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INTRODUZIONE
Di Giovanni Comisso (Treviso 1895 ‐1969) si parla poco. Figlio della buona borghesia trevigiana,
giovane ribelle, uomo errabondo, reporter avventuroso, rozzo artigiano della parola, era amato
dai critici, specialmente da Montale per la sua carica di vitalità e di umanità, perché il mondo di
Comisso era tutta una meraviglia visiva. Le pagine dei suoi racconti, dei suoi romanzi e dei suoi
articoli giornalistici parlano della vita, senza l’abuso di filtri o calcoli.
Il suo percorso letterario inizia da suggestioni dannunziane (di vita e non di letteratura), oltrepassa
il primo dopoguerra col viaggio, poi la smania dei viaggi si evolve nella stabilità del ritorno alla
terra veneta e al possesso di una casa come affermazione e stabilità d’affetti, fino a concludere
questo viaggio letterario nel dramma della solitudine. Un percorso letterario che è allo stesso
tempo un percorso di vita, poiché vita e arte in lui si sovrappongono e coincidono. Comisso resta
infatti inquadrato dentro un nativo individualismo e un profondo autobiografismo che lo tengono
e mantengono lontano dalla letteratura in voga. E, lontana da voci monocordi e seriali, la sua
rimane genuina e sempre rivolta al naturale piuttosto che all’intellettualismo impersonale.
La mia casa di campagna diventa nella vita personale e letteraria dello scrittore un punto chiave.
Da molti critici e lettori considerato il suo romanzo più riuscito, grazie all’aderenza tra vita vissuta
e dato autobiografico, narra la vita dello scrittore giramondo in rapporto alla natura, costituita sia
da paesaggio che da uomini, e l’evoluzione della personalità e dell’esistenza di questo scrittore
mentre dipinge storie e racconti della campagna. Poco incline alla correttezza formale, la riuscita
della scrittura comissiana è la sua forza visionaria e la capacità di trasfigurare con l’arte pittorica
della parola ogni attimo della vita, colta nella più usuale quotidianità: Comisso cattura con la
parola lo spettacolo del mondo e lo converte in immagine iconografica. Con il suo stile di pittore
della natura e dell’anima prende così vita quello che viene definito lo stile Comisso.
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Giovanni Comisso, Il folle avventuriero ‐ Autoritratto inedito
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I.COMISSO SCRITTORE
Natura lo faceva poeta
Gli uomini lo vollero avvocato
Se l’arte piange
Giustizia non ride
(dal "Papiro" di laurea di Giovanni Comisso)
«È stato uno degli scrittori italiani più “naturali” di questo secolo, anche se considerava la scrittura
un’attività specialistica, un compito difficile e un privilegio eccezionale, quasi sacro»
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, ricorda Luigi
Meneghello dell’amico Comisso, descrivendolo ai lettori anglosassoni non esperti di letteratura
italiana. E per Giovanni Comisso questa fu davvero un’attività specialistica e privilegiata. E fu
un’attività che visse a suo modo.
La sua lunga produzione non presenta influenze letterarie precise: non è il tipico letterato
scolastico, non è un nuovo letterato di tendenza, non partecipa ai recenti movimenti e non è
legato agli ideali di alcuna rivista. Cresce negli anni di Benedetto Croce, nel periodo di riviste di
cultura come «La Voce» di Prezzolini, d’arte e di letteratura come «La Voce» di De Robertis e
«Lacerba» di Soffici e Papini, e poi del neoclassicismo de «La Ronda» di Cardarelli e delle nuove
esperienze artistiche di «Novecento» di Bontempelli e di «Solaria» di Carocci. Sono gli anni di
scrittori come Slataper, Serra, Boine, Jahier. E in questo vivacissimo clima Comisso è scrittore
libero e autonomo, suggestionato più dagli uomini che dai letterati: la comune considerazione del
dannunzianesimo di Comisso (definizione assolutamente impropria come esempio letterario
seguito dal giovane scrittore di Treviso) deve essere individuata nell’edonismo, nella sensualità
panica, nello spirito di avventura dell’uomo Gabriele D’Annunzio (come scrittore lo sente sempre
molto lontano dal suo stile, il giovane Comisso aveva un vero rifiuto per tutto ciò che aveva invece
reso grandissimo come letterato D’Annunzio). La sostanziale differenza tra i due scrittori è che
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mentre l’uno è letteratissimo, l’altro è illetterato. O meglio: D’Annunzio è sempre disposto a
vedere la realtà attraverso lo schema della bella e architettonica letteratura, Comisso invece
propenso a trascurare ogni tradizione e a cercare la bellezza attraverso soluzioni personali, in
alcuni casi grezze ed in altri ingenue, ma dirette, sempre dialettali e soprattutto vissute. Quindi in
Comisso c’è dannunzianesimo di vita ma non di letteratura.
