2
Introduzione:
I "graffiti", termine originariamente spregiativo usato per identificare un movimento
che preferisce definirsi "aerosol art" o "writing"
1
, nascono a Philadelphia nella
seconda metà degli anni ’60 per stabilirsi ed evolversi in seguito a New York
2
, dove
conosceranno il loro autentico sviluppo. Ancora oggi, nonostante siano passati ormai
più di 40 anni da quando Super Kool 223 dipinse nel 1972 il primo vero pezzo nella
subway di New York
3
, vedere una di queste eterogenee composizioni di colori e
lettere più o meno esasperate difficilmente lascia indifferenti, così come non ha
accennato ad affievolirsi il forte dibattito tra chi si ritiene a favore di una libera e
creativa espressione di strada e chi si ritiene contrario ad un insensato atto di
vandalismo. Nemmeno la sempre più stringente repressione legislativa e delle forze
dell'ordine è riuscita a fermare un fenomeno che nel suo animo è tanto metropolitano
e contemporaneo quanto arcaico e profondamente ancestrale, capace di comunicare
su tanti livelli differenti.
Voglio chiarire subito che non mi occuperò in questa sede di quella che è stata la
storia dei graffiti: sarebbe infatti impossibile pretendere di riuscire in un lavoro tanto
ambizioso quanto già ampiamente trattato. Quello che mi ripropongo di fare è di
circoscrivere in questa storia quello che fu il contatto che avvenne tra il mondo
dell'arte ufficiale e la realtà urbana del writing. Questa tendenza coinvolse presto sia
gli intellettuali ed i galleristi di New York, sia quelli che da tutto il mondo (in
particolar modo dall' Europa) tornavano dai loro soggiorni newyorkesi con gli occhi e
i rullini delle macchine fotografiche ancora pieni di ciò che era allora una novità
assoluta e circoscritta alla metropoli americana. L'aver scoperto, con mia grande
sorpresa, che la prima esposizione internazionale dedicata al movimento ebbe luogo
qui in Italia, alla Galleria “La Medusa” di Roma nel dicembre 1979, dovrebbe fornire
uno stimolo alla riflessione su che cos'è il writing e qual'è il suo rapporto con il
sistema dell'arte. Ripercorrere la mostra “Arte di Frontiera”, che ebbe luogo a
Bologna nel 1984, significa ripercorrere quello che fu senza dubbio l'evento più
importante e meglio organizzato nel nostro paese, in un periodo in cui il fenomeno
non era ancora maturato, ma durante il quale vennero piantati i semi di quello che si
svilupperà in seguito. Nelle conclusioni verranno considerati i lasciti di questa
contaminazione avvenuta oltre trent'anni fa, prendendo in esame l'evento “Frontier”,
organizzato a Bologna tra il 2012 e il 2013 con l’esplicito intento di celebrare la
seminale mostra dell'‘84.
1
Stampa Alternativa, IGTimes, Style: Writing From The Underground, Nuovi Equilibri, Viterbo, 1996, pp. 6-7
2
Caputo Andrea, All City Writers, Kitchen93, Bagnolet 2009, pp. 1
3
Stampa Alternativa, IGTimes, Style: Writing From The Underground, Nuovi Equilibri, Viterbo, 1996, pp. 39-41
3
Dalla Subway alle Gallerie
Nel 1971 per la prima volta il writing suscita un forte interesse mediatico: un giovane
fattorino greco di nome Demetrius durante i suoi turni di lavoro segna qualsiasi
superficie con la sua firma a pennarello, TAKI 183. Taki non è il primo (il primo,
tralasciando i primissimi writer di Philadelphia come Cornbread e Cool Earl, è Julio
204) ma decide di scrivere il più possibile e dappertutto, tanto da diventare famoso
4
e
farsi intervistare dal quotidiano “New York Times”, nell’articolo “”Taki 183”
spawns pen pals”
5
. L’eco della notizia si sparge e molti ragazzi iniziano ad imitarlo. I
due anni successivi conoscono un vero e proprio boom del writing, con una costante
evoluzione: dalle semplici tag fatte a pennarello si passa ai pezzi veri e propri e
nascono i primi, fondamentali, archetipi stilistici. Si stabilisce inoltre la pratica di
dipingere sulle carrozze della subway, i supporti ideali per far conoscere il proprio
nome in tutta la città. La diffusione del fenomeno è ormai fuori controllo: durante
l’agosto 1972 l’allora sindaco di New York, John Lindsay, è costretto a prendere
posizione dando il via ad una campagna volta a ripulire la città, campagna che potrà
dirsi conclusa solo alla fine degli anni ’80, con un grande dispendio di mezzi, molto
spesso sperimentali ed inefficaci. Per l’opinione pubblica i graffiti diventano il
simbolo di tutto ciò che è sbagliato in una metropoli condannata alla decadenza.
