sentono debitori),  un nuovo modo di fare,  guardare e pensare il  cinema.  Anzi,  moltissimi 
nuovi  modi.  Con un certo  numero  di  santi  in  paradiso  (registi  nel  pantheon)  e  un  nume 
tutelare di nome André Bazin.
Questa, in grande (e personalissima) sintesi, l’aria che si respirava nella Francia negli anni 
Cinquanta, nei cinema del quartiere latino e alla Cinématheque Française di Henri Langlois e 
Georges Franju, oltre che alla redazione dei “Cahiers du Cinéma”.
“Positif”  viene fondata  l'anno dopo i  “Cahiers” (nel  1952),  a Lione (e il  non appartenere 
all’ambiente parigino è sempre stato motivo di vanto della rivista). Ai “Cahiers” e alla loro 
politica degli autori, considerata limitativa e fuorviante, questi giovani ribelli (perché lo erano, 
sia giovani che ribelli) contrapponevano invece una critica eclettica e di ampio respiro, che 
considerasse  il  cinema un’opera  collettiva  più che l’espressione intima di  una personalità 
singola.
Le critiche mosse da “Positif” ai “Cahiers” si mantenevano (e si mantengono tuttora) a livello 
fondamentalmente anti-metodologico, ma talvolta anche meramente politico, senza paura di 
esporsi in tal senso: “Positif” si schiera decisamente a sinistra, ma senza una piena adesione 
ad alcun schema di pensiero. Anche in questo i “Cahiers” sono profondamente disprezzati, sia 
nell’iniziale  periodo  apolitico  sia  nella  successiva  conversione  al  credo  maoista.   Quella 
positifiana è una critica impegnata, responsabile, che tratta di politica e fa politica, marxista 
nelle forme come nei contenuti. Ma anche, d’altro canto, una critica attenta a smarcarsi dalle 
ingenuità di certa sinistra (direi “massimalista” se oggi l'aggettivo non fosse stato degradato a 
offesa politica), splendidamente incoerente sia a livello collettivo che a livello personale (altro 
grande vanto della rivista), che si propone non tanto di suffragare una tesi già consolidata 
quanto di proporne e consolidarne di nuove, con coraggio e libertà mentale, liberi da ogni 
giogo metodologico. 
Anche da quello marxista, il cui credo è in fondo condiviso (si può definire, quella positifiana, 
una critica marxista), ma non eretto a mo’ di fortino attorno a se stessi. 
Insomma, per dirla con parole del positifiano (li chiamerò così, per comodità) Alain Masson: 
“una critica senza classicismo”. E sarebbe un errore sostenere che la  guéguerre, come Aldo 
Tassone l’ha definita1, tra “Positif” e i “Cahiers” sia in fondo solo una questione di partiti 
presi (spesso semmai lo è anche) o di interessi commerciali (idem come sopra): alla base vi 
sono  differenze  talvolta  abissali  nella  concezione  della  settima  arte.  Ciò  non  implica 
1 TASSONE, A. (a cura di), 2002, La Nouvelle Vague 45 anni dopo, Milano, Editrice Il Castoro.
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necessariamente  una  differenza  di  esiti  (spesso  il  sostegno  a  un  film  o  a  un  autore  è 
bipartisan), ma i punti di partenza sono spesso opposti. Si potrebbe paragonare, azzardando 
un  po’,  i  “Cahiers”  a  Don  Camillo  e  “Positif”  all’Onorevole  Peppone.  Ci  ritorneremo. 
Cerchiamo, intanto, di analizzare e capire meglio i capi d’accusa, i motivi della rivalità, gli 
attacchi pungenti e gli scatti di orgoglio, i buchi nell’acqua e i buchi che fanno acqua. Spero 
di essere il più oggettivo possibile, anche se le mie convinzioni rendono difficile un’analisi 
asettica. 
Riferimenti extra-cinematografici
Uno dei modi più semplici e diretti, per contestare l’eterna lode e riconoscenza al Dio autore, 
è rivendicare il ruolo determinante di altre persone nella creazione del film. 
Famosa è la frase di Godard: “Il cinema non è un mestiere. È un’arte. Non è una squadra. Si è 
sempre da soli; sulla scena come di fronte alla pagina bianca”. Ecco, i redattori di “Positif” 
pensano esattamente il contrario. 
