I
Tommaso Landolfi, uno scrittore nel Novecento
I.1 : L’uomo
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Una fotografia di Tommaso Landolfi descrive meglio di mille parole
quale fosse la sua personalità: con la mano destra si copre completamente
il volto. Da leggere come un divieto, un avviso di “NO TREPASSING” a
chi tenti di avvicinarsi al suo profilo umano, alla sua intimità. Landolfi con
il suo comportamento poneva un veto, avvolgendo la sua immagine in un
velo di segreti e misteri. Ad una richiesta di notizie dirette, rispose: ”Non è
nelle mie forze”, aggiungendo: ”Dopo tutto anche questo è un dato!”.
Fedele dunque al suo mondo segreto, senza possibilità di aperture, sentiva
forte il bisogno di estraneità, così forte da scegliere di mettersi da parte, di
vivere fuori dalla società, di esaltare la sua esclusione. Una ferma e
assoluta volontà di non appartenenza lo ha sempre accompagnato: egli
teneva soltanto ad essere Landolfi, a stare da solo, chiuso nel suo mondo, a
coltivare il suo giardino; era questa la sua più grande invocazione: dire di
NO alla vita ( ”Ecco forse la mia passione:non…ma come si fa a dirlo così
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apertamente?non vivere”). Una vita evitata, vissuta nell‟ombra, in
sordina, preferendo sempre il silenzio al clamore, senza adattarsi mai alle
regole della società, perché tutto ciò che era pubblico e sull‟orlo della
pubblicità gli dava noia e lo offendeva. Così come lo ripugnava tutto
quanto sapeva di organizzazione, di istituzione: la cosa per lui più
importante era lasciare agli uomini tutta la libertà possibile. Ecco perché
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La fotografia appare nel risvolto de “LA BIERE DU PECHEUR”
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“Il villaggio di X e i suoi abitanti”in “Se non la realtà”
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tutto quanto gli sembrava regolato o istituzionalizzato lo metteva in
allarme e lo portava a opporre il più chiaro e netto dei rifiuti (anche su
questo punto sta scritto il movimento che lo ha spinto a vedere nel gioco
d‟azzardo l‟unica via di salvezza dell‟uomo, sostituendo alla legge fatta per
sistemare, per regolare la vita, il caso. Ma della teoria sul gioco e dei suoi
riflessi sulla letteratura se ne parlerà dettagliatamente più avanti). Landolfi
non voleva nemmeno avere idee politiche: non era né fascista né
antifascista, nell‟ambito delle azioni (certamente era per natura e per
religione umana antifascista, e come tale passò anche qualche tempo in
carcere; ma tuttavia non si avvicinò mai ad alcun tipo di impegno politico
in senso pratico); ma, detto questo, non lo si può nemmeno considerare un
anarchico, poiché l‟anarchico, in fin dei conti, coltiva una sua idea di
società. Landolfi invece manifestava sempre il suo distacco da tutto; anche,
in parte, dalla sua stessa attività di scrittore: nel senso che egli avrebbe
avuto tutti i numeri per diventare un grande protagonista della nostra
letteratura (e non è che poi non lo sia stato), ma l‟essere protagonista
avrebbe avuto come conseguenza una facoltà di adattamento avversa al suo
spirito, lo avrebbe costretto a tuffarsi nella realtà, nella mondanità, a
diventare personaggio della cronaca, quando invece, lui, non voleva
neanche recarsi di persona a ricevere i premi letterari vinti, che accettava
più che altro valutandoli come puri aiuti finanziari. Scrittore solitario,
dotato di una cultura ricchissima e singolare, Landolfi si è sempre sottratto
a un ruolo pubblico di intellettuale, difendendo gelosamente un suo spazio
personalissimo e privato.
Era un bell‟uomo, chiamato dagli amici “il bel tenebroso”: raffinato ed
elegante, al suo fascino si accompagnava un che di inquietante e
misterioso.
