1
Introduzione
Prima di entrare nel vivo dell’analisi del fantastico in relazione alle canzoni e ai film dei
Beatles, occorre fare una breve ma doverosa premessa per chiarire quale sia il rapporto
tra musica e letteratura. L’assegnazione del premio Nobel per la Letteratura a Bob Dylan
nel 2016 ha alimentato la già accesa discussione sul valore letterario dei brani musicali.
La canzone è stata a lungo considerata un prodotto minoritario, dimenticando che affonda
le proprie radici nell’antichità – più precisamente, nella poesia lirica. Come afferma
Umberto Fiori riportando un’argomentazione dei sostenitori della natura colta della
canzone, questo genere è “una forma meno elitaria ma più nobile […] della poesia”
1
.
Infatti, già presso le corti medievali francesi tra l’XI e il XIII secolo, i trovatori e i trovieri
cantavano poemi accompagnandosi con strumenti musicali quali arpa, viella o liuto. I
primi, nell’area provenzale, prediligevano liriche d’amor cortese in lingua d’oc, mentre i
secondi, nella Francia settentrionale, tramandavano chansons de geste in lingua d’oil,
ossia poemi incentrati sulle imprese dei cavalieri. Degno dell’ambiente in cui si esibivano,
lo stile dei trovatori e trovieri era elaborato e colto, alle volte enigmatico (trobar clus)
oppure più comprensibile (trobar leu). Talvolta, come nel caso di Guglielmo IX duca
d’Aquitania e Alfonso II d’Aragona, erano gli stessi sovrani a produrre poesie liriche
2
.
Inoltre, alcuni trovatori eseguivano personalmente i loro componimenti, proprio come i
cantautori moderni: basti pensare a Cercamon, Marcabru, Alegret e Guiraut de Calanso
3
.
Ciò nonostante, queste ultime sembrano essere per lo più eccezioni, in quanto sono giunte
a noi testimonianze di autori provenzali, come ad esempio Guiraut de Borneil
4
, i quali
erano soliti ingaggiare giullari o strumentisti per l’interpretazione dei brani.
Sul modello provenzale, nei paesi di lingua tedesca nel XII secolo i Minnesänger
iniziarono a produrre liriche di argomento amoroso, eseguite anch’esse a corte. L’usanza
delle performance con accompagnamento musicale davanti a un sovrano era già popolare
nell’Alto Medioevo. Nel II capitolo del poema epico Beowulf, infatti, viene descritto un
banchetto presso la corte anglo-danese Heorot, in cui “There was the music of the harp, /
1
Umberto Fiori, “In un supremo anelito. L’idea di poesia nella canzone italiana” in Umberto Fiori,
Scrivere con la voce. Canzone, Rock e Poesia, Milano, Edizioni Unicopli, 2003, p. 31.
2
Ruth Harvey, “Courtly culture in medieval Occitania” in Simon Gaunt, Sarah Kay (eds.), The
Troubadours. An Introduction, Cambridge, Cambridge University Press, 1999, p. 16.
3
Joseph Harris, Karl Reichl, “Performance and Performers” in Karl Reichl (eds.), Medieval Oral
Tradition, Berlino, De Gruyter, 2012, p. 180.
4
U. Fiori, “In un supremo anelito”, cit., p. 31.
2
The clear song of a poet, perfect in his telling / Of the remote first making of man’s race”
(II. v. 89-91)
5
. Allo stesso modo, “The song of the poet / Again rang in Heorot” (VIII v.
496-497)
6
durante i festeggiamenti in onore di Beowulf, l’uccisore di Grendel.
Ma la musica, pur avendo origine dalla poesia, prende col tempo una strada parallela a
essa. Umberto Fiori, difatti, evidenzia che proprio con i trovatori ha avuto inizio il lungo
processo di emancipazione della poesia dalla musica e viceversa, che ha portato alla loro
autonomia: la prima, ferma nel tempo e destinata “al silenzio della pagina”, mentre la
seconda, effimera, “cerca un linguaggio di puri suoni”
7
capace di far emozionare
l’ascoltatore. Questo però non implica che la prima sia inferiore alla seconda o viceversa;
semplicemente, esse non vanno confuse. Molto spesso sono infatti gli stessi cantautori,
come Bob Dylan e Fabrizio De André, a rifiutare l’appellativo “poeta” datogli dalla
critica, riconoscendo la distanza tra essi e i veri poeti.