Non solo l’accostamento cinema-arte fa un po’ arricciare  il  naso al  collettivo (che spesso 
infatti  si  schiera  contro  la  presunta  “artisticità”  di  certi  prodotti),  ma  è  soprattutto 
l’accostamento  regista-scrittore  a  disturbare:  se  da una parte  il  libro  è  espressione  di  una 
singolarità, di una particolarità, il film, al contrario, è sempre un lavoro d'équipe, realizzato da 
un ensemble di persone, tra le quali, anzi, spesso il regista è colui che meno si sporca le mani. 
Più giustamente, per dirla con le parole di Jean Mitry, peraltro molto apprezzato in redazione, 
“il film appare un  lavoro collettivo, ma l’opera di un autore; e di un autore non in sé, ma 
appunto in quanto autore di un’opera”2. 
Questo è  tanto  più vero nel  cinema di  Hollywood,  dove spesso a  fare  la  differenza  sono 
piuttosto produttori, sceneggiatori, direttori della fotografia, attori (si legga l'introduzione del 
positifiano Michel Ciment al Dizionario del cinema americano da lui curato, nella quale non 
rinuncia, nonostante il breve spazio e l'acqua passata sotto i ponti, a una critica ai “Cahiers” 
proprio su questo punto3). Negli 11 (10 più 1 numero estivo speciale) numeri del periodo qui 
analizzato  (il  1976),  troviamo molte  pagine  dedicate  a  queste  figure  “invisibili”,  neanche 
considerate da Godard.
2 CASETTI F., 1993, Teorie del cinema. 1945-1990, Milano, Bompiani, p. 75.
3 CIMENT, M., Prefazione, in CIMENT M., LANCIA E., PASSEK J.L. (a cura di), 1993, Dizionario del  
cinema americano, Roma, Gremese. 
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È il  caso,  ad esempio,  dei  musicisti.  Nel n. 187 ampia è la sezione dedicata  a Herrmann 
(soprattutto),  Korngold,  Steiner,  Waxman  e Rozsa,  in  occasione  dell'edizione  in  vinile  di 
alcune tra le loro musiche per film. Dure le parole di Guy Teisseire: “Il concetto di paternità 
cinematografica  –  la  famosa  politica  degli  autori  –  si  oppone  all’idea  di  un’ingerenza 
straniera, sia essa servile o non, nella filiazione unica dell’opera al suo autore” [R.A. 683]. È 
da dire, d’altro canto, che Steiner è stato proprio Truffaut a riscoprirlo, lo stesso Truffaut che 
con Herrmann ha persino collaborato in  Fahrenheit 451, rivelando in un’intervista di averlo 
scelto perché “solo lui avrebbe potuto darmi una musica del futuro” [R.A. 690]. È anche vero, 
però, che nella lunga analisi che André Bazin stila a proposito di  Quarto Potere il nome di 
Bernard Herrmann non compare neanche una volta. Insomma, la si pensi come si vuole, è un 
dato di fatto che la musica sulle pagine di “Positif” ha un rilievo particolare. Si pensi solo al 
bellissimo saggio di Michel Sineux, Maestro, musique! [R.A. 618], sul ruolo e il significato 
della musica nei film di Stanley Kubrick (qui il riferimento all'autore è inevitabile e dovuto, 
essendo quelle dei suoi film colonne sonore non originali).
Gli attori sono anch'essi particolarmente considerati dalla rivista: Jack Nicholson (saggio più 
intervista), Leslie Caron (intervista), Margaret Sullavan (saggio). Sul n. 186 troviamo anche 
una lunga (e francamente abbastanza difficile per i non addetti  ai lavori) intervista a John 
Alcott,  rivoluzionario direttore  della fotografia di  Barry Lyndon  [R.A. 623], uno dei film-
evento dell'anno precedente;  sul  n.  178 un buon numero di pagine è invece dedicato  alle 
produzioni di Samuel Goldwin “senza Metro né Mayer” [R.A. 101]. 