Si distingue dagli altri scrittori del suo tempo, che legavano le loro opere alla critica. Per questo
Comisso non è mai riuscito a diventare uno scrittore d’eccezione, e resta non circoscrivibile in
nessuna categoria e fuori da ogni scuola, insomma un outsider. Non è uno scrittore ideologico, né
problematico, né rappresenta una determinata situazione sociale. Non riconosceva maestri in
grado di suggestionarlo, mentre influente era il dialogo en artistes coi suoi amici, primi fra tutti
Arturo Martini e Filippo De Pisis. La sua formazione non era avvenuta sui libri, ma all’aria aperta
(Pancrazi lo definirà autore non da scrittoio, ma da vela). E, come notava Contini, tutto questo era
favorito dalla dislocazione appartata del Veneto agli inizi del ‘900, che favoriva e preservava la
bizzarra creatività del giovane Comisso.
Xilografia di Comisso di Arturo Martini, 1916
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Comisso ha fatto perciò storia a sé, sollecitando tuttavia il mutare dei tempi: proprio perché
estraneo ai circuiti letterari e alle battaglie culturali, è riuscito a compiere una sua personale
rivoluzione.
Nel 1938 Pancrazi segnala sul «Corriere della sera» «una famiglia di scrittori che opera sulla prosa
come nessuno aveva fatto… scrittori come Palazzeschi, e poi Comisso, Alvaro, Moravia, che senza
manifesti, senza chiassi, hanno fatto rivoluzione».
Nel 1971 Carlo Bo ne «L’osservatore» lo ricorda:
Comisso non ha avuto genitori, potremmo dire con maggiore esattezza che non ha origini e proprio
per questo è rimasto fuori della storia letteraria codificata. Non è stato dannunziano e non serve
neppure prenderlo nello scaffale della prosa d’arte.
Ciononostante la vicenda letteraria comissiana è dotata di un raro valore di libertà e ricchezza
interiore che, essendo prova di un grande impegno sotto il profilo umano, conduce lo scrittore
nello spirito novecentesco.
Giorgio De Chirico‐“Il lione Comisso” 1930
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Comisso si estranea dalle avanguardie e dagli sperimentalismi del Novecento, contro tutte le
poetiche della disperazione e della rivolta, mentre abbraccia un’arte nuova, moderna ma
contemplativa, nutrita dalla natura, madre equilibrata e privilegiata nell’introspezione personale.
Per questo Comisso è uno scrittore naturale: l’uomo si riconosce e rientra nella natura,
partecipando completamente al suo ciclo e seguendone la sua vicenda: uomo e natura si
compenetrano, vivono l’uno accanto all’altra fino alla fine. E questa adesione alla legge naturale,
una legge del resto del tutto ineluttabile, è descritta da Comisso come una realtà consueta, nella
quale chiunque può riconoscersi. E tutto quello che è estraneo alla natura resta estraneo anche al
Comisso scrittore perché avvertito come momento che ha un gusto di falsificazione della realtà.
Ecco allora che tutto questo riporta alla sua innata indifferenza ad ogni ideologia, perché dietro ad
ogni presa di posizione sa cogliere la motivazione umana che ne è causa scatenante (un esempio è
fornito dall’argomento religioso nel quale Dio, anzi dio, è giudicato da Comisso attraverso la
dimensione umana).
