Introduzione
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Introduzione
Questa non è una tesi su “The Economist” e Berlusconi, anche se avrebbe potuto
esserlo, dal momento che questo accostamento ha suscitato per anni un gran
fermento nella stampa italiana tutta: una parte era compiaciuta di fronte ai severi
giudizi sul Cavaliere ciclicamente impartiti dal giornale inglese; un’altra parte
rimarcava invece quanto essi fossero frutto di un malcelato senso di superiorità degli
inglesi, che, tra le altre cose, mal sopporterebbero, a venticinque anni di distanza, il
famoso “sorpasso” dell’economia tricolore su quella britannica.
Quel che è certo è che, specialmente nel corso degli ultimi dieci anni, questa
prestigiosa testata che si occupa di economia ma non solo, ha decisamente puntato la
sua attenzione sulla figura che ha dominato la scena politica italiana degli ultimi 17
anni.
Tanti gli articoli su Berlusconi, e numerose le copertine a lui dedicate, per l’esattezza
sei; la prima, e senza dubbio la più famosa, è quella del 28 aprile 2001, dal titolo
Why Silvio Berlusconi is unfit to lead Italy. Un titolo lapidario, asciutto, assertivo,
scevro da qualsiasi traccia di ironia, che preannuncia un editoriale altrettanto severo e
senza appello. Altre copertine seguirono, senza che il giudizio fosse alterato: dalla
sfida di Dear Mr Berlusconi…our challenge to Italy’s prime minister del 2 agosto
2003, a Basta. Time for Italy to sack Berlusconi, in occasione delle elezioni politiche
dell’aprile 2006; nel 2008, sempre ad aprile, è la volta di Mamma Mia. Here we go
again, fino ad arrivare alle copertine del 2011, che sono addirittura due: la prima, del
9 giugno, si intitola The man who screwed an entire country, la seconda esce invece
il 10 novembre, quando Berlusconi si dimette, e si intitola That’s all folks. Dunque
“The Economist” si accanisce contro Berlusconi? O forse “The Economist” è
prevenuto nei confronti dell’Italia?
Da qui la curiosità di scoprire con che occhi questo giornale abbia guardato l’Italia
prima che il Cavaliere arrivasse sulla scena, per cercare di capire se, nel tempo,
l’atteggiamento dei suoi giornalisti nei confronti dell’Italia e della sua élite politica
sia mutato, nelle due fasi pre-Berlusconi e post-Berlusconi o se, al contrario, la
visione del nostro paese scaturisca da un discorso più articolato e coerente, che si
Introduzione
6
dipana dal dopoguerra ai giorni nostri. Questo è il filo conduttore di questa ricerca
condotta direttamente sul giornale, in un percorso a ritroso nel tempo.
La delimitazione spazio-temporale della nostra indagine va dal 1964, anno di uscita
del primo Special Survey (inserto speciale) dedicato all’Italia, al giugno 2011, data di
pubblicazione dello Speciale più recente. Queste inchieste sono in tutto 11, e
compaiono su “Economist” ad intervalli variabili (dai 3 ai 7 anni), in quelli che
potremmo definire momenti-chiave della vita italiana, e ogni volta ricostruiscono la
storia e il panorama sociale del paese a partire dall’immediato dopoguerra, perché
non si può capire l’Italia del 1964 ad esempio, senza ripercorrere tutto quello che è
successo prima. Perciò, anche se il primo sguardo è datato a metà degli anni’60, di
fatto non può fare a meno di abbracciare anche e soprattutto i vent’anni precedenti.
Occorre in prima battuta sottolineare che sarebbe riduttivo pensare che gli articoli
analizzati abbiano a che fare con l’economia in senso stretto; naturalmente non è
così: se l’aspetto economico costituisce il cuore del discorso, è sempre in primo
piano il corollario che, per aiutare a capire, racconta storia, costume, società e
problemi dell’Italia, primo fra tutti il nodo della questione meridionale; questi
saranno i temi della nostra rassegna stampa, che andrà a concentrarsi esclusivamente
sugli 11 inserti speciali “italiani”. Abbiamo scelto di puntare tutta l’attenzione
esclusivamente su questi perché gli articoli dedicati all’Italia da “Economist” dal
1843 in avanti, che sono un numero davvero rilevante, sono generalmente focalizzati,
questi sì, sugli aspetti più strettamente economici e quindi tecnici, e sarebbe stato
difficile trarre da essi un’impressione coerente e utile ai nostri scopi. L’aver
circoscritto l’oggetto della ricerca a questi 11 momenti permette invece di
ripercorrere le diverse tappe dell’evoluzione (o involuzione?) dell’Italia facendosi
guidare dall’autorevole giornale inglese. Gli inserti speciali sono paragonabili a delle
istantanee scattate al paese in un dato momento, per cui ci consegnano un ritratto a
360 gradi, e ci permettono in qualche modo di immergerci in un’Italia a tutto tondo
che a volte appare assai lontana, altre vicina in modo sconcertante.
