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possibilità di far parte di un sistema moderno che sembra non volersi adeguare
ai cambiamenti socio-economici occorsi negli ultimi anni. La precarietà appare
quindi come uno dei connotati che il lavoro sta assumendo nel corso della terza
grande trasformazione in atto, dopo la Rivoluzione industriale del Regno Unito
fra Settecento e Ottocento, in cui nacque il lavoro salariato, e successivamente
al taylorismo degli Stati Uniti del primo Novecento, che aveva assicurato il
predominio del lavoro industriale
2
.
La portata dei cambiamenti cui stiamo assistendo ha investito non solo il lavoro
industriale e salariato, ma anche quello autonomo; la fine dell’epoca
dell’impiego stabile ha comportato una serie di disagi in prima battuta
economici, ma certamente anche psicologici e sociali, non solo per coloro che
già da tempo fanno parte del mondo del lavoro, ma anche e soprattutto per tutti
quegli studenti e per quei giovani, che sono cresciuti con l’ideale della sicurezza
del posto fisso.
La cosiddetta Riforma del lavoro, ossia la Legge 30/2003, cui poi ha fatto
seguito il d. lgs. 276/2003, introdotta nel tentativo di implementare i posti di
lavoro e nel contempo di far emergere il lavoro “nero”, inizialmente aveva
suscitato grande preoccupazione nel mondo del lavoro per via della sua parola
d’ordine che la caratterizzava, vale a dire flessibilità. Essa però ha avuto effetti
più deludenti che dannosi, in quanto ha dato sì vita ad una nuova occupazione,
creazione in realtà già iniziata con la ripresa economica e rafforzata con il
“pacchetto Treu”, il quale aveva già ampliato modalità flessibili, quali il lavoro
part-time ed a termine, oltre ad introdurre il lavoro interinale, ma nel contempo
ha comportato un’instabilità professionale e personale delle risorse umane al
punto che i nostri nipoti non potranno che ricordarci come i fautori dell’era
della precarietà, epoca in cui la determinazione quantitativa della durata
dell’impiego rappresenta oggigiorno la prima discriminante per definirsi precari
o meno.
2
Accornero A., San Precario lavora per noi. Gli impieghi temporanei in Italia, Rizzoli,
2006.
3
Per questo ed altri motivi ho deciso di impostare il mio lavoro di analisi anche
in virtù della valutazione di quelli che sono stati gli eventi socio-economici
salienti che appartengono sia al passato che al presente, i quali hanno
rappresentato una cornice allo sviluppo della figura del lavoratore nell’ambito
produttivo ed, a cascata, in quello lavorativo e contrattuale. L’intento è stato
quello di comprendere e dare un senso a quelle che sono le attuali dinamiche
che oggi dominano il Mercato del lavoro ed i suoi attori sociali.
Pertanto nel primo capitolo ho affrontato tematiche quali Fordismo e Post-
Fordismo, nel tentativo di ricreare un percorso a ritroso nel mondo del lavoro e
dell’organizzazione economica e produttiva; ciò al fine di comprendere come si
sia giunti fino ai giorni nostri ed al fenomeno della Globalizzazione dei Mercati
che ha coinvolto e “sconvolto” la strutturazione organizzativa di aziende ed
imprese, spingendole talvolta alla recessione, talvolta alla esternalizzazione.
Ho proceduto poi analizzando il concetto di lavoro subordinato e quello di
contrattualità atipica, quest’ultimo introdotto dalla Legge 30 del 2003 e attuato
con il d. lgs 276/2003, che mi ha fornito lo spunto per proseguire con il secondo
capitolo, in cui ho enunciato ed analizzato, nella loro forma e sostanza, quattro
tipologie contrattuali cosiddette flessibili, quali il contratto di inserimento, il
contratto a termine, di somministrazione di lavoro e il part-time, tipologie
queste che è possibile definire come cavalli di battaglia della Riforma del
mercato del lavoro e che per certi aspetti sono diventate, nell’ultimo decennio,
esempio di una crescente instabilità professionale e personale. Tali fattispecie
contrattuali infatti, se da un lato sono state introdotte con l’obiettivo di
incrementare l’occupazione ed avvantaggiare determinate categorie di lavoratori
e disoccupati nel loro inserimento professionale, dall’altro non hanno di certo
sortito l’effetto sperato, ed il riscontro è stato palesemente visibile nella
precarietà lavorativa in cui in molti casi sono sfociate in Italia a livello
contrattuale. Sulla scia di tali osservazioni infine ho proseguito formulando il
terzo capitolo, in cui ho tentato di trarre alcune conclusioni, in primo luogo
prendendo in considerazione alcune ricerche e statistiche ISTAT inerenti ai tassi
4
di occupazione relative al decennio 1995-2005; in secondo luogo iniziando una
riflessione su quelle che sono state le conseguenze relative alla flessibilità
contrattuale ed alla sua successiva degenerazione in precarietà. Così facendo ho
deciso di avvalermi di pareri illustri ed autorevoli come quello di Pietro Ichino,
il quale auspica la realizzazione di un contratto unico per tutti gli atipici, e di
estrapolare articoli ed interviste in cui autorevoli personaggi hanno avuto modo
di esprimere la loro opinione sulle succitate tematiche, oppure di Michele
Tiraboschi e altri ancora, tra cui esponenti di Confindustria e del Governo
previgente. In questo senso ho inoltre ritenuto interessante prendere in
considerazione le opinioni di altri giuslavoristi controcorrente rispetto ai
precedenti, quali Alleva, Roccella e Mariucci, e metterli a confronto proprio con
i pareri dei precedenti, per meglio comprendere le differenti visioni coesistenti
all’interno del mondo giuslavoristico ed avere in questo modo una quadro
generale della situazione.