Ma a questa reazione negativa non tarderanno a fare da contraltare alcune prese di
posizione che, al contrario, guardano con interesse al fenomeno. Nel dicembre 1972
un giovane studente di sociologia del City College, Hugo Martinez, fonda la UGA
6
(United Graffiti Artists), un collettivo in cui entreranno a far parte alcuni tra i più noti
esponenti della prima generazione di writer, come Phase II e Coco 144.
Martinez riconosce le pulsioni ed il talento artistico dei ragazzi; il suo intento è quello
di educarli ad incanalare le loro energie in una direzione produttiva e legale. Dopo
una prima mostra all’interno del City College, l’UGA prende parte con successo allo
spettacolo “Deuce Coupe” di Thyla Tharp dove i writer partecipano alla performance
teatrale, dipingendo la scenografia durante la rappresentazione. L’evento più
significativo per il collettivo avviene nel settembre 1973, con la mostra inaugurata
alla “Razor Gallery”, accreditata come la prima vera rassegna a tema graffiti
realizzata in una galleria d’arte. Tutte le tele verranno messe in vendita con prezzi che
variano tra i 300 ed i 3000$ (c.a. 1200/12000€ al cambio attuale) mentre diverse
recensioni da parte di importanti giornali (persino da parte del “New York Times”,
storicamente contrario al fenomeno graffiti) sono favorevoli.
In questo periodo altri intellettuali di stampo liberale si schierano a difesa dei writer:
il 26 marzo 1973 Richard Goldstein pubblica un lungo articolo nella rivista
4
Nelli Andrea, Graffiti a New York, Whole Train Press, Roma 2012 ( I ed. Lerici, Cosenza 1978), pp. 17
5
“Taki 183” Spawns Pen Pals”, “New York Times”, 21/7/1971, pp. 37
6
Nelli Andrea, Graffiti a New York, Whole Train Press, Roma 2012 ( I ed. Lerici, Cosenza 1978), pp. 21
4
settimanale “New York”
7
, dove denuncia il sostanziale fallimento della costosa
guerra che la municipalità ha dichiarato a quella che Goldstein identifica come la
prima cultura giovanile nata dalla strada, dopo quella che negli anni ’50 si era
espressa con il rock ‘n’ roll
8
. Sempre nello stesso numero viene presentata una
“Graffiti Hit Parade”, suddivisa in categorie, dove ai vincitori verrà consegnato il
“Taki Award”, mettendo in ridicolo il sindaco Lindsay ed il “New York Times” per il
loro atteggiamento reazionario verso la nuova forma d’arte. L’esponente della pop-art
Claes Oldenburg commenta in quelle pagine:
“avrei sempre voluto mandare una steel band con delle ballerine in giro per la subway…sei in una stazione
grigia e triste, quando improvvisamente un treno di graffiti sfreccia portando la luce di un mazzo di fiori
tropicali. Pensi: è l’anarchia, e ti chiedi se i treni funzioneranno ancora. Ma poi ti ci abitui”
9
Nel 1974 Norman Mailer scrive il libro The Faith of Graffiti, documentando assieme
agli scatti del fotografo John Naar l’esperienza di quei ragazzini che la notte escono
di nascosto per lasciare i loro segni nelle stazioni e nelle carrozze della subway.
Riconoscendone la carica ideologica e le profonde motivazioni artistiche, Mailer
alterna cronache dalla strada ad una contrapposizione che individua tra lo spirito
vitale e primordiale del ghetto e la futilità di un’arte contemporanea che ha perso, a
suo parere, il proprio spirito:
“(…) se i graffiti della metropolitana non fossero mai esistiti, qualche artista avrebbe ritenuto necessario
inventarli, dato che si trovavano all’interno di quella catena evolutiva. Essendo la pittura moderna sempre
disponibile a essere descritta quale entropia delle forme rappresentative, si potrebbe anche supporre che gli
artisti abbiano rinunciato alla terza dimensione della prospettiva spaziale al fine di guadagnare la possibilità
di una visione della quarta, cosa che nel peggiore degli stati d’animo sarebbe anche un modo di poter
affermare che l’arte era rotolata lungo una linea di caduta da Cézanne a Frank Stella, da Gauguin a Mathieu.