E  poi  la  letteratura,  ovviamente,  spesso  e  volentieri  considerata  come  una  coordinata 
essenziale dalla critica positifiana, tanto da diventare talvolta il soggetto stesso degli articoli: 
ad esempio, Borges e le sue recensioni cinematografiche nel n. 180  [R.A. 233] (recensioni 
presentate  molto  onestamente,  tra  l’altro,  che  acquistano  rilievo  più  nel  contesto  della 
letteratura borgesiana che in quello della critica cinematografica). Oppure Italo Calvino e la 
sua  prefazione  al  libro  Quattro  film  di  Fellini nel  n°  181  [R.A.  291]:  è  un  contributo 
commovente  e  sincero,  utile  alla  comprensione  dello  scrittore  ligure  e  del  suo  universo 
letterario  ed emotivo,  della  sua fantasmagoria  al  contempo uguale  e opposta  a  quella  del 
regista romagnolo. Sono righe, inoltre, preziose anche nella prospettiva di una riflessione nel 
campo degli  studi culturali  e di ricezione.  O ancora un altro “nostro”: Leonardo Sciascia, 
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interrogato  a  proposito  (ma  non  solo)  di  Cadaveri  Eccellenti (film  che  il  compaesano 
Francesco Rosi ha tratto dal suo libro Il contesto) [R.A. 309].
E non basta, perché i riferimenti letterari (o, in senso lato, extra-cinematografici) abbondano 
anche nel momento in cui si entra nel merito della questione, nelle recensioni vere e proprie. 
Basti  dare un’occhiata  a quella  che Paul-Louis  Thirard fa di  Una vita  difficile  e  Telefoni  
bianchi di Dino Risi [R.A. 704]: metà articolo è dedicato a un brano del libro La vita agra di 
Luciano Bianciardi, il cui protagonista, comunista ma a disagio con i comunisti imborghesiti 
della metropoli, ricorda il rapporto di Risi con la critica cinematografica italiana dell'epoca 
(cioè, dei primi anni '60, gli anni che hanno visto l'uscita di Una vita difficile, appunto). Allo 
stesso modo  si  cerca  di  analizzare  Oshima  per  mezzo  di  Bataille,  Kubrick  per  mezzo  di 
Thackeray, Olmi per mezzo di Kafka. Il cinema, in definitiva, è considerato non come una 
camera stagna, ma al contrario come un mezzo di espressione legato a doppio filo con la 
letteratura  e  la  politica.  In  questo i  positifiani  si  scoprono molto  vicini  all’italiano  Guido 
Aristarco, critico cinematografico marxista per antonomasia e direttore di “Cinema Nuovo”, 
secondo il quale il cinema, per raccontare il mondo, può e deve far tesoro delle esperienze che 
già furono della grande letteratura. È solo in base a un pregiudizio, insomma, che separiamo il 
cinema dagli altri ambiti espressivi”.
Conseguenza logica di questo stretto legame tra i due ambiti  espressivi è l’attribuzione di 
un’importanza particolare al  soggetto.  Se affermare che “il soggetto conta” non sembra,  a 
prima vista, essere un'affermazione particolarmente rivoluzionaria, bisogna considerare invece 
che uno dei principi della politica degli autori era appunto questo: il regista (quello geniale, 
almeno) può riuscire a fare un’ottimo film anche con un soggetto non interessante, e viceversa 
un soggetto molto interessante non basta a fare un buon film se il regista è mediocre. Se, dal 
punto  di  vista  positifiano,  la  seconda è  un’affermazione  incontestabile,  la  prima  è  invece 
contestabilissima. Non è accettabile il concetto secondo il quale non è tanto importante quello 
che un’opera dice ma piuttosto come lo dice.
Duri nei confronti di Marguerite Duras per il fatto che il soggetto del suo Son nom de Venise 
fosse sostanzialmente identico a quello del precedente India Song; nient’affatto  sorpresi  a 
vedere un Fellini imbarazzato che inarca le sopracciglia alla domanda “per lei il soggetto fa la 
differenza?”;  spietati  nei  confronti  de  Il  Messia di  Rossellini  (“la  storia  più  monotona 
raccontata più spesso”: quale critico dei “Cahiers”  si abbandonerebbe alla “bassezza” di tali 
11
affermazioni?).  “Positif” è  attenta,  comunque,  a non cadere nell’esatto  opposto:  conferire, 
cioè, importanza solo ai grandi soggetti (anzi, difendono a spada tratta il cinema di Ermanno 
Olmi da tale genere di critiche). 
Insomma, il contenuto conta, eccome, specie se ha a che fare con la politica. Dalle parti dei 
“Cahiers” dare del contenutista a qualcuno avrebbe rappresentato una grossa offesa. Dargli 
del comunista, probabilmente, anche. Le due cose sono in realtà in stretta connessione4.