È affascinato dalla materia della vita, dove non c’è un ordine codificato.
Ed è per questa naturalità che i personaggi dei suoi romanzi sono modellati sui marinai di Chioggia
e sui contadini di Zero Branco: queste due realtà, una di mare e l’altra di terra, anche se
geograficamente distinte l’una rispetto all’altra, parlano lo stesso linguaggio, che è quello del loro
narratore. Come rileva il cosmopolita Ruggero Jacobbi:
Giovanni Comisso è lo scrittore più nativamente dotato di tutto il secolo, se intendiamo per dote
nativa una lettura immediata del mondo, uno svelto cogliere il senso d’un viluppo di cose in un
minimo, non calcolato ma istintivo, di parole.
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Tuttavia, per comprendere fino in fondo la produzione comissiana, difficile da affrontare se
pensata attraverso canoni ottocento e pertanto inadatti a rendere ragione della sua vocazione
lirico ‐autobiografica, bisogna adottare un ordine particolare, disponendo la sua produzione non
tanto in base alla data di pubblicazione dei suoi testi quanto piuttosto in rapporto alla cronologia
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dei fatti narrati. Pullini ritiene possa essere produttivo questo procedimento sia per la natura
chiaramente autobiografica della produzione comissiana sia perché il vero motore dello stile dello
scrittore è «il clima del tempo vissuto» e non quello della scrittura. Così egli articola in tre
momenti la parabola esistenziale e letteraria di questo artista:
1.prove giovanili: nasce la vocazione narrativa come bisogno di recuperare una stagione ormai
passata (e quindi si incontrano Giorni di guerra, Il porto dell’amore, Il delitto di Fausto Diamante,
Gente di mare). In questa fase l’identificazione di Comisso col tono dei fatti descritti (che in realtà
sono le sue esperienze personali, perché la sua scrittura è essenzialmente autobiografica) è tale
che, quand’anche Comisso rivive sulla pagina a distanza di qualche anno un’esperienza fatta,
tende a trasferirsi emotivamente in quel momento passato: tende a scordare il presente (il
momento in cui sta scrivendo) per annullarsi in quello passato e riportarlo nell’attualità dell’oggi,
fino a dissolvere la prospettiva del tempo, a trasformare la successione dei momenti in un eterno
presente. Inoltre per il giovane Comisso l’ieri è spesso oggi: la mancanza di filtro letterario, il suo
darsi immediatamente alla scrittura lo aiutano nell’identificazione, nella rievocazione dei ricordi
e dei temi da trattare. E saranno questi ricordi a dare a Comisso il suo tono stilistico;
Comisso nel 1915
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2.vagabondaggio per l’Europa, l’Oriente e l’Italia: c’è in questo secondo momento un’evoluzione,
caratterizzata dall’emergere di una nota di malinconia, di un senso di crisi (così sarà in Questa è
Parigi, Cina ‐Giappone, Amori d’Oriente, L’italiano errante per l’Italia, tutti reportages giornalistici
di quel periodo che verranno in questi anni riordinati in volumi). Ma a far maturare davvero lo
scrittore sarà Gioco d’infanzia: attraverso questo racconto lungo Comisso prende coscienza di
non potersi liberare della sua infanzia insuperabile e proprio da qui scaturisce la sua
maturazione, da questa coscienza. Su questa strada nasceranno Storia di un patrimonio,
Avventure terrene, Un gatto attraversa la strada e I due compagni;
Comisso coi marinai di Chioggia nel 1928
3.stagione matura delle passioni: è segnata dalla ricerca di un affetto duraturo e di un punto di
riferimento stabile (individuato nella casa e nella campagna veneta). Ma il desiderio di un
rapporto affettivo intenso sarà frustrato da drammatiche esperienze. Testimoni di questo
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progredire della maturità in Comisso sono Un inganno d’amore, Capriccio e illusione e Gioventù
che muore.