I Special Surveys sono stati pubblicati nel 1964 (New wave or interlude? non
firmato), 1967 (Italy catches up, non firmato), 1972 (The incomplete miracle, di
Jonathan Radice), 1978 (A democracy on trial, di Robert Harvey, come il
successivo), 1983 (Eppur si muove), 1990 (Awaiting an alternative, di John
Introduzione
7
Grimond), 1993 (Until the fat lady sings, di John Andrews), 1997 (Many mountain
still to climb, di Matthew Bishop), 2001 (What a lovely odd place!, di Xan Smiley),
2005 (Addio, dolce vita, di John Peel), e 2011 (The man who screwed an entire
country, di John Prideaux).
Prima di passare in rassegna gli articoli in questione, ci è parso metodologicamente
corretto tratteggiare, nel capitolo 1, il ritratto di “The Economist”, per capire meglio
origini e caratteristiche del giornale oggetto del nostro interesse; abbiamo ripercorso
la storia di quando e come fu fondato, da chi e perché nel 1843; abbiamo seguito le
tappe di sviluppo successive, costellate dalle figure di riferimento dei grandi direttori
che lo hanno guidato nel tempo, facendone un giornale sempre all’avanguardia sotto
ogni punto di vista; si è cercato inoltre di delinearne i tratti distintivi, il carattere, lo
stile, i valori, l’assetto aziendale, la diffusione, il posto che occupa nel panorama
dell’informazione, e, da ultimo, di evidenziarne pregi, ma anche i difetti e i
pregiudizi di cui è oggetto da parte del resto della stampa, internazionale e italiana.
Nel capitolo 2 si parla invece di come ci vedono gli altri dall’estero, di come gli
storici prima, e i giornalisti stranieri poi, hanno raccontato l’Italia, paese che attrae e
sconcerta, con la sua caratteristica di realtà che viene percepita dall’esterno come
“anomala”; si parla anche dei potenziali pregiudizi che potrebbero in qualche modo
influenzare lo sguardo degli stranieri, e degli stereotipi che concorrono a plasmare il
punto di vista di chi osserva “l’altro”. Tra gli osservatori esterni, una attenzione
particolare è riservata agli inglesi, perché “The Economist” ha sede a Londra e
inoltre, perché Italia e Gran Bretagna sono da sempre legate da un rapporto
complesso, che potremmo forse definire di odio-amore, ma certamente di simbiosi e
complementarietà. Per queste ragioni è importante evidenziare alcune caratteristiche
degli inglesi, cercare di capire alcuni punti chiave della loro mentalità, e tratteggiare
per sommi capi la loro tradizione politica e giornalistica, ed ecco che allora ci sarà
più chiaro il loro punto di vista quando ci osservano. Questo in generale; in
particolare dedicheremo alcune pagine al giornalista Geoff Andrews e alla sua “Italia
Anormale”, diventata un anche un libro (Un paese anormale. L’Italia di oggi
raccontata da un cronista inglese, Roma, Effepi Libri, 2006). Un altro libro inglese
di cui parliamo, anche se indirettamente, leggendone le recensioni, è di David
Gilmour (The Pursuit of Italy: A History of a Land, its Regions and Their Profile,
Introduzione
8
London, Allen Lane, 2011), che propone una visione inedita dell’unificazione
italiana e di tutto ciò che ne è seguito, arrivando a sostenere che forse, per alcune
regioni d’Italia, sarebbe stato meglio conservare lo status di piccoli stati indipendenti.