Inoltre, si può notare quanto la canzone si sia emancipata dalla poesia lirica medievale
nelle considerazioni fatte da Dante Alighieri nel trattato De Vulgari Eloquentia. Nel
capitolo VIII del libro II, Dante spiega che
il termine “canzone” si può assumere in due sensi: in uno, in quanto è costruita dal suo creatore,
e in tale senso è azione – è in questa accezione che Virgilio nel primo dell’Eneide dice “Canto
le armi a l’eroe” –; in un altro in quanto, una volta costruita, venga recitata dal suo creatore o da
chiunque altro, con o senza modulazione della melodia: e in questo senso è passività. Perché in
quel caso è agita, in questo agisce invece su un altro, e così là si rivela come azione fatta, qui
come azione subita da qualcuno. E poiché in realtà è agita prima di agire a sua volta, sembra più
opportuno, anzi necessario che tragga la sua denominazione dal fatto che è agita, ed è azione di
qualcuno, piuttosto che dal fatto che agisce su altri. Prova ne è che non diciamo mai “Questa è
una canzone di Pietro” in quanto Pietro la reciti, ma in quanto l’abbia costruita.
8
Mentre nel Medioevo l’autore del testo veniva prima dell’interprete, oggi, se si pensa a
canzoni come Emozioni, Pensieri e parole o E penso a te, istintivamente si dice “Queste
sono canzoni di Lucio Battisti”, senza tenere in considerazione la collaborazione con il
paroliere Mogol. E questo è ancor più evidente nel caso di Fabrizio De André:
dimentichiamo, infatti, il sodalizio tra il cantautore genovese e Massimo Bubola, che ha
portato alla realizzazione degli album Rimini e Fabrizio De André (L’indiano); o ancora,
5
Michael Alexander, Beowulf. A verse translation, Londra, Penguin Books, 1973, p. 53.
6
Ivi, p. 66.
7
U. Fiori, “La canzone è un testo cantato. Parole e musica in De André” in U. Fiori, Scrivere con la voce.
Canzone, Rock e Poesia, Milano, Edizioni Unicopli, 2003, p. 44.
8
Dante Alighieri, De Vulgari Eloquentia, Trad. it.
http://www.danteonline.it/italiano/opere.asp?idope=3&idlang=OR (ultimo accesso 01/02/2021).
3
diciamo che gli album Storia di un impiegato e Non al denaro non all’amore né al cielo
sono di Fabrizio De André, nonostante egli sia stato aiutato da Nicola Piovani per gli
arrangiamenti e da Giuseppe Bentivoglio per i testi, che sono la trasposizione in musica
di nove epitaffi dall’Antologia di Spoon River di Edgar Lee Masters. De André e
Bentivoglio si impegnano a non stravolgere i testi originali, ma piuttosto li attualizzano:
avvicinano i personaggi di Masters alla realtà dell’ascoltatore, li “strappa[no] dalla
piccola borghesia della piccola America [del] 1919” per “inserirli nel nostro [degli italiani
negli anni Settanta] tipo di vita sociale”
9
, come spiega lo stesso De André nel 1971 a
Fernanda Pivano, la traduttrice dell’edizione italiana di Spoon River Anthology. Inoltre,
il cantautore genovese e Piovani scelgono di accompagnare i versi con melodie semplici
e mai invadenti; si può quindi osservare che la musica non prevale sulla poesia, ma anzi
queste due arti si fondono perfettamente.
In sostanza, canzone e poesia sono oggi due generi letterari separati ma sullo stesso livello
di importanza. Per questo motivo, è necessario analizzare le canzoni nella loro interezza
e non come meri testi poetici: occorre quindi esaminare sia la loro componente musicale
che quella testuale, e il rapporto tra esse. Tuttavia, per quanto riguarda i brani dei Beatles
qui presi in esame, farò affidamento agli studi di Wilfrid Mellers, Ian MacDonald e
Howard Goodall, non avendo io alcuna competenza in campo musicale.
Aggiungo, infine, un’ultima precisazione: a parte In My Life, mi focalizzerò solamente
sulle canzoni scritte da Lennon e McCartney a partire dal 1966. È proprio da quell’anno
che i Fab Four, raggiunta la maturità artistica, smettono di produrre leggeri brani
sentimentali, che evocano vitalità e innocenza edenica, e iniziano invece a sperimentare
e a dare un tocco di surreale ai loro successi.
9
Anon., “Fernanda Pivano intervista Fabrizio De André”, La poesia e lo spirito, 22/08/2009,
https://lapoesiaelospirito.wordpress.com/2009/08/22/fernanda-pivano-intervista-fabrizio-de-andre/
(ultimo accesso 01/02/2021).
5
CAPITOLO 1
Il fantastico nelle canzoni dei Beatles
1.1 Che cosa si intende per “fantastico”?
I critici si sono resi conto di quanto sia difficile classificare il fantastico, data la sua
ambiguità, e soprattutto sembra impossibile trovare una definizione che possa essere
accettata da tutti e che faccia riferimento a ogni sfaccettatura e contraddizione che
caratterizzano questo genere letterario. Dopotutto, sono gli stessi personaggi, e gli autori
dietro di loro, i primi a non riuscire a dare una spiegazione razionale agli eventi accaduti.