L'INTERNAZIONALE
Una seconda, notevole, differenza riguarda l’interesse nutrito per il cinema internazionale, e 
la conseguente importanza relativa data al cinema francese. La politica degli autori, con la sua 
schematicità fissa e preconfezionata, “funzionava” nel caso di opere europee e statunitensi, 
ma  mostrava  la  corda,  a  detta  dei  suoi  detrattori,  quando  si  trovava  alle  prese  con 
cinematografie “marginali”, intendendo con questa espressione tutte quelle opere prodotte in 
un contesto economico-sociale-culturale (soprattutto economico) profondamente diverso. 
Un  certo  imbarazzo,  ad  esempio,  i  “Cahiers” lo  provarono  a  contatto  col  cinema  novo 
brasiliano e con la sua pretesa di essere un cinema popolare, un cinema della fame, in cui 
l’autore più che come una personalità geniale era concepito come una sorta demiurgo della 
sua gente. Un cinema, insomma, per cui il problema autoriale non rappresentava altro che uno 
sterile dibattito borghese, fondato su una concezione “artistica” del cinema, come abbiamo 
visto. Molti registi, soprattutto nel periodo a cui il campione qui analizzato afferisce, hanno 
subordinato  l’arte  al  cinema vero  e  proprio,  fieri  di  fare  un cinema splendidamente  anti-
artistico. Insomma, è impossibile far entrare un Glauber Rocha nel Pantheon, un po’ per la 
schematicità metodologica dei “Cahiers”, un po’ per una loro apoliticità di fondo che spesso, 
come  accusavano  i  positifiani,  virava  a  destra,  verso  lo  sciovinismo,  almeno  in  campo 
artistico. In ogni caso, probabilmente Glauber Rocha e soci non ci sarebbero neanche voluti 
entrare, nel pantheon. Si sarebbero sentiti dei traditori. 
4 Ancora oggi la critica è spaccata sull’importanza effettiva da dare al  soggetto.  La ragione è difficilmente 
attribuibile  a  una  corrente  di  pensiero  piuttosto  che  all’altra,  sono  piuttosto  due  punti  di  vista  diversi, 
complementari e non contraddittori, entrambi giusti o entrambi sbagliati a seconda dei casi.
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“Positif” non ha di questi problemi, non ha le mani in pasta, perché non c'è pasta dove voglia 
mettere le mani. E infatti si avventura nelle cinematografie “marginali” in un modo libero, 
curioso,  un po'  anarchico,  mai  con analisi  “a tesi”.  Non è  importante  che l’autore  sia un 
grande autore o no, spesso non importa quasi che il film sia un grande film. È evidente che 
Xala di Ousmane Sembène ha un sacco di pecche, se confrontato a uno Psycho o a un Quarto 
Potere,  ma a che giova un confronto simile? Molto più interessante,  nel  caso del  cinema 
africano,  studiarne  lo  sfondo:  l’Africa,  la  sua gente,  i  suoi  valori  (bellissimo il  saggio di 
Jacques Binet sul concetto di classe nella società africana [R.A. 764]). Come? Per mezzo del 
soggetto, ovviamente. Parlare, per restare nel caso di Sembène, di falsi raccordi o di piani-
sequenza può risultare alquanto fuorviante. E chiedersi se sia o meno un genio una domanda 
oziosa.
Un occhio è sempre rivolto ad est, sia esso estremo (si veda solo il risalto dato a L’impero dei  
sensi di Oshima, altro film-chiave del 1976) o vicino (Forman, Wajda, Polanski). Non c’è 
snobismo,  ciononostante,  nei  confronti  del  cinema  americano.  Anzi,  vengono  valorizzati 
proprio quei registi che al sistema americano si oppongono, che lo contestano, che lo fanno 
vacillare, in maniera più o meno esplicita: Pakula, Scorsese, Altman, Hellman, Pollack etc. A 
tal proposito, molte sono le critiche rivolte al festival di Cannes, che si sforza ostinatamente di 
non  essere  commerciale,  snobbando  ingiustamente  molti  film  leggeri  (“Come  per 
l'inquinamento, o le costruzioni, non ci sono soluzioni: non possono esistere valide alternative 
a  Cannes”  [R.A.  487]).  Quanto  alla  cinematografia  francese,  essa  viene  considerata  e 
valorizzata  non,  scrive  Michel  Ciment,  con  uno  spirito  da  “crocerossini”,  ma  tramite  un 
confronto costante con quella degli altri paesi, senza la compiacenza critica fin troppo diffusa, 
non solo  sui  “Cahiers”.  Osserva  Barthélemy Amengual:  «Il  meglio  della  qualità  francese 
restava per loro - i “Cahiers” - il meglio in assoluto - “Tartruffaut” non aveva ancora tentato 
di soffocarla né di ridicolizzarla»5. Parole dure, polemiche, in bilico tra la ragione e il vanto. 