I capitoli 3, 4 e 5 sono quelli centrali, e passano in rassegna gli 11 Speciali, secondo
un criterio tematico e un punto di vista che, potremmo dire, utilizzando una metafora
fotografica, parte da una inquadratura con grandangolo (storia, politica, scena
internazionale, capitolo 3) per poi utilizzare uno zoom (economia e questione
meridionale, capitolo 4), fino a passare ad una modalità macro, per cogliere i dettagli
forse meno visibili, ma non meno importanti (costume e società, capitolo 5). Nel
corso di questa lunga sessione “fotografica” saremo supportati dalle osservazioni
dello storico inglese – e cittadino italiano da tempo – Paul Ginsborg, che fungono da
contrappunto e approfondimento rispetto al punto di vista del giornale.
Nel capitolo 3 si evidenzia il tema centrale dell’anomalia italiana, per poi
ripercorrere la storia e la politica italiana dal dopoguerra all’era Berlusconi. Un
paragrafo è dedicato all’Europa, e a come l’Italia sia ad essa legata a doppio filo da
un rapporto molto stretto, anche se ambivalente. In ultimo, si ricostruisce l’immagine
internazionale dell’Italia così come emerge dalla lettura di “Economist”.
Il capitolo 4 è incentrato sull’economia, condizionata dal divario fra nord e sud, e
dalla questione meridionale. “Economist” da sempre segue da vicino le alterne
vicende economiche dell’Italia, e, dopo aver evidenziato i punti di debolezza, spesso
propone dei correttivi. Un costante interesse viene manifestato, in ogni Speciale, nei
confronti delle zone del Mezzogiorno e ai loro problemi, e a come questi ultimi si
riverberino sul benessere economico e sociale dell’intero paese.
Nel capitolo 5 sono tratteggiati i principali aspetti della società e dell’Italian way of
life: si parla di giovani e sistema educativo, di mondo del lavoro e relative isole
privilegiate, di flussi migratori, ma anche di stili di vita, mentalità, pregi e difetti
degli italiani, burocrazia, corruzione… senza dimenticare saper vivere, bellezza, e
cultura nel senso più ampio del termine.
Al di là dei contenuti, ci siamo soffermati, sotto il profilo stilistico, sulla funzione di
almeno quattro congegni che potremmo definire “metalinguistici” o “paralinguistici”,
perché, affiancando, sostituendo, o andando al di là delle mere descrizioni fattuali,
intervengono a vario titolo nel restituire un quadro globale senz’altro più completo.
Introduzione
9
Parliamo dell’uso delle metafore, assai consueto nel giornalismo inglese,
dell’apparato iconografico, della funzione dei titoli e, in ultimo, seguendo la
prospettiva etnometodologica, della funzione del linguaggio di plasmare, più che
descrivere passivamente la realtà, spiegandola, interpretandola, commentandola,
raccontandola, e perciò creandola.
L’utilizzo ricorrente delle metafore, come vedremo nel capitolo 3, è un felice
escamotage per rendere comprensibili al grande pubblico fenomeni che sono, per
converso, assai difficili da inquadrare, perché molto complessi per coloro che non
sono “addetti ai lavori”.
A corredo dei tre capitoli centrali della tesi sono state inserite alcune foto, anch’esse
tratte dagli Speciali, ritenute particolarmente significative e in grado di cristallizzare
in uno scatto il punto di vista del giornale sui temi proposti: in questo contesto le
immagini svolgono a volte la funzione di editoriali in forma “concentrata”, ma non
meno efficace rispetto alla pagina scritta.
Un ruolo affine è svolto dai titoli, a volte autentici capolavori di sintesi espressiva, ai
quali ci è parso utile dedicare una breve analisi in Appendice/2.
In Appendice/1 sono state inserite le schede riassuntive degli 11 Surveys, per darne
di ciascuno anche una lettura allo stesso tempo unitaria e inserita in una dimensione
diacronica, lettura che si perderebbe facendo, come noi abbiamo scelto, una rassegna
di tipo tematico, per sua stessa natura frammentata.
In Appendice/3 trova spazio una sezione dedicata all’espressione con valore
aggettivale “italian style” che in italiano si traduce con la locuzione “all’italiana”:
indaghiamo su come questa espressione contenga al suo interno una visione
concettuale ben precisa degli italiani, di fatto non molto lusinghiera, e scopriremo
con l’aiuto di due studiosi che hanno affrontato il tema da due prospettive diverse, la
linguistica da un lato, e la storia del cinema inglese dall’altro, che questo punto di
vista potrebbe essere influenzato da matrici culturali ben precise.