Su una mappa del genere, i graffiti della metropolitana rappresentavano un delta alluvionale, l’imboccatura
incrostata di fango di un centinaio di corsi d’acqua pittorici. Se l’obiezione, ovvia, era che si potevano anche
intervistare migliaia di neri e portoricani che si precipitavano a scrivere il loro nome senza aver mai avuto in
mente, e addirittura aver mai visto, un dipinto di arte moderna, la risposta, senz’altro meno ovvia, era che le
piante parlano con le piante (…) In questo secolo si è liberato qualcosa di rabbioso. Magari non stiamo
convertendo l’arte nella comprensione di un processo sociale al fine di tappare il buco, stiamo piuttosto
servendoci dell’arte per intasare quel buco, come se la società fosse così priva di speranza, cioè così
attorcigliata in nodi di spaghetti ideologici senza fede, che la gioia consiste nello strangolare le vittime.
(…)”
10
Il momento segna un radicale cambiamento di prospettiva per molti writer, che
iniziano a sentirsi qualcosa di più che semplici vandali: l’etichetta che viene utilizzata
da quel momento in poi da parte dei media è “graffiti artist”:
7
Goldstein Richard, “This Thing Has Gotten Completely Out of Hand”, “New York Magazine”, 26/3/1973, pp. 35-39
8
Nelli Andrea, Graffiti a New York, Whole Train Press, Roma 2012 ( I ed. Lerici, Cosenza 1978), pp. 23
9
Oldenburg Claes, cit. in “The Graffiti “Hit” Parade”, “New York Magazine”, 26/3/1973, pp. 64
10
Mailer Norman, The Faith of Graffiti, Praeger Publishers, New York 1974 (trad. Italiana Andrea
Marti/Grandi&associati)
5
“A lot of people don’t like it, man, but like it or not, we’ve made the biggest art movement ever to hit New
York City”
11
Tuttavia questo contatto tra due diversi mondi fa presto emergere delle
incompatibilità: i writer che espongono alla “Razor” si dimostrano riluttanti
nell’accettare le regole ed i compromessi necessari per intraprendere una carriera
artistica e molti nella tranquillità di un atelier, davanti ad una tela bianca, si bloccano,
paralizzati nell’esprimere quella creatività che veniva loro naturale nelle rimesse dei
treni. Nel 1975, dopo un’ultima mostra all’”Artists Space” di SoHo, l’UGA si
scioglie, mentre la maggioranza degli esponenti di questa prima generazione viene
presto dimenticata.
Agli occhi della critica comincia a palesarsi la forte differenza in termini di
autenticità ed efficacia che esiste tra le opere che i writer eseguono per la strada e
quelle che vengono commissionate loro su tela. In un articolo pubblicato sulla rivista
settimanale “The Nation”
12
l’influente critico di origine britannica Lawrence Alloway
nota come uno dei motivi di interesse del movimento del writing risieda in una
brillante contestualizzazione con l’ambiente circostante e si interroga circa l’interesse
che il mondo delle gallerie ha riservato al lavoro di questi giovani neri e latino-
americani. Alloway affronta l’argomento mettendo in relazione il fenomeno con
artisti come Paul Klee, influenzato dalla cosiddetta arte "primitiva", Brassai, che
fotografò le scritte sui muri di Parigi all'inizio del XX secolo, Cy Twombly e i suoi
segni grafici liberamente associati e, soprattutto, Jean Dubuffet, promotore di ciò che
definì Art Brut
13
. Sulla scorta di tali affermazioni è possibile affermare come la
“gallerizzazione” dei graffiti non rappresenti altro che un ritorno a quel primitivismo
che già aveva segnato il corso della storia dell’arte da Gaugin in poi. Nel 1976 il
filosofo e sociologo francese Jean Baudrillard afferma in un saggio come il writing
funzioni come controparte rivoluzionaria ai mass media, “un attacco ai codici
dell’egemonia culturale”
14
. Per Baudrillard è significativo il fatto che i graffiti non
contengano alcun contenuto o messaggio e distingue due distinti atteggiamenti volti
al loro recupero: quello dell’umanista borghese che impone loro il significato di
un’affermazione di identità e quello del mondo dell’arte che impone una “riduzione
estetica” del fenomeno che, di fatto, nega il potenziale rivoluzionario.
D’altro canto gli stessi writer cominciano a dibattere circa la differenza tra i graffiti
realizzati su tela per le gallerie e quelli che circolano per la città. Chi scrive nelle
11
Super Kool 223 cit. in Shirey L. David, “Semi-Retired Graffiti Scrawlers Paint Mural at C.C.N.Y. 133”, “New York
Times”, 8/12/1972, pp.49
12
Alloway Lawrence, “Art”, “The Nation”, 27/9/1975, pp. 285-286
13
produzioni artistiche realizzate da non professionisti che operano al di fuori delle norme estetiche convenzionali
(autodidatti, psicotici, prigionieri, persone completamente digiune di cultura artistica).
14
Baudrillard Jean, Kool Killer, ou l’insurrection par les signes, in Id., L’ echange symbolique et la mort, Gallimard,
Parigi 1976, pp. 118-128