E questo terzo momento sfocia ne Le mie stagioni: da ora la vita e conseguentemente le opere di
Comisso si fanno spettatrici della realtà, ancora osservata, ma con un’attenzione discreta, talora
persino indifferente o ostile. Parallelamente muta anche il tono della rievocazione del passato,
rintracciato in testi come Mio sodalizio con de Pisis e La mia casa di campagna: adesso si assiste ad
un rovesciamento del rapporto tra momento rivissuto e momento del ricordo, poiché è il
momento della scrittura che riassorbe quello rievocato. Nei testi posteriori all’abbandono della
campagna Comisso diventa particolarmente moralista, con una prosa risentita, come accade in
Capricci italiani e Satire italiane: permane in lui lo stato d’animo dell’ulisside, al quale la nostalgia
provocata dai ricordi, accompagnata dalla caducità della vita per la costante presenza del pensiero
della morte, condiziona gli intensi piaceri cui era stato abituato da giovane, ma che col trascorrere
del tempo sono stati condizionati dagli eventi della vita stessa.
Comisso nella sua casa ai Buranelli
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1.1 Comisso scrittore veneto
Il Veneto risulta per Comisso una regione dell’estetica, una “nuova Attica” (come dice lui stesso in
«Viaggi felici»). La sua sostanza è veneta, ma le radici intime della sua anima di scrittore trovano
fondamento ed energia in una «Grecia mentale» dove egli stesso dice di aver abitato dall’infanzia,
sentendosi in mezzo ai paesaggi veneti esattamente come un «greco ritornante». Tutto questo
porta alla mente Carlo Goldoni per un sottofondo comune di autonomia nell’equilibrio di una
veneta naturalezza, regalata (come dice Claudio Varese in un articolo nella Nuova Antologia del
settembre 1951) alla pagina dalla descrizione di scene colorate e locali e da un personaggio
conduttore del racconto pieno di vita, che vive nel racconto della sua terra e ne è voce, proprio
come succede in Goldoni. E lo stesso scrittore il 10 aprile 1962 in un’intervista a Giulia Massari del
Mondo disse:
Forse la mia stessa natura teatrale veneta mi aiuta a vedere le cose in un certo modo e poi a
scriverle; a improvvisare, come nella commedia dell’arte, su una minuscola traccia.
Da questa autonomia discende la genuinità di Comisso e, al tempo stesso, il suo limite: il suo
rifiuto di ogni compiacimento intellettualistico e di ogni eccesso proprio delle avanguardie
organizzate, unitamente all’isolamento della sua voce, così Piovene su Comisso in una querelle
sulla veneticità di questo scrittore:
In nessuno scrittore d’oggi, e forse anche in passato, il Veneto è, come in Comisso, realtà di
partenza, esistenza. Il venetismo (…) è in lui (…) come un fatto di natura, di paesaggio esterno ed
interiore rappresentazione. Comisso ha dentro di sé gli assilli del Veneto come li ha il Veneto, che
tende a evaderne in belle forme, armonie di colore; li contiene visceralmente, non ne fa oggetto di
discorso intellettuale
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Ma sono soprattutto le parole di Valeri che meglio rappresentano il rapporto di Comisso col suo
Veneto:
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Egli fu in ogni momento e contingenza della sua vita turbolenta un puro veneto ‐euganeo; più
precisamente un euganeo della Marca trivigiana. Viaggiò, per gusto e per bisogno di movimento e
di avventura, in lontanissime terre d’Africa e d’Asia, spingendosi fino in Cina e in Giappone; ma il
suo cuore restava sempre lì, nell’intricato labirinto di vicoli e di canali della sua Treviso; lì, ai piedi
del Montello e dei Colli Asolani, sulle sponde dei fiumi erranti per la grande pianura che dichina al
mare, sulle spiagge ventose di Chioggia e di Càorle. Era inquieto, un avido di cose nuove e diverse,
un ansioso di fughe e di volontari esili, ma pure, e al tempo stesso, un contemplativo, un radicato
nella sua terra, un cittadino (tra di città e di contado) della Marca “gioiosa”
4
.