Per quanto riguarda la metodologia impiegata nel corso di questa tesi,
imprescindibile strumento di lavoro è stato l’Economist Historical Archive (EHA),
magnifica banca dati online che contiene tutti i numeri del giornale dal 1843 al 2006,
scannerizzati dalla prima pagina all’ultima, e che permette di fare qualsiasi ricerca
per data e/o parole-chiave. Per il periodo di riferimento 2006-2011 il materiale è
Introduzione
10
risultato invece accessibile liberamente sul sito web di Economist (consultabile alla
pagina web http://www.economist.com/).
Dopo aver scaricato e visionato il materiale sull’Italia relativo a diverse annate
campione di “Economist”, è emerso il filo rosso degli Speciali, verso il quale ci
siamo poi definitivamente orientati; la sole parti che esulano dalla loro consultazione
sono quella relativa all’italian style, frutto di una specifica ricerca per parole-chiave
effettuata sempre attraverso l’EHA, e la citazione di due copertine; quella del 21
gennaio 1978, a pagina 75 (la prima in assoluto dedicata all’Italia), utilizzata a
corredo iconografico del paragrafo dedicato alla politica, e quella datata 8 gennaio
1994, a pagina 78, che illustra il ruolo dell’Italia sulla scena internazionale.
Desidero in questa sede ringraziare tre cari amici: Marco Gaggero, per il suo
prezioso aiuto, che mi ha facilitato l’accesso alla risorsa informatica dell’Economist
Historical Archive; Chiara Colella, per i suoi utili consigli e la sua rassicurante
presenza; Giovanni Valle, per avermi costantemente incoraggiato a superare i
momenti di difficoltà incontrati in questi anni di studio.
(Genova, febbraio 2012)
1. La storia di “The Economist”
11
1. La storia di “The Economist”
“[…] to take part in ”a severe contest between intelligence,
which presses forward, and an unworthy, timid ignorance
obstructing our progress”.
Motto di “The Economist”
1.1 La carta d’identità di “Economist”
Prima di ricostruire la storia e di tratteggiare l’identità del prestigioso settimanale in-
glese, è opportuno riservare alcuni brevi cenni alla realtà in cui è nato e si è affer-
mato.
Il panorama della stampa britannica presenta tratti che si discostano profondamente
dalla realtà italiana. Tra le sue peculiarità rientra sicuramente la dicotomia tra stampa
popolare e stampa di qualità
1
: ciascuna delle due ha un suo cromosoma genetico
2
,
che la caratterizza in base allo stile, ai valori notizia e alla diffusione.
Stile e valori notizia dei giornali di qualità, categoria della quale “The Economist” è
uno dei portabandiera, si contraddistinguono per sobrietà, impiego di un linguaggio
forbito e articolato, ma sempre chiaro e comprensibile, e per la scelta di argomenti
come la politica, i grandi servizi dall’estero e i temi di attualità a 360 gradi:
[…] La rivista contiene rubriche riguardanti la scienza, la tecnologia e le mutazioni della
cultura, proponendo ai lettori una visione del mondo ampia e coerente, nella quale si deci-
frano tendenze e cambiamenti, ciò che scompare e ciò che emerge all’orizzonte del futuro
3
.
Una seconda caratteristica della stampa britannica è l’alto tasso di professionalizza-
zione dei giornalisti; questo vuol dire che gli operatori dei media, al di là
dell’inevitabile vicinanza con i vari schieramenti politici, che molte volte può
sconfinare nella partigianeria, sono “professionisti con un proprio sistema di valori e
propri standard operativi, radicati all’interno di un’ideologia di pubblico servizio”
4
e
mantengono un elevato livello di autonomia rispetto agli altri poteri, cosa che solita-
mente non accade nei paesi dell’area mediterranea come l’Italia.
1
M.C. Hillan, “Gran Bretagna: nobile tradizione e gossip” in Giornali d'Europa/1 Gran Bretagna,
Irlanda, Russia, Romania, a cura di M. Lombardo, Catania, ed.it, 2009, pp. 17-60.
2
G. Salemi, L’Europa di carta. Guida alla stampa estera, Milano, Franco Angeli, 2007, p. 55.
3
V. Cerami, The Economist, “L’Unità”, 11 giugno 2011.
4
D.C. Hallin-P. Mancini, Modelli di giornalismo. Mass media e politica nelle democrazie occidentali,
Roma-Bari, Laterza, 2009, p. 195.