Ho infine tentato di ricostruire il tipico profilo del lavoratore atipico, arrivando
quindi a considerare quest’ultimo non soltanto da un punto di vista
professionale, ma anche e soprattutto personale, in particolar modo riportando
variegate testimonianze dirette derivanti da alcune indagini sui lavoratori atipici
tratte da San Precario lavora per noi di Accornero. Ciò che emerge da tali
presupposti è un profilo assai vario di un lavoratore e che probabilmente tende a
modificarsi in base anche a quelle che sono le differenti caratteristiche personali
oltre a quelle che sono le varie categorie di lavoratori.
Nel contempo ho seguito le notizie di cronaca estera degli ultimi tempi, che ho
ritenuto interessanti in quanto inerenti alle evoluzioni vissute oggi dal mondo
del lavoro e pertinenti nel contribuire alla mia analisi. Si tratta della proposta
avanzata dal Governo londinese che per correre ai ripari da una recessione
economica sempre più travolgente, ha prospettato l’introduzione della settimana
lavorativa corta, condizione questa che potrebbe coinvolgere e stravolgere i
destini professionali di migliaia di lavoratori.
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Nelle mie conclusioni quindi ho tentato di effettuare un’analisi e la valutazione
di quelle che sono e che saranno le vicissitudini psicologiche, sociali e
professionali, che le risorse umane atipiche oggi come oggi sono chiamate a
fronteggiare, proprio in virtù di una società che è rimasta “tipicamente” uguale a
se stessa anche di fronte ai continui cambiamenti relativi alle dinamiche del
Mercato del lavoro e all’evoluzione del ruolo degli stessi lavoratori.
Capitolo I
I cambiamenti socioeconomici, l’evoluzione del mercato
del lavoro e l’attuale Riforma.
1.1 Le trasformazioni del sistema produttivo ed economico: Fordismo,
Post-Fordismo e Globalizzazione dei Mercati
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Gli ultimi decenni del XXI secolo sono stati oggetto di grandi trasformazioni
sotto molteplici punti di vista, vale a dire culturale, sociale, politico e soprattutto
economico, i quali hanno aperto la strada ad un nuovo ordine caratteristiche del
quale rimangono perlopiù ancora indefinite. Com’è noto, l’epoca in cui stiamo
transitando è stata chiamata l’era della Globalizzazione dei mercati, definizione
che giornalmente riempie libri e telegiornali nel tentativo di dare un senso e
spiegare in che cosa essa consista nell’ambito di una società postmoderna.
Da http://notimaz.blog.kataweb.it/2006/08/27/
Cosa comporta esattamente per i mercati internazionali, e non, vivere nell’età
della Globalità? Centrale è nella definizione della società postmoderna il suo
nuovo modello economico, e in particolare il nuovo modello produttivo, che a
partire dagli anni ‘70 ha progressivamente sostituito il modello fordista,
dominante nel periodo che va dal 1945 al 1970, e che viene pertanto definito
come post-fordista. Per meglio comprendere come l’attuale società sia giunta
fino all’odierna trasformazione è bene fare un passo indietro ed esaminare i
cambiamenti economici avvenuti alla luce dei passati modelli produttivi e che
7
hanno caratterizzato lo sviluppo industriale, vale a dire fenomeni come il
Fordismo ed il Post-Fordismo.