E la rappresentazione del suo Veneto viene fatta secondo una coscienza atemporale, fuori della
storia: ne segue il flusso senza contrastarlo, ha il gusto del comprenderlo raccontandolo. La sua
scrittura aderisce all’elemento naturale astorico: non ci sono affanni in lui, non ci sono indagini
psicologiche, c’è solamente l’elemento naturale in perfetta armonia con l’elemento umano.
L’occhio sul Veneto di Comisso si avvicina agli altri scrittori veneti verso una religiosità ancestrale,
che non influisce sull’etica individuale, e verso un misurato realismo.
Forse vi è in me ancora di quell’istinto che doveva dominare le razze dominatrici, istinto che era
sete di paesaggi nuovi e meravigliosi, prima ancora di essere istinto di preda e di conquista
5
.
Il lato veneto di Comisso si presenta come una necessità per trovare il filo d’Arianna nel labirinto
della sua personalità: bisogna scavare dentro di lui per capire che nonostante la voglia di libertà,
nonostante i lunghi viaggi, nonostante la continua ricerca di un luogo nuovo e florido di
sconosciute civiltà, Comisso è legato saldamente alla terra che lo ha fatto nascere, che lo ha
cresciuto, che lo ha fortificato e che, dopo avergli donato l’amore sfrenato per l’avventura e uno
spirito libero e sognante, lo riporta sempre da lei. Perché tra l’uomo e la terra c’è sempre un
dialogo e non alienazione: il paesaggio veneto è l’altro in cui identificarsi perché l’uomo ha origine
da esso e ad esso ritorna. E nelle sue pagine si incontra il Veneto più genuino: un Veneto fatto da
sapori antichi, perché la terra non dimentica nulla, trattiene, rimane naturale, e la storicità si
insinua senza una motivazione. In Comisso si riflette il Veneto più antico e insieme più avventuroso
e solido. Il suo veneto non è mai astratta illusione ma realtà veridica.
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Comisso procede rapsodicamente per illuminazioni, intuizioni impreviste. Sono i sensi a dirigerlo,
ad indirizzarlo verso la sostanza delle cose, dei luoghi e delle persone. Il mondo, composto da
realtà da esplorare, è una causa copiosa di avvenimenti, da osservare, da investigare, da capire e
da verificare. Non rincorre nemmeno l’insolito e il suggestivo. Ama invece scoprire l’Italia arcaica
e poco conosciuta, quell’Italia che vive secondo i ritmi del tempo naturale e di una religiosità
primitiva a armoniosa, sulla quale gli eventi storici cadono come lacerazioni incomprensibili,
cercando ciò che nessuno conosce, o vuol conoscere. E se pensiamo ad uno stile arcaico tutto
torna: il suo amoralismo, il suo vitalismo, le strutture paratattiche del discorso, l’assenza di analisi
psicologica, l’imparziale pietas verso tutti gli esseri viventi (paesaggi, persone, animali, piante),
l’assenza del senso del tempo storico, il sentimento del divino che tutto pervade, di un Dio che
osserva e non giudica, ma provvede e «interviene sempre per il meglio con infinita generosità», la
presenza della τύχη arcaica, la comprensione profonda, in pagine di grande bellezza, della forza
immensa della sensualità feconda e della maternità e insieme l’esaltazione della irripetibile
bellezza dei κούροι e del libero gioco delle eterie maschili. Cerca l’eternità della bellezza in dettagli
di poco conto, anticipando Pasolini.
Ha una sua filosofia che è quella dei proverbi, della saggezza atavica, dell’umanesimo provinciale.
Perché Comisso non vuole riscrivere il mondo: gli piace raccontarlo così com’è.
Comisso inviato della “Gazzetta del popolo”
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1.2 Comisso scrittore di paesaggi
Io vivo di paesaggio, riconosco in esso la fonte del mio sangue. Penetra per i miei occhi e mi
incrementa di forza. Forse la ragione dei miei viaggi per il mondo non è stata altro che una ricerca
di paesaggi, i quali funzionavano come potenti richiami
6
.