Un umore malinconico, un groviglio psicologico dai contenuti più che mai
enigmatici e ineffabili, accompagneranno tutta la scrittura di Landolfi, la
quale prende avvio da una lacerazione segreta che egli stesso indica come
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insufficienza esistenziale, legata al fatto stesso di vivere e di scrivere.
Quella mano che copre il volto, allora, serve a proteggere la sua identità
ma soprattutto il suo cuore trafitto dal dolore della vita stessa, e
rappresenta, per dirla con le parole del suo amico Carlo Bo, ”quasi un
simbolo, quasi volesse dire che di uno scrittore conta soltanto la mano,
mai il volto che per forza di cose riflette il disordine e il dolore del
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mondo”.
I.2 : Cenni biografici e produzione letteraria
Il 9 Agosto 1908 Tommaso Landolfi nasce a Pico, un paesino nell‟attuale
provincia di Frosinone, ma allora sotto la giurisdizione di Caserta (il
mutamento è avvenuto nel Ventennio, ma lo scrittore non si riconoscerà
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mai come appartenente a tale area geografica, linguistica o culturale). La
famiglia del padre Pasquale è una delle più antiche della regione (di
discendenza longobarda e in seguito sempre vicina ai regnanti sul trono di
Napoli), e lo scrittore si definisce come “Ultimo forse rappresentante
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genuino della gloriosa nobiltà meridionale”. Landolfi resterà sempre
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legatissimo ai luoghi d‟origine, al seicentesco “palazzo avito”, che tanta
parte avranno nei suoi testi. Un legame profondo e viscerale quello tra la
propria ispirazione letteraria e il paese nativo: in questo luogo la penna,che
altrove “s‟impunta”, corre. La maggior parte della produzione landolfiana
è infatti ascrivibile ai periodi trascorsi a Pico, i cui testi, contrariamente a
quelli composti altrove, di gran lunga più tormentati, sono dotati di
pochissime correzioni e spesso frutto di una “seduta” unica notturna. Lo
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Prefazione a “Opere,volume I”
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vd. ”I contrafforti di Frosinone” in “Se non la realtà”.
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in una delle pagine finali de “LA BIERE DU PECHEUR”.
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come lo definisce in “Ricettacolo dei sogni”, in “Il tradimento”.
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stesso Landolfi si domanda: ”A che si debba il fatto, se all’inchiostro,
all’aria del luogo o a più seri e segreti motivi, non so”.
Nel 1910 Landolfi, che ha nemmeno due anni, perde la madre: è il dramma
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non solo dell‟infanzia, ma dell‟intera vita, mai pienamente superato.
Trascorre i suoi primi anni di vita con il padre tra Pico e Roma, e viene
spesso affidato alle cugine Tumulini,figure di grande importanza per
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Landolfi. E‟ un bambino bellissimo (come sarà un bellissimo uomo),
timido e schivo. Già nei primissimi componimenti infantili fa emergere la
sua vocazione di scrittore firmandosi ”Tommasino poeta” e affermando (in
una letterina augurale al padre): ”voglio diventare uno scrittore di libri”.
Frequenta le scuole superiori a Montepulciano, dove intraprende le prime
letture: “Robinson Crusoe”, “I miserabili”, e poi Salgari, Daudet, Verne,
Dumas(padre); e agli anni di Montepulciano risale l‟inizio della lunga serie
di componimenti poetici (soprattutto sonetti) a cui si dedicherà per tutta
l‟adolescenza e prima giovinezza; dopo una pausa di molti anni, pur non
accantonando mai del tutto la poesia, vi tornerà con il corpus delle liriche
di “Viola di morte”(1972) e“Il Tradimento” (1978).