Questi ultimi possono essere definiti come stadi del capitalismo
contemporaneo
3
, caratterizzati, il primo, dalla diffusione del sistema di fabbrica
e del consumo di massa, il secondo, dal loro parziale superamento.
Con il termine Fordismo quindi ci si riferisce all'insieme delle teorie
sull'organizzazione della produzione industriale elaborate da Ford e da Taylor,
che nasce come risposta ai limiti della tecnologia e dell'economia del
capitalismo, che ne avevano frenato lo sviluppo date le delimitate potenzialità
dell’automazione del secolo XIX.
I metodi produttivi fordisti furono applicati quindi per la prima volta nel 1913
dalla società automobilistica creata a Detroit da Henry Ford (1863 - 1947), il
quale si ispirò alle teorie proposte dal connazionale Frederick Taylor (1856 -
1915), e si diffusero poi rapidamente nell'ambito dell'industria manifatturiera, al
punto da rivoluzionare notevolmente l'organizzazione della produzione a livello
globale e diventare uno dei pilastri fondamentali dell'economia del XX secolo,
esercitando così rilevanti influenze sulla società. L'aspetto principale del
metodo fordista, che evolverà poi in un vero e proprio modello economico, era
rappresentato dall'idea della possibilità di una crescita illimitata, sia della
quantità di merce prodotta, sia degli insediamenti produttivi, delle fabbriche, sul
territorio. Caratteristico dell’epoca sarà, infatti, il gigantismo degli impianti
industriali, tant’è vero che spesso l’agglomerato urbano divenne una sorta di
prolungamento stesso della fabbrica: nacquero le “one company towns”, vale a
dire delle città gravitanti intorno alla fabbrica più importante, dalla quale
dipendeva interamente la maggior parte della popolazione.
Questa certezza quasi assoluta della crescita progressiva e inarrestabile
rappresenterà per quasi un secolo la condizione essenziale di tale modello.
3
Le considerazioni che seguono, nel corso del paragrafo 1.1, sono state rielaborate in virtù
dell’autorevole parere di Revelli M., Oltre il Novecento. La politica, le ideologie e le insidie
del lavoro, Einaudi, Torino, 2001, e di Touraine A., L'evoluzione del lavoro operaio alla
Renault Rosemberg & Sellier, Milano, 1974.
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Emblematico fu in tal caso il ruolo dei lavoratori: essi vennero ridotti a meri
esecutori di gesti ripetitivi e rapidi tipici della produzione in serie, in quanto la
parcellizzazione delle mansioni e la catena di montaggio non permetteva loro di
capire quale fosse l’effettiva fase della produzione in cui fossero impegnati,
rendendoli così servitori della macchina piuttosto che suoi utilizzatori.
Data la mole della produzione venne introdotto il cottimo differenziale che
consisteva in un sistema retributivo calcolato e diversificato in base alla quantità
del lavoro svolto. Se di certo ciò contribuì a migliorare i salari ed il tenore di
vita degli operai, al tempo stesso condusse ad accelerare ulteriormente i ritmi di
lavoro e talvolta a creare un ambiente di esasperata competizione tra i lavoratori
stessi. In questo senso la razionalizzazione produttiva ebbe tra le varie
conseguenze un notevole aumento della quantità di beni prodotti e la
diminuzione del loro prezzo, aspetto che contribuì alla creazione di nuove
condizioni di mercato: dalla produzione di massa si passò pertanto al consumo
di massa, che portò la società ad omologarsi nei gusti e nelle scelte. L’industria
continuò la sua travolgente espansione ed il potere d’acquisto delle masse
popolari venne aumentato attraverso l’incremento dei salari che trasformava
così i lavoratori da produttori a consumatori della loro stessa merce. Nella
filosofia del Fordismo è la produzione stessa che produce il mercato, ossia la
fabbrica produce ciò che si “deve” comperare, genera i consumi, e con i
consumi le mode, i costumi, le abitudini, i modi di vivere e di pensare, e con
essi le culture. Come diceva Ford, “tutto ciò che si produce si vende”.
Il Fordismo afferma quindi il primato della fabbrica sul mercato, dell'offerta
sulla domanda: le fabbriche non producono quello che i consumatori desiderano
comperare, ma i consumatori comprano quello che le fabbriche decidono di
produrre. Si può pertanto affermare che sia la fabbrica a produrre la società.
Il Fordismo però portava con sé i germi della propria distruzione.
