Oltre il 60% dei cittadini stranieri risiede nelle regioni del Nord, il 25,3% in quelle del Centro e il
restante 13,1% in quelle del Mezzogiorno, anche se nel 2009 la popolazione straniera è cresciuta
piø intensamente nelle regioni del Mezzogiorno rispetto a quelle del Centro-nord.
I minori, figli di immigrati, sono quasi 1 milione, ai quali si aggiungono 5.806 minori non
accompagnati (senza contare i comunitari). Le persone di seconda generazione sono quasi 650 mila,
nate in Italia, ma senza cittadinanza. Gli iscritti a scuola nell’anno scolastico 2010-2011 sono
709.826 (incidenza del 7,9% sulla popolazione studentesca totale, in percentuale ancora piø alta
nelle materne e nelle elementari). Gli universitari stranieri ammontano a 61.777 (3,6% del totale).
Il fenomeno dell’immigrazione non riguarda ovviamente solo il nostro Paese, ma tutta l’UE. L’Istat
ci informa che “quote piø rilevanti di stranieri presenti sul territorio nazionale si riscontrano tuttora
in Germania, Austria, Francia e Belgio. Tuttavia, la svolta imposta dalla “globalizzazione” al
fenomeno dell’emigrazione dai paesi in via di sviluppo ha fatto sì che soprattutto i Paesi del Sud
dell’UE, e segnatamente Italia e Spagna, si siano rapidamente trasformati in mete privilegiate dei
flussi migratori. Tuttavia l’Italia, che non ha avuto una “storia coloniale” rilevante, rimane, in
questo nuovo contesto internazionale, un caso a parte per l’eterogeneità della provenienza dei flussi,
che non può essere attribuita in nessun modo a motivazioni “storiche”. Da questo punto di vista,
l’integrazione degli stranieri nel nostro Paese assume caratteristiche davvero uniche, sia per la
maggiore difficoltà iniziale di questo processo (basti pensare alla lingua che, molto piø che la
religione, si frappone come ostacolo immediato al processo d’integrazione) sia per il piø forte
sentimento di assimilazione che il superamento della difficoltà linguistica iniziale determina nello
straniero. Un Peruviano potrebbe scegliere la Spagna, un Senegalese o un Marocchino la Francia,
un Nigeriano gli Stati Uniti o il Regno Unito. Ma una volta appreso l’Italiano questa conoscenza si
configura come un vero e proprio investimento esistenziale che nella maggior parte dei casi finisce
per legarlo all’Italia con forza maggiore di quanto avverrebbe in paesi nei quali questo investimento
non fosse stato necessario.
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Questo meccanismo agisce fortemente soprattutto sull’integrazione dei figli degli immigrati, i quali
sempre piø spesso imparano un idioma che può essere parlato solo in Italia e non nel paese di
origine dei genitori. E, sempre piø spesso, i figli degli immigrati parlano l’italiano meglio della
madre lingua dei genitori.
Questa circostanza rende probabilmente i figli degli immigrati in Italia in un certo senso piø
“Italiani” di quanto non si sentano Spagnoli i figli degli Ecuadoriani in Spagna, o Francesi i figli dei
Marocchini in Francia. I flussi migratori crescenti, alla base degli ormai numerosi provvedimenti di
regolarizzazione adottati dai Governi nel tempo, hanno determinato il dilatarsi del fenomeno
conseguente della presenza straniera, con tutto quello che ne consegue in termini d’integrazione nel
tessuto sociale, di gestione politico amministrativa del fenomeno, nonchØ di “percezione” del
fenomeno stesso da parte della popolazione italiana” (ISTAT).
A seguito della legge nr. 40 del 1998, nel nostro Paese è stato varato il cosiddetto Decreto Flussi,
un atto normativo con il quale il governo stabilisce ogni anno quanti cittadini stranieri non
comunitari possono entrare in Italia per motivi di lavoro.
Pertanto l’ingresso per motivi di lavoro di stranieri Ø regolamentato dallo Stato che si occupa di
valutare lo stato occupazionale del mercato del lavoro e conseguentemente decidere il numero di
ingresso, prescindendo dalla volontà del datore di lavoro. Il numero degli ingressi viene deciso di
anno in anno e pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale (Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali).
¨ importante sottolineare che il Decreto non mira a regolarizzare la posizione degli stranieri che
risiedono in Italia, poichØ ad oggi, non esiste una procedura che abbia questo obiettivo (rapporto
Save The Children).
Si va così delineando uno scenario complesso e variegato che determina cambiamenti sia di natura
economica e politica, che psico-sociale, tanto per gli immigrati quanto per le società accoglienti.
Comprendere le dinamiche ed i processi psicologici sottostanti al fenomeno migratorio contribuisce
ad aiutare lo sviluppo di politiche di integrazione efficaci e efficienti.