Uno scrittore veneto che nasce, come scrive Piovene,«nella parte più dolce, e quasi più greca, del
Veneto» dove «il venetismo del paesaggio raggiunge un massimo di equilibrio e di grazia, si
uniforma fin troppo a un modello ideale per un eccesso d’arte»
7
. E Comisso nasce in mezzo a
questo equilibrio tra paesaggio e arte.
Il paesaggio è insito in Comisso: lo ha impresso nella sua mente, e la frenesia dell’avventura lo
conduce alla ricerca di nuovi paesaggi (paesaggi costituiti da territori, ma in lui anche da persone),
finché scoprirà che «tutto il mondo può consistere in un metro quadrato»
8
.
È il pagus quello descritto da Comisso, è cioè quel termine animato dal pak indoeuropeo: è la terra
coltivata, quella terra sulla quale non è stato prodotto nulla, c’è unicamente la presenza della
natura incontaminata, sulla quale opera allora la contaminazione del paysan, del paesano,
fondatore del pay, del paese, e questo paesano è scrittore pagano di una religione dei padri. Da
questa ricerca originaria, primordiale, primitiva, muove la visione di Comisso: il paesaggio è la
terra che si trasforma dal momento che parte ineliminabile del territorio è la presenza umana,
perché per Comisso «l’uomo si forma e cresce in rapporto al paesaggio: è uno specchio del
paesaggio»
9
. E nella descrizione dello scrittore trevigiano l’uomo è parte inderogabile della natura.
Da questo concetto basilare parte la visione globale del paesaggio comissiano, un paesaggio che è
animato da uomini che producono realtà da contemplare, e da descrivere.
Ma è una terra insolita quella veneta, fatta di timidi rapporti umani ed ipocrite abitudini, permeata
di tradizioni piccolo ‐borghesi e credenze popolari. Eppure il territorio che ci dipinge Comisso è un
territorio puro: mostra queste ipocrisie nate da un imborghesimento bacchettone, ma le picchietta
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sulla tela della sua pagina, come un’immagine impressionista da immortalare, con quel famoso
non finito, perché la finitezza sta nella sua visione incontaminata del paesaggio, quasi una visione
che ritorna agli albori, quando ancora quelle superstizioni non esistevano perché abitanti un luogo
incorrotto.
Persino la materia religiosa viene scandagliata dall’occhio di Comisso secondo quella legge di
natura per cui lo stesso Dio degli altri borghesi diventa per Comisso un dio che è giusto e ingiusto,
che interviene come natura stabilisce. Un dio universale, come universale è la natura che gli ha
donato la vita, che ha incontrato nei suoi viaggi, che ritrova nuovamente nel suo felice Veneto.
1.3 Comisso pittore
Il Comisso è pittore, quando descrive un luogo ci pare di vederlo. Questa potenza descrittiva è però
quasi sempre accompagnata con il senso d’una vaga sete di intentato, che prende l’autore e che è
propria del lirico.
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Così lo descrive l’amico De Pisis, che assieme ad Arturo Martini costituisce una delle personalità
più influenti sulla vita dello scrittore trevigiano. La penna in mano a Comisso funge da pennello:
ciò che il suo cristallino attento osserva riesce a trasporlo sulla pagina bianca in un rimando
continuo di circolarità tra la natura e la pagina scritta. È il perfetto esempio di quanto descritto da
Apollinaire in Rotsoge: il poeta francese dedica questa poesia dei Calligrammes a Marc Chagall e
trae ispirazione dal pittore russo perché come Chagall usa accostamenti di colori così Apollinaire
usa accostamenti fonici per riprendere proprio il pittore dando vita ad una creazione poetica di un
movimento visivo. Come la scrittura di Comisso che attraverso la sua prosa poetica crea,
associando luci e colori, dei dipinti cartacei.
Comisso è, come lo descrive l’amico De Pisis, pittore, perché in lui vivono le qualità dell’artista.