Introduzione
Il motivo per cui ho scelto di affrontare questo tema nasce non solo da una profonda
curiosità nel voler comprendere meglio le dinamiche e le conseguenze derivanti dalla
violenza assistita su minore ma anche dalla necessità dell’insorgenza di affrontare un
argomento come questo, sempre più presente nella nostra realtà quotidiana, a causa
dell’espandersi degli episodi di violenza di genere. Le statistiche nazionali affermano che
nel 65% dei casi di atti di violenza sulle donne vi sia un riscontro di violenza assistita.
La violenza assistita presa in esame in questo elaborato riguarda gli episodi di violenza fra
coniugi, dove la vittima è sempre la madre. Non ho preso in esame il caso contrario, in
quanto la letteratura degli studi scientifici non ha ancora elaborato dati certi ma ciò non
toglie che questo non possa accadere e non debba essere preso in considerazione.
L’attenzione è in particolare rivolta al bambino e al suo legame di attaccamento con il
caregiver materno, poiché queste situazioni di violenza domestica influenzano il loro
rapporto ma anche l’ideale percorso evolutivo del bambino, sia a livello personale che
relazionale. Il presente lavoro è nato quindi con l’intenzione di analizzare il fenomeno
della violenza assistita sia dal punto di vista del legame di attaccamento sia dal punto di
vista del bambino e del suo posto nel contesto scolastico.
Nel primo capitolo ho focalizzato l’attenzione sull’analisi della violenza assistita, sia a
livello giuridico che statistico, ma anche da un punto di vista della letteratura, dal momento
che sembra essere un fenomeno emerso solo recentemente in Italia, sulla scia degli studi
americani, e di cui in loco si è occupato maggiormente il “Coordinamento Italiano dei
Servizi contro il Maltrattamento e l’Abuso all’infanzia”. Sempre all’interno di questo
capitolo ho esaminato, sulla via degli studi sull’attaccamento, il legame della diade
madre-bambino, soffermandomi in maniera dettagliata sulla disorganizzazione
dell’attaccamento, che caratterizza questa relazione. Per concludere ho ritenuto fosse
importante sviluppare la tematica relativa ad un metodo per il recupero di tale reazione,
ovvero la psicoterapia genitore-bambino.
Il secondo capitolo si apre con una riflessione statistica sul coinvolgimento clinico dei
minori rispetto alla violenza assistita e analizza i risvolti nelle diverse aree di
funzionamento del bambino. In particolare, ho analizzato come, a livello biologico e
neurobiologico, tramite la presenza dei neuroni specchio, la violenza assistita incide sul
bambino. Di seguito, ho posto l’interesse sulle conseguenze a livello fisico e cognitivo,
comportamentale e sociale, emozionale e anche psicologico.
Nell’ultimo capitolo ho focalizzato tutta l’attenzione sul bambino vittima di violenza
assistita all’interno del contesto scolastico. Sempre più oggi gli insegnanti si trovano di
fronte a dei bambini che presentano determinate problematiche scaturite dal contesto
familiare di provenienza e nella maggior parte dei casi non sono preparati ad affrontarli.
Ho ritenuto necessario chiarire il ruolo dell’insegnante all’interno della scuola e analizzare
la presenza di un ulteriore insegnante denominato “adulto di riferimento aggiuntivo”, il
quale svolge un ruolo cruciale nell’intervento pedagogico basato principalmente
sull’acquisizione, da parte del bambino, della capacità di costruire una relazione sana ed
equilibrata. All’interno di questo capitolo ho dedicato un paragrafo non solo alla prassi di
collaborazione del docente con i servizi, al fine di poter garantire al bambino un ottimo
intervento, ma anche i doveri dell’insegnante nel momento in cui sospetti che il minore
subisca questo tipo di maltrattamento, poiché com’è emerso da diverse ricerche, egli
essendo un incaricato di pubblico servizio risponde alla legge ed ha la responsabilità
giuridica, e non morale, di segnalare il caso.