Nel 1919, dopo due anni a Montepulciano, il padre decide di mandare
Tommaso a studiare in collegio, al Cicognini di Prato, prima, poi a Roma i
tre anni successivi. L‟esperienza del collegio fu senza dubbio una di quelle
che segnarono tragicamente la vita di Landolfi: insofferente per carattere a
qualsiasi genere di autorità e costrizione (motivo per cui fu ritenuto non
idoneo al servizio militare), solitario e introverso per natura, è facile
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immaginare cosa significasse per lui la vita in comune. Il suo profitto
scolastico sarà d‟ora in poi scadente (ad eccezione dell‟Italiano, scritto e
orale), preferendo egli occupare il proprio tempo nel coltivare i propri
interessi a scapito delle materie “ufficiali” (ed è ciò che farà anche negli
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si veda a proposito la confessione iniziale di “Prefigurazioni:Prato”;ma sono presenti riferimenti anche in “Rien va”e
“Il tradimento”.
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Landolfi ne parla in “Ultime donne in casa nostra”,un brano di memoria di “Diario perpetuo” apparso sul “Corriere
della sera” del 3 Giugno 1978.A Fosforina dedica “Il Mar delle Blatte”.
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Della traumatica esperienza collegiale ne parla in”Prefigurazioni:Prato”.
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anni dell‟Università); in particolare si dedica alla poesia e alle lingue
straniere, nel cui apprendimento appare da subito eccezionalmente dotato:
intraprende lo studio del francese e dello spagnolo, prime lingue che viene
a conoscere compiutamente. Il primo anno di collegio termina con una
semi-bocciatura (viene rimandato in tre materie), e l‟insofferenza per la
vita di collegio diviene ogni giorno più forte, tanto che l‟anno seguente
scappa senza permesso dall‟istituto, venendo quindi bocciato per cattiva
condotta. Ripete dunque l‟anno (siamo nel 1923), ma alla svogliatezza per
gli studi si assommano episodi di indisciplina che spingono il rettore del
convitto a scrivere al padre di Landolfi, consigliandogli di ritirare il figlio
dal collegio. Frequenta allora la I liceo classico al “Torquato Tasso” di
Roma: ora è assai più sereno, ma i profitti rimangono ugualmente scarsi
(Italiano escluso), al punto che subisce una seconda bocciatura. Il padre di
conseguenza decide di affidarlo ad uno zio a Trieste, dove Landolfi leggerà
con entusiasmo D‟Annunzio e, in lingua,Maupassant e Balzac, oltre ad
autori spagnoli come Cervantes e Miguel de Saavedra; inoltre scrive ora
correntemente in francese e spagnolo. Tornato a Roma nel ‟25, divora i
classici italiani del Tre, Quattro e Cinquecento e studia lingue come
l‟arabo, il polacco, l‟ungherese, il giapponese, lo svedese, di cui si fa
arrivare le grammatiche. Nel ‟27 supera l‟esame di maturità da privatista,
ma in quell‟anno è preda di terribili depressioni, si fa sempre più evidente
il suo animo inquieto: ogni cosa gli appare inutile.
Si iscrive dunque alla Facoltà di Lettere all‟Università di Roma,che
frequenterà poco e male, per trasferirsi nel ‟28 a Firenze (che definisce
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come “Città unica”). Gli anni fiorentini sono per lo scrittore decisivi
riguardo alla sua formazione culturale: non quella di stampo accademico,
quanto piuttosto ciò che gli deriva dal clima di fermento, di apertura verso
le letterature europee. La vita da studente consiste nel tenersi il più
possibile lontano dall‟università, allargando e approfondendo invece le
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in “Des mois”
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proprie conoscenze: Renato Poggioli (che sarà slavista insigne in una
università americana), Carlo Bo e Leone Traverso (futuro docente di
germanistica ad Urbino) sono in al senso i primi interlocutori di Landolfi
ed amici tra i più cari, con i quali parlava assiduamente di letteratura nei
vari caffè che frequentavano: ”Tolta qualche partita a bigliardo, la nostra
unica e beata occupazione era parlare di letteratura; (…) Lì, per i vari
caffè nei quali ci si faceva addirittura rinchiudere, per lo scorcio della
notte dedicato alle pulizie, se non avessimo ancora sviscerato la questione
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che stavamo dibattendo (…)”.