Talvolta faticano addirittura a trovare le parole giuste per raccontare ciò a cui hanno
assistito, ed è proprio quello che succede al protagonista di The Door in the Wall di H. G.
Wells:
Afterwards, as I sat up in bed and sipped my morning tea, I found myself trying to account for
the flavour of reality that perplexed me in his impossible reminiscences, by supposing they did
in some way suggest, present, convey — I hardly know which word to use — experiences it was
otherwise impossible to tell.
1
È interessante notare come in questa frase venga ripetuto due volte il termine
“impossible”, una parola ricorrente nel fantastico. Le esperienze di cui parla il narratore
sono impossibili da raccontare perché inspiegabili razionalmente; ciò nonostante, egli
percepisce un lieve sentore di realtà in ciò che l’amico gli aveva confessato la sera
precedente. Questo è tipico del fantastico: è infatti frequente che i protagonisti si chiedano
“sogno o son desto?”, senza però riuscire a darsi una risposta.
La più famosa teorizzazione del fantastico si deve a Tzvetan Todorov, con Introduction à
la littérature fantastique nel 1970. Il tratto distintivo del fantastico è l’esitazione “provata
da un essere il quale conosce soltanto le leggi naturali, di fronte a un avvenimento
apparentemente soprannaturale”
2
. Questa esitazione è condivisa sia dal lettore che dal
protagonista dell’opera, i quali “debbono decidere se ciò che percepiscono fa parte o
meno del campo della ‘realtà’ quale essa esiste per l’opinione comune”
3
. Distinguere la
1
H. G. Wells, The Door in the Wall, Londra, Penguin Books, 2011, p. 2.
2
Tzvetan Todorov, La letteratura fantastica, Milano, Garzanti Editore, 1977, p. 26.
3
Ivi, p. 43.
6
finzione dalla realtà è piuttosto complicato per il lettore, poiché, per essere tale, l’opera
fantastica deve aprirsi con una situazione quotidiana in cui egli possa riconoscersi, la
quale viene improvvisamente stravolta dall’intervento dell’elemento soprannaturale. Ed
è almeno su questo che tutti i teorici sembrano concordare. Infatti, se si prendono in esame
le definizioni date da Marcel Schneider e Roger Caillois, si può notare che esse esprimono
il medesimo concetto: se per il primo il fantastico è “un prodotto di rottura, una
lacerazione improvvisa nell’esperienza vissuta nel quotidiano”
4
, per il secondo “è rottura
dell’ordine riconosciuto, irruzione dell’inammissibile all’interno della inalterabile
legalità quotidiana”
5
.
Di conseguenza, risulta chiaro che le fiabe e le storie fantasy non possono essere
categorizzate come fantastiche, poiché sono ambientate in un tempo remoto (“C’era una
volta...”) “in un paese lontano lontano”, in cui animali possono parlare, il bene trionfa sul
male e povere ragazze riescono a sposare il principe del reame vivendo “per sempre felici
e contenti”. In altre parole, accadono eventi magici e surreali, che il lettore – perlomeno
il lettore adulto – sa con certezza non possono verificarsi nel proprio mondo. Ed è per
questo che, quando leggiamo Hänsel und Gretel o The Lord of the Rings, non ci assale
quel sentimento di perturbazione e spavento, che invece ci accompagna dalla prima
all’ultima pagina dei racconti di Edgar Allan Poe o Stephen King. Eppure, le fiabe dei
fratelli Grimm non sono prive di elementi macabri destabilizzanti, che giustamente
vengono omessi nelle versioni per i bambini. Basti pensare a Das Mädchen ohne Hände
(La fanciulla senza mani), dal titolo ben poco rassicurante, oppure ad Aschenputtel
(Cenerentola), in cui le sorellastre si tagliano un pezzo di piede per poter indossare la
scarpetta di cristallo, o ancora a Schneewittchen (Biancaneve), in cui la matrigna viene
costretta a indossare scarpe incandescenti e a ballare fino alla morte come punizione per
aver tentato di uccidere Biancaneve.
Se le fiabe non appartengono a questo genere poiché le vicende si verificano in un tempo
remoto e indeterminato, allo stesso modo i racconti utopici e distopici non possono essere
considerati fantastici. In essi, “partendo da premesse irrazionali, i fatti si concatenano in
modo perfettamente logico”
6
. Più che di esitazione, si parla in questo caso di adattamento:
4
Marcel Schneider, La littérature fantastique en France, Parigi, Fayard, 1964, cit. in Silvia Albertazzi, Il
punto su: la letteratura fantastica, Bari, Laterza, 1995, p. 4.
5
Roger Caillois, Au coeur du fantastique, Parigi, Gallimard, 1965, cit. in S. Albertazzi, Il punto su: la
letteratura fantastica, Bari, Laterza, 1995, p. 4.
6
T. Todorov, La letteratura fantastica, cit., p. 59.