1. Violenza assistita: un fenomeno recente in continua crescita.
1.1. Che cos’è la violenza assistita?
A partire dagli anni ’60, l’infanzia e il suo protagonista sono divenuti uno dei fulcri della
società post-bellica, rivendicando e acquisendo diritti che prima di allora non erano stati
portati alla luce, a causa di una differente visione dei soggetti.
L’infante, la cui derivazione latina infănte(m), comp. di ĭn- ‘in-’ e il part. pres. di fāri
‘parlare’; propr. ‘che non parla, che non sa parlare’, non è più considerato solo colui al
quale “dare la parola”, ma diventa un soggetto attivo, il quale elabora informazioni e
possiede attività basilari già esistenti che lo connettono al mondo che lo circonda.
Il particolare interesse che si sviluppa intorno alla figura del bambino fa emergere, come
afferma Di Blasio (2000), non solo un modo differente di concepire l’identità del bambino
ma anche una diversa concezione dell’adulto e della sua funzione educativa, alla luce della
nuova ricerca scientifica che caratterizza lo sviluppo del bambino anche verso una
dimensione interpersonale. Non casualmente, intorno agli anni ’70, lo psicologo e
psicanalista britannico Bowlby (1969), inizia a sviluppare la sua “teoria
dell’attaccamento”, nella quale analizzerà il rapporto dei bambini con le figure adulte di
riferimento.
Da questa ricerca, ma anche dal panorama occidentale che si stava creando intorno alla
figura del bambino, e in particolare alla sua identità, la società civile e le istituzioni
competenti fanno emergere un argomento conosciuto, tuttavia ignorato, del maltrattamento
contro i bambini.
Nel 1981, il IV Colloquio Criminologico di Strasburgo del Consiglio di Europa, definisce
il maltrattamento/abuso “quell’insieme di atti e carenze che turbano gravemente il
bambino attentando alla sua integrità corporea e al suo sviluppo fisico, affettivo,
intellettivo e morale, le cui manifestazioni sono: la trascuratezza e/o lesioni di ordine
fisico e/o psichico e/o sessuale da parte di un familiare o di altri che hanno cura del
bambino.” La definizione, di per sé generale, non lascia dubbi sull’inclusione di qualsiasi
forma di maltrattamento, anche quello più lontano dalla nostra sfera culturale e non, ed è
qui d’obbligo una distinzione tra forme di maltrattamento maggiormente presenti nei paesi
occidentali e quelli in via di sviluppo o poveri, nei quali affiorano problematiche sociali e
culturali.
Nei paesi in via di sviluppo e in particolare in quelli poveri, le forme di maltrattamento si
manifestano nell’abuso extrafamiliare, con particolare riferimento a quelle situazioni in cui
sono presenti problemi sociali e culturali come sfruttamento lavorativo, traffico e vendita
di minori, prostituzione infantile e abuso istituzionale.
Gibbons, Conroy e Bell nell’opera “Operating the Child Protection System: A Study of
Child Protection Practices” (1995) ritengono che l’abuso infantile possa essere classificato
secondo quattro diverse categorie, le quali sono in grado di coesistere dal momento che
questo non si manifesta mai in una forma separata o scindibile, ma comprende diverse e
svariate forme.
La prima categoria riguarda la trascuratezza, con la quale intendiamo una negligenza nei
confronti del bambino che, secondo Bifulco (1998), può essere:
• lieve, ovvero caratterizzata da comportamenti da parte della figura di attaccamento
disattenti ma transitori;
• moderata, caratterizzata da freddezza emozionale nei confronti del bambino;
• marcata, che altro non è che la forma più grave nella quale la figura di
attaccamento presenta un permanente comportamento trascurante.