Insieme allo studio della lingua russa, cui ben presto si affiancherà quello
della tedesca, Landolfi legge voracemente i classici delle letterature
europee. Avrà, inoltre, sempre un particolare interesse per le regole
grammaticali e sintattiche delle varie lingue (italiano in testa), così come
per i dialetti, di cui possedeva repertori e glossari: la lingua, insomma, il
modo misterioso in cui essa nasce e si sviluppa, costituisce per lui un
formidabile polo di attrazione (tanto da spingerlo al tentativo di forgiare
egli stesso una lingua nuova, in “Dialogo dei massimi sistemi”).
Negli anni dell‟università Landolfi comincia anche ad appassionarsi al
gioco d‟azzardo: nelle innumerevoli bische della città (soltanto in seguito
Venezia e San Remo diventeranno le sue mete) nasce e si accresce in lui la
passione parallela o sovrapponibile a quella per la scrittura, alla vita stessa;
sul gioco, sul significato universale di cui lo investe, lascerà pagine
intense, facendone il centro di una speculazione assai più vasta. Il gioco
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come “volontà di potenza”, esso non è null‟altro che una
rappresentazione del mondo; ogni stato d‟animo da ciò generato è “stato
generale e profondo, non relativo soltanto al gioco, ma a tutto; ossia
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sentimento del mondo”; ”Sia dunque lode al gioco, la più alta attività
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“Morte di un amico”in”Un paniere di chiocciole”
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“Rien va”
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“LA BIERE DU PECHEUR”
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dello spirito umano!”. Da ciò la perenne mancanza (con conseguente
ricerca) di soldi, sempre pochi anche per uno studente ricco come lui: le
cifre, anche quelle vinte, sono spesso molto alte, ma non c‟è vincita
(nemmeno una estremamente cospicua) a cui non segua una rovinosa e ben
maggiore perdita.
Gli esami universitari procedono a rilento e con risultati poco brillanti
(tranne nelle sue materie predilette, letteratura italiane e straniere) ma
tuttavia l‟orizzonte culturale di Landolfi si fa sempre più vasto (le letture di
questo periodo universitario riguardano in particolare Gobineau, Stendhal,
Edgar Allan Poe, Wilde, Calderon, Rimbaud e Baudelaire, cui si
aggiungono Puskin e Lermontov, questi ultimi autori prediletti e
magistralmente tradotti in avvenire) e, soprattutto, nel 1929 viene
pubblicato il suo primo racconto, ”Maria Giuseppa”, sulla rivista “Vigilie
letterarie”.
Nel 1932 consegue la laurea, con argomento di tesi l‟opera di Anna
Achmatova, poetessa russa allora vivente.
Nel ‟33 parte per Berlino, allo scopo di perfezionare la sua conoscenza
della lingua tedesca; ma il viaggio dura poco, poiché si abbandona al gioco
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d‟azzardo ed esaurisce ogni risorsa finanziaria.
Fra il ‟33 e il ‟34 Landolfi è di nuovo a Roma, dove collabora con diverse
riviste (“Occidente”, ”L‟Europa orientale”, ”L‟Italia letteraria”,
”Caratteri”) con brani di critica su autori russi come Bunin, Pasternak,
Remizov, Petrov, Tolstoj, Gogol, Dostoevski, nonché qualche traduzione;
si occupa sempre di poesia francese e tedesca; pubblica su “Europa
orientale” la sua tesi di laurea, e su “caratteri” (mensile diretto da
Pannunzio) vede la luce (nel‟34) il racconto “Morte del re di Francia”che
confluirà, così come “Mani” e ”La piccola Apocalisse” (scritti nel‟35), in
“Dialogo dei massimi sistemi” del 1937. E‟ bene chiarire ora, una volta
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“Lettera di un romantico sul gioco”in”La Spada”
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Del viaggio a Berlino e delle vicende legate al gioco d‟azzardo Landolfi ne parla in “Rien va”
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