L'intensificazione del lavoro e l'alienazione dei lavoratori condusse a rare forme
di resistenza e prive di coordinamento, ma comunque in grado di condizionare
un sistema produttivo reso vulnerabile dall'elevato livello di automazione e di
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complessità. L' ingente volume di capitale investito negli impianti considerava
sempre più penalizzanti gli eventuali scioperi operai ed i cali di produttività,
abbassando in modo considerevole il profitto. Verso la fine degli anni ‘60 il
Fordismo entrò in crisi: i suoi presupposti vennero messi in discussione dal
crescente antagonismo delle parti sociali, proprio mentre l'impegno a mantenere
la piena occupazione ed i costi sempre più alti dello stato sociale creavano forti
tensioni a livello di governo. Ciò indusse molti osservatori a sostenere che fu in
questo frangente che si verificò il passaggio verso un sistema Post-fordista di
produzione e di relazioni sociali.
A partire dagli anni ‘70, a seguito anche dei due choc petroliferi che ebbero
come conseguenza la quadruplicazione del prezzo del greggio e l’entrata
effettiva della società nell’epoca post-industriale, iniziò a farsi largo un nuovo
modello produttivo che progressivamente sostituì il modello Fordista dominante
dal 1945, basato sulla produzione di beni standardizzati e sul consumo di massa,
con un nuovo modello di riferimento, definito Post-Fordismo appunto, che
privilegiava a tutti i livelli forme di organizzazione più flessibili.
Non è facile dare una definizione del fenomeno del Post-Fordismo a causa del
suo carattere polimorfo ed inoltre per l’assenza di un modello economico che
possa essere considerato in esso prevalente. Nella società postindustriale il
concetto di fabbrica non è più così centrale come nel periodo Fordista, tant’è
vero che attualmente il valore aggiunto dell’industria è basso e che se in passato
i paesi in via di sviluppo erano quelli agricoli, oggi lo sono invece quelli
industriali. La letteratura socioeconomica arriva a dare una definizione di
Fordismo e Post-Fordismo non semplicemente considerandoli come dei tipi di
organizzazione industriale, ma piuttosto come dei paradigmi di un sistema
economico globale. Gramsci affermava, nei suoi Quaderni dal carcere
4
, che il
Fordismo aveva aperto una nuova epoca nella storia del capitalismo, plasmando
4
Raccolta degli appunti, dei testi e delle note che Antonio Gramsci ebbe la possibilità di
scrivere a partire dal febbraio del 1929 e fino al 1935, durante la sua prigionia nelle carceri
fasciste.
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con i suoi effetti non solo l’organizzazione di fabbrica, ma il complesso della
società arrivando a creare un “nuovo tipo di lavoratore e di uomo”.
Sia Fordismo che Post-Fordismo rappresentano dei modelli ideali e regolativi
che hanno la funzione di bussole nella complessità della realtà socioeconomica,
e non solo. Nel contempo si deve tenere in considerazione il fatto che essi
rappresentino due modelli economici che in un certo senso sono asimmetrici: il
primo appartiene al passato quindi è analizzabile e definito, mentre il secondo
designa ciò che succede al Fordismo e che perciò è ancora in transizione.
Pertanto il nome post-fordista ci informa soltanto del fatto che il Fordismo è
stato superato, ma non fornisce indicazioni, in quanto il nuovo modello è
flessibile e si adatta di volta in volta assumendo le forme che più si addicono
alla situazione che si presenta: l’assenza di un modello fa parte del modello
stesso. Alla luce di quanto appena affermato, è possibile quindi sostenere che il
nuovo modello è in continua evoluzione: si tratta di una fase di incessante
transizione sociale, economica, culturale e politica, caratterizzata da contorni
che ancora devono essere definiti con chiarezza.
Analizzando le attuali trasformazioni del capitalismo, in particolar modo il
suddetto passaggio dal paradigma Fordista a quello Post-Fordista, non si può
prescindere dall’inclusione di un’analisi relativa al fenomeno della
Globalizzazione, o del mercato mondiale unico, e dalle molteplici implicazioni
che da esso derivano e che investono tutti gli aspetti dell'esperienza umana in
tutte le sue differenti sfaccettature. Se da un lato il processo globale, infatti, è
caratterizzato da tendenze contrapposte che spingono verso una
omogeneizzazione economica, sociale, politica e culturale, dall’altro è composta
da forze che esaltano la dimensione locale e le radici comunitarie, talora in
contrapposizione alla massificazione imposta dalla mondializzazione e dai paesi
che ne sono leader, e talora in funzione dell’espansione della stessa
Globalizzazione. Questa complessa rete di interessi appare ancor più complicata
se si prende atto del fatto che, al posto della presunta e bramata uniformità
economica, si sia verificato invece un preoccupante aumento del divario fra i