La seconda categoria riguarda l’abuso sessuale, che la Convenzione del Consiglio
d’Europa svoltasi a Lanzarote sulla protezione dei minori dall’abuso e dallo sfruttamento
sessuale (2007), definisce “ una condotta intenzionale di chi abbia rapporti sessuali con
un minore che non abbia raggiunto l'età del consenso prevista dalla legge dello Stato, o
con un minore di diciotto anni con l'uso della coercizione, della forza, della minaccia o
abusando, anche in ambito familiare, di una posizione di fiducia, autorità, o influenza nei
suoi confronti.” In questa categoria rientrano anche gli abusi di pornografia e prostituzione
infantile.
La terza categoria comprende tutti i maltrattamenti subiti dai bambini da parte della figura
d’accudimento che causano danni fisici, i quali sono volutamente provocati e non sono
collegabili a patologie organiche. Di Blasio (2000) annovera fra questi la sindrome di
Munchhausen per procura, ossia una particolare forma di abuso nella quale un genitore
sottopone il proprio figlio a continue visite mediche e cure inopportune per sintomi o
malattie da lei inventati o indotti.
La quarta ed ultima categoria comprende tutti gli abusi di tipo emozionale o comunemente
detti “ maltrattamenti psicologici”, che comportano un atteggiamento escludente, di rifiuto
e denigrazione da parte della figura di attaccamento verso il bambino, il quale svilupperà
una bassa autostima, l’idea di non essere all’altezza dell’attenzione e dell’affetto del
genitore. Di Blasio (2000) afferma che “in termini generali possiamo considerare come
maltrattamento psicologico la reiterazione di pattern comportamentali o modelli
relazionali che convogliano sul bambino l’idea che vale poco, non è amato, non è
desiderato, o anche la presenza di biasimo protratto , isolamento forzato, critiche,
disparità e preferenze nell’atteggiamento verso i fratelli e, ancora, minacce verbali,
consentire che il bambino assista alla violenza e ai conflitti coniugali o sia spettatore di
aggressioni fisiche di un genitore nei confronti dell’altro o dei fratelli.” In altre parole, Di
Blasio (2000) non fa altro che elencare in maniera dettagliata le sei categorie proposte
dall’Office for the Study of the Psychological Right of the Child dell’Indian University,
che comprendono: disprezzo, terrore, isolamento, sfruttamento e corruzione, la mancanza
di responsabilità emozionale e la trascuratezza nella salute psicologica.
Le forme di maltrattamento sopra citate possono coinvolgere il bambino in maniera
differente, o rendendolo il soggetto dell’abuso, ed è in questo caso che parliamo di
maltrattamento diretto, o solo uno spettatore, e quindi si tratta di maltrattamento indiretto.
Sulla base di quanto detto sopra, la violenza assistita intrafamiliare entra di diritto
all’interno di questa ultima categoria, andando a sua volta, a esplicarsi in una forma
maggiormente diretta o indiretta, come riporta il “Coordinamento Italiano dei Servizi
contro il maltrattamento e l’abuso all’infanzia ( CISMAI)” nella sua definizione, che
afferma che“per violenza assistita intrafamiliare si intende l’esperire da parte del
bambino/bambina di qualsiasi forma di maltrattamento compiuto attraverso atti di
violenza fisica, verbale, psicologica, sessuale ed economica su figure di riferimento o su
altre figure affettivamente significative - adulte o minori. Il bambino può farne esperienza
direttamente (quando essa avviene nel suo campo percettivo), indirettamente (quando il
minore è a conoscenza della violenza), e/o percependone gli effetti. Si include l’assistere
alle violenze di minori su altri minori e/o su altri membri della famiglia e ad abbandoni e
maltrattamenti anche a danno di animali domestici.”
La violenza assistita è un fenomeno ampliamente diffuso nel territorio globale, poichè basti
pensare alla diffusione della violenza di genere in quei paesi che non hanno ancora
riconosciuto dei diritti alla donna, ma è solo in Occidente che si cerca di prendere
coscienza delle problematiche relative al minore, spettatore indiretto della violenza di
genere. Il CISMAI, inoltre, afferma che assistere ad episodi di violenza su una delle figura
di accudimento, spesso rivolti verso la madre del minore , o sui fratelli/sorelle, comporta