1. La storia di “The Economist”
12
Come ricostruiscono Mancini e Hallin nella loro approfondita analisi dedicata ai mo-
delli di giornalismo, i fattori che hanno configurato la stampa britannica così come la
conosciamo sono essenzialmente di natura storica, e coincidono con la stessa storia
dell’Inghilterra
5
; in questa sede possiamo ricordare i principali: il tramonto del potere
assoluto e il precoce avvento della libertà di stampa, conquistata alla fine del ‘600;
l’alto tasso di alfabetizzazione già all’inizio dell’800, dovuto, tra gli altri fattori, alla
diffusione della religione e della cultura protestante; lo sviluppo della stampa com-
merciale e popolare e la sua altissima diffusione a partire dalla metà del XVII secolo;
la tendenza al fact-centered journalism, e alla neutralità politica; la tradizione di un
sistema parlamentare bipartitico, regolato dal consolidato gioco dell’alternanza.
Tutte queste eredità hanno contribuito a dare vita ad un giornalismo profondamente
diverso da quello che si è venuto formando in Italia, che è sempre ad elevato tasso di
politicizzazione.
Questo è l’humus che ha visto nascere quasi 170 anni fa quello che è diventato il set-
timanale più famoso in Europa
6
, “The Economist”, il cui obiettivo è dichiarato nel
motto che compare in ogni numero, in testa all’indice, subito sotto la testata e la data
di pubblicazione:
“[…] to take part in ”a severe contest between intelligence, which presses forward, and an
unworthy, timid ignorance obstructing our progress”
7
.
L’editoriale di James Wilson pubblicato il 4 novembre 1843 contiene tutta la filoso-
fia del giornale, rimasta sostanzialmente immutata:
“Alcuni cercano di rappresentare l’economia politica come una scienza astratta, fredda, senza
calore di sentimenti da spartire con l’umanità sofferente. Si tratta di un’affermazione lontana
dal vero: al contrario l’economia politica è in grado di produrre sentimenti intensi a favore
della rimozione dei mali dell’umanità e non consente di arrestarsi alla mera enunciazione del
male, ma impone di esaminare profondamente l’insieme per arrivare a identificare le cause
dell’infelicità e il modo con cui possa essere rimossa, o almeno alleviata”
8
.
Infatti emerge subito, fin dagli esordi, la tendenza all’analisi approfondita dei fatti
nella loro complessità, alla ricerca dei collegamenti nascosti, delle cause dei
problemi, e delle loro soluzioni.
5 Ibidem.
6
G. Salemi, L’Europa di carta, cit., p. 92.
7
La frase è tratta dall’editoriale programmatico a firma di James Wilson, pubblicato sul Preliminary
number di “The Economist” del 5 agosto 1943.
8
Ibidem, pp. 93-94.
1. La storia di “The Economist”
13
Se facciamo un salto in avanti fino al 2011, sul sito web di ”Economist”, leggiamo
quello che si può considerare il suo biglietto da visita, nelle parole dell’attuale diret-
tore, John Micklethwait:
“la nostra visione del mondo, il nostro stile e la nostra intera filosofia sono diversi da quelli
delle altre pubblicazioni…Siamo internazionali, mettiamo in luce le interconnessioni tra po-
litica e economia, siamo irriverenti e siamo indipendenti”
9
.
E ancora:
“Pubblicato a Londra fin dal 1843, “The Economist” è un settimanale di notizie e economia
internazionale, che fornisce un resoconto chiaro, commenti e analisi su attualità mondiale,
economia, finanza, scienza e tecnologia, cultura, società, mezzi di comunicazione e
arte…Stampato in 5 paesi, diffuso a livello mondiale in più di un milione di copie, viene letto
più di qualsiasi altro settimanale dalle figure di primo piano della politica e dell’economia”
10
.
Al di là di una certa sfumatura promozionale, si può notare come la linea editoriale
sia rimasta sostanzialmente invariata rispetto a quella del manifesto programmatico
del 1843, a dimostrazione di una coerenza e di un’affidabilità che sono la ragione di
un successo.
Per completare questa istantanea di ”Economist”, prima di andare ad aprire la scatola
delle vecchie foto ingiallite, vale la pena riportare gli stralci di due articoli pubblicati
dal “British Journalism Review” (di seguito BJR), di un articolo pubblicato da “La
Stampa” in occasione dei primi 150 anni della testata fondata da Wilson, per chiu-
dere con una citazione da un articolo di Vincenzo Cerami uscito su ”L’Unità”.