Comunque sempre  molto politiche,  espressioni di  un tentativo di stanare un nazionalismo 
nascosto, inespresso, coperto da un silenzio politico (almeno iniziale) che “Positif” non ha 
mai approvato. Ci ritorneremo. 
FIERI DELLA NOSTRA INDIPENDENZA
5 TASSONE, A. (a cura di), 2002, La Nouvelle Vague 45 anni dopo, Milano, Editrice Il Castoro.
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Altro  grande  motivo  di  vanto  di  “Positif” è  la  sua  indipendenza,  intesa  in  senso  lato. 
Indipendenza dalle mode. Indipendenza dalle tendenze ideologiche e critiche del momento. 
Indipendenza dalle (e indifferenza verso le) critiche di altri giornali e di altri paesi (laddove i 
critici  dei  “Cahiers” si preoccupavano moltissimo, ad esempio,  dell'accoglienza negli  Stati 
Uniti dei film francesi). Indipendenza, inutile ripeterlo, dalla politica degli autori. Non solo: 
indipendenza anche da correnti  del  cinema “fatto” e non “scritto” (con chiaro riferimento 
all'interdipendenza tra i “Cahiers” e  i registi della Nouvelle Vague). Indipendenza in fatto di 
credo politico (“Con l'esplosione dello spirito del '68, noi siamo rimasti fedeli a noi stessi”6, 
scrive  Michel  Ciment,  che  prosegue  gongolandosi  del  fatto  che  “Positif” sia  stata  spesso 
tacciata  di  intellettualismo  come  di  anti-intellettualismo,  di  ottusità  marxista  come  di 
conservatorismo di destra).
A  garanzia  di  ciò,  basti  vedere  la  differente  organizzazione  materiale  delle  due  riviste: 
“Positif”  ha  una  gestione  collegiale,  senza  un  capo  unico,  aperta  a  chiunque  voglia 
partecipare. I “Cahiers” hanno sempre avuto un capo che, in qualche modo, dettava le linee di 
forza  del  giornale  (André Bazin,  Eric  Rohmer,  Jacques  Rivette,  Serge  Daney etc.).  Nella 
redazione di “Positif”, utilizzando sempre parole di Ciment, hanno transitato “varie ondate di 
critici, diversi, un'addizione più che un chiodo scaccia chiodo”7. 
Il lato negativo (se lo si vuole considerare tale) di questa concezione acentrica ed eterogenea 
della critica cinematografica è un'inevitabile incoerenza,  che porta ad altrettanto inevitabili 
ripensamenti, talvolta clamorosi. Si pensi solo a Rossellini, da sempre detestato dalla rivista, 
fino alla fine del secolo scorso, quando i positifiani hanno ammesso (arrossendo un poco) lo 
sbaglio compiuto.  Al contrario,  se a  Un gioco estremamente pericoloso di Robert  Aldrich 
viene dedicata una copertina e diversi articoli (n. 182), nel  più recente Dizionario del cinema 
americano8 (realizzato sotto la supervisione di Michel Ciment e con la collaborazione di molti 
amici positifiani), di Un gioco estremamente pericoloso non v'è alcuna traccia. 
6 CIMENT, M., Pour le plaisir: bref survol de cinquante années positives, in AA.VV., 2002, L'Amour du 
cinéma : 50 ans de la revue “Positif”, Parigi, Folio, p. 20
7 CIMENT, M., Pour le plaisir: bref survol de cinquante années positives, in AA.VV., 2002, L'Amour du 
cinéma : 50 ans de la revue “Positif”, Parigi, Folio, p. 14-15 
8 CIMENT M., LANCIA E., PASSEK J.L. (a cura di), 1993, Dizionario del cinema americano, Roma, 
Gremese, p. 34
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