Nel primo pezzo tratto dal BJR, risalente al 2005, Peter Wilby, già direttore del
“New Statesman”, traccia un ritratto piuttosto severo che evidenzia alcuni limiti, tut-
tavia il giornale non ne esce poi così male; sarà anche monotono e arrogante, ma non
se ne può fare a meno:
“The Economist” è diventato la rivista dell’uomo d’affari internazionale, la bibbia della glo-
balizzazione e del libero mercato. Quasi soffocante nelle sue certezze monotone, e infuriante
nell’arroganza dei suoi giudizi, ciò non di meno è diventato una lettura essenziale per il gio-
vane manager emergente o per chi opera in borsa
11
.
9
Sito web “The Economist”, sezione Editorial philosophy:
http://www.economistgroup.com/what_we_do/editorial_philosophy.html (10 luglio 2011).
10
Sito web “The Economist”, sezione Our brands:
http://www.economistgroup.com/what_we_do/our_brands/the_economist_brand_family/the_economi
st.html (10 luglio 2011).
11
P. Wilby, Swimming (weakly) against the tide, “British Journalism Review” Vol. 16, No. 3, 2005,
pp. 23-30, consultabile online alla pagina:
http://www.bjr.org.uk/data/2005/no3_wilby (15 luglio 2011).
1. La storia di “The Economist”
14
Nel secondo articolo del BJR, del 2008, a firma di Peter Preston, si mette in luce il
motivo del crescente successo del settimanale inglese, evidenziando quello che è il
suo valore aggiunto, merce rara in una realtà dominata dall’invasione dei media e da
un flusso informativo che riporta le notizie, senza però fornire un’adeguata chiave
interpretativa.
“Se dai un’occhiata al mondo delle notizie di qualità stampate su carta oggigiorno, c’è un fe-
nomeno che non può sfuggire: “The Economist”, con i suoi titoli fuorvianti, l’aria dimessa,
vende più di un milione e 300 mila copie nel mondo…in parte l’incremento di vendite si è
avuto negli USA, per essere precisi, ma anche la Gran Bretagna è stata un motore di cre-
scita… È facile, ad un’attenta analisi, capire perché. In giro c’è vera fame di analisi, di una
visione degli eventi che dia loro un senso, piuttosto che semplicemente raccontarli. Internet –
per non parlare della CNN, di News 24 e degli altri – possono farti vedere incidenti o som-
mosse mentre accadono…Ma per capire come una cosa si colleghi all’altra, perché il sub-
prime America stia buttando giù le banche inglesi o come la crisi del Kosovo minaccia
l’unità europea, hai bisogno dell’interpretazione dei fatti, non che te li recitino e basta. Nei
quotidiani, il dibattito in corso è su giornali di opinione contro giornali di notizie. Nei setti-
manali, le opinioni vincono di una lunghezza, perché servono a fermarsi, leggere e dare un
senso alla sfilata che ci passa davanti, come il successo dell’Economist mostra chiaramente.
Quelli di “Time” hanno recentemente annunciato che faranno anche loro uno sforzo per arri-
vare là dove Internet non arriva: estrarre qualcosa di convincente dal liquame digitale di fatti
e fiction”
12
.
Per chiudere questa piccola presentazione, vediamo brevemente che cosa ha scritto
Mario Ciriello su “La Stampa”, in occasione del significativo anniversario del 1993,
sul “settimanale più famoso nel mondo, amato all’estero, snobbato in patria”. Il titolo
dell’articolo su sei colonne, che occupa più di mezza pagina, delinea i due volti di
questo newspaper (è così che sceglie di autodefinirsi, rigettando l’etichetta di
magazine): la gloria e l’arroganza di “un’istituzione molto ammirata ma poco cono-
sciuta, una gemma scintillante ma un po’ misteriosa”. Alcune sfaccettature di questa
gemma sono percepite correttamente:
“È vero che questa pubblicazione inglese ha i suoi lettori più entusiasti fuori di quest’isola? È
vero che la sua “filosofia”, giudicata adesso modernissima non è molto diversa da quella che
l’Economist predicava alla nascita e ha continuato a predicare per 150 anni? È vero che pecca
di arroganza, di una presunzione spesso esasperante? Sì, è tutto vero…”
13
.
Tanti sono però, avverte Ciriello, i pregiudizi di cui è oggetto il giornale: ad esempio
viene considerato conservatore e “molto inglese”, ma è proprio vero? Secondo “La
Stampa” le cose non stanno esattamente così:
12
P. Preston Always in a Sunday, “British Journalism Review” Vol. 19, No. 2, 2008, pp. 33-38,
consultabile online alla pagina: http://www.bjr.org.uk/data/2008/no2_preston (15 luglio 2011).
13
M. Ciriello, Economist: la gloria e l’arroganza “La Stampa”, 23 settembre 1993 p. 21.
1. La storia di “The Economist”
15
“Certo, l’Economist ha dato la sua benedizione alle strategie di Margareth Thatcher e di
Reagan, ma, da 150 anni, avversa e conservatorismo e socialismo, odia e combatte ogni at-
tentato alle libertà civili, alla democrazia, ed è spietato contro chi, in politica o in business,
non accetta le responsabilità dei propri errori. […] Gli italiani sbagliano quando [lo]
giudicano…”molto inglese”, un esempio di elegante pacatezza, di olimpica calma: è
l’opposto, ogni settimana la rivista sferza e azzanna mezzo mondo”
14
.
Dunque, un giornale arrogante (aggettivo, questo, ricorrente per descriverlo), aggres-
sivo (famoso anche per le sue feroci copertine); il tono è ipercritico e i suoi bersagli
tendono a vedere il giornale come un loro nemico; la critica continua a bruciare per
molto tempo, mentre le lodi si dimenticano in fretta
15
. Nessuno però ne mette in dub-
bio l’autorevolezza, e questo proprio grazie alle sue prese di posizione, al suo pro-
porre idee e vedute, come sottolinea anche Cerami nel già citato articolo pubblicato
su ”L’Unità”:
“[…] Pur schierandosi contro ogni contaminazione tra ruolo dello Stato e ruolo
dell’economia, non ha mai smesso di mettere nel cuore delle sue pagine gli interessi dei citta-
dini e la loro pace sociale. Ha appoggiato Reagan e la Thatcher, ma anche Bill Clinton e
Obama. In Italia non esiste una rivista altrettanto estranea a faziosità e a interessi di parte.
Tutti sappiamo come sia profondamente radicato nella cultura inglese l’alto valore democra-
tico della libertà di stampa”
16
.
È arrivato ora il momento di ripercorrere le tappe principali del lungo viaggio di
quello che Simon Kuper, in un recente articolo apparso sul “Financial Times”, ha de-
finito “l’organo ufficiale dell’élite globale anglofona”
17
.
Tutto cominciò grazie a un produttore di cappelli scozzese, che intendeva promuo-
vere la causa del libero mercato.
1.2 Il lungo viaggio all’inseguimento della ragione
Se dovessimo racchiudere tutta la storia di questo giornale in una sola frase, po-
tremmo prendere a prestito questa, di Ruth Dudley Edwards:
14
Ibidem.
15
R. Dudley Edwards, The Pursuit of Reason. The Economist 1843-1993, Boston, Harvard Business
School Press, 1995, p. 840.
16
V. Cerami, The Economist “L’Unità”, cit.
17
S. Kuper, Christine Lagarde’s command of English goes beyond language, “Financial Time” 24
giugno 2011, consultabile on line alla pagina:
http://www.ft.com/cms/s/2/e3e18a60-9c71-11e0-a0c8-00144feabdc0.html#ixzz1RQ4IjlOG (9 luglio
2011).
1. La storia di “The Economist”
16
“The Economist was founded in 1843 to campaign for free trade, laissez-faire and individual
responsibility through the medium of rational analysis applied to facts; its good fortune is that
both its principles and its methods remain relevant 150 years later
“
18
.
GLI INIZI – JAMES WILSON
James Wilson era uno scozzese nato nel 1805, figlio di un produttore di lana quac-
chero (dettaglio questo, che dà conto del forte senso etico di Wilson, e della sua cre-
denza nei meriti del duro lavoro). Dopo la scuola e una breve permanenza in semina-
rio, non potendo abbracciare la carriera forense, incompatibile con i dettami della re-
ligione quacchera, a sedici anni entrò nel campo degli affari, come apprendista
presso un fabbricante di cappelli, dedicandosi parallelamente alla sua formazione da
autodidatta in ambito economico, con l’aiuto di numerose letture (su tutte, i libri di
Adam Smith). A diciannove anni si trasferì a Londra insieme al fratello e qui, grazie
a una sovvenzione paterna, poté impiantare una sua ditta di manifattura. Già nel 1837
aveva accumulato un patrimonio di tutto rispetto. In questi anni capì a fondo la di-
namica tra le classi sociali e le basi del commercio internazionale.
Qualche anno dopo, a causa di investimenti sfortunati nell'indaco, subì un pesante
rovescio economico, ma riuscì ad evitare la bancarotta impegnandosi con ancor più
determinazione ed entusiasmo nei suoi affari, fino a quando, nel 1844, lasciò definiti-
vamente, per concentrare tutte le sostanze e le energie su “The Economist”.
Qui occorre fare una piccola digressione. A partire dal 1820 il dibattito sul libero
mercato era divenuto sempre più centrale in Inghilterra; Wilson non avrebbe potuto
scegliere momento migliore per scendere in campo, e, anche se non sarebbe mai stato
uno scrittore elegante, era però un grande produttore di credenze, e grazie a questa
sua caratteristica, verso la fine degli anni ’30, assunse un ruolo di primo piano nel
trasformare il dibattito sulla Corn Law
19
da una questione di classe a una tematica
nazionale
20
. Pubblicò svariati pamphlet che lo misero in evidenza come figura pub-
blica dell’ala Whig ed esperto di economia, e si costruì una reputazione di chiarezza
e integrità
21
.
18
R. Dudley Edwards, The Pursuit of Reason, cit., p. XI.
19
Legge protezionista sul grano che, fra il 1815 e il 1846, aveva imposto dei dazi sull'importazione
dall'estero di questo cereale ad un prezzo economico. Ciò aveva causato l’alto costo del pane e la
diffusione della fame tra le classi più povere.
20
R. Dudley Edwards, The Pursuit of Reason, cit., p. 9.
21
Ibidem, p. 10.
1. La storia di “The Economist”
17
Collaborando con molte autorevoli pubblicazioni, Wilson maturò ben presto
l’intenzione di fondare un suo giornale, valutando che il mercato fosse maturo per
accoglierlo, e decise di affrontare il rischio, nonostante il fatto che, solamente 7 anni
prima, a causa di un investimento finito male, avesse perso un patrimonio di 25 mila
sterline. Con coraggio e ottimismo si giocò la modesta somma che aveva racimolato
dopo la rovina. Avrebbe inventato un prodotto nuovo, un giornale economico,
avendo scarsa esperienza nel giornalismo, e nessuna esperienza in capitolo di finan-
ziamenti, distribuzione, stampa. La notizia buona era che non esisteva nessuna con-
correnza
22
. E fu così che nell’agosto del 1843 vide la luce il numero zero del settima-
nale dal titolo “The Economist or the Political, Commercial, Agricultural, and Free-
Trade Journal”.
Nel giro di un decennio, la diffusione passò da 1.900 copie a oltre 4.000 copie.
All’estero la reputazione di Wilson e del suo giornale si affermò rapidamente, anche
se il suo internazionalismo trovava un freno nel suo essere profondamente scozzese,
il che gli faceva assumere l’esistenza di un desiderio universale di fare soldi e di una
volontà universale di lavorare duro per guadagnarli, e comportava di conseguenza
un’incapacità di cogliere le diverse priorità di altri popoli e altre culture.
Wilson, parallelamente alla sua attività editoriale si dedicò alla carriera parlamentare,
e fu cooptato nel Board of Trade, un ufficio governativo, fino a raggiungere la carica
di Segretario del Tesoro. Ben presto il “Times” fece esplodere uno scandalo, pubbli-
cando alcune lettere anonime che sostenevano che Wilson, avvantaggiandosi del suo
doppio ruolo di alto funzionario governativo e direttore/proprietario di giornale, era
riuscito a entrare in possesso di informazioni importanti e a pubblicarle prima degli
altri
23
. La verità non fu mai chiarita; Wilson cedette formalmente la proprietà del
giornale, ma continuò a scrivere e a sovrintendere sulla sua creatura. Morì improvvi-
samente nel 1860, all’età di 55 anni, mentre si trovava in India. Ma il viaggio di
”Economist” procedeva oramai speditamente.
22
Ibidem, p. 15.
23
Ibidem, p. 118.