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Premessa
Signori, come fu sempre di conforto ai viventi riandare col pensiero alla memoria dei
tempi trascorsi, e le vicende degli uomini e delle cose, per trarne ammaestramento,
considerare; e come al viandante, che compieva lungo ed aspro cammino, si solleva
lo spirito col riguardare dietro di sé; così coloro che diedersi interamente alle scienze
piace conoscere quali ne furono gli antesignati e i maestri, e per quali vie e dopo
quali erramenti salirono in fama e si resero benemeriti della civile convivenza.
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Aprendo l’anno accademico 1880/1881 dell’Università di Torino con queste parole,
il 3 novembre del 1880, Ariodante Fabretti, titolare della cattedra di archeologia, si
inseriva in una corrente di pensiero – che traeva la propria origine dalla metodologia
tedesca e che incontrava ancora molti consensi tra gli studiosi piemontesi – secondo
la quale rivestiva basilare importanza la ricostruzione delle origini storiche dei
documenti e degli studi ad essi collegati. Così egli ricordava, poco più avanti, i nomi
di coloro che per primi si erano occupati dell’epigrafia piemontese:
Leggevano e primi pubblicavano iscrizioni piemontesi un Domenico Belli, meglio
conosciuto col nome di Maccaneo dalla sua patria Maccagno, e poco dopo
Gaudenzio Merula e il fiorentino Gabriele Simeoni; ai quali tenne dietro Filiberto
Pingone; il bresciano Giammaria Maccio produceva talune epigrafi torinesi, con
altre di Alba, di Aqui e di Asti. [...] Né più accorto fu il francese Samuele Guichenon,
che nel 1660 mise alla luce una raccolta di cencinquanta iscrizioni di Torino [...] Di
altre epigrafi, per ignoranza smarrite, lasciò il ricordo Filippo Malabaila; ma le sue
memorie astigiane impinguò di lapidi, che impure riconosceva lo stesso Agostino
della Chiesa, vescovo di Saluzzo, benemerito della storia piemontese.
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Maccaneo, Merula, Simeoni, Pingone, Guichenon, Maccio e ancora Malabaila e
Agostino Della Chiesa furono i primi a raccogliere, a detta di Fabretti, le iscrizioni
latine nel territorio piemontese. Dunque, questi sono i nomi dei primi personaggi che,
in Piemonte dagli inizi del XVI secolo, decisero di proporre nelle proprie opere le
antichità romane.
In seguito alle prime raccolte pioneristiche menzionate da Fabretti, l’epigrafia
piemontese è stata oggetto di studi sempre più approfonditi, culminati nell’Ottocento
con i lavori di Carlo Promis, Theodor Mommsen e dello stesso Fabretti. A loro volta,
gli antichisti del XVIII e del XIX secolo sono stati studiati e il loro lavoro è stato
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Il Discorso letto per l’inaugurazione dell’anno accademico 1880-81 nella R. Università di Torino li
3 novembre 1880 dal Professore Ariodante Fabretti è contenuto in Discorso inaugurale e annuario
accademico 1880-81 stampato a Torino dalla Stamperia Reale il 5 febbraio 1881. Più precisamente si
vedano le pagine 5-14. La cit. è a p. 5.
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Ibid., pp. 7-8.
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analizzato da un punto di vista metodologico e contenutistico in importanti contributi
pubblicati negli ultimi decenni. Viceversa, i primi eruditi che tra Cinquecento e
Seicento si occuparono dell’epigrafia latina del Piemonte non sono, dopo l’interesse
suscitato a fine Ottocento, stati ulteriormente studiati. Da questa constatazione nasce
il presente lavoro: scopo della ricerca che viene qui offerta è una ricostruzione delle
biografie dei principali personaggi citati da Fabretti nel suo discorso, al fine di
comprenderne motivazioni, strumenti, metodi e approcci.
Gli eruditi presentati provengono da storie personali diverse, da formazioni
differenti, da paesi disparati. Gabriele Simeoni era fiorentino e fu un avventuriero
delle lettere, uno sperimentatore della scrittura: era un soldato che si dilettava a
comporre poesie e nello stesso tempo viaggiava alla ricerca di gloria e delle antichità
romane; non solo tradusse dal francese due trattati sugli usi e costumi di Roma ma
trascrisse su di un taccuino tutte quelle iscrizioni che scorgeva durante i suoi viaggi.
Così, quando la guerra lo portò a Torino, appuntò e riprodusse per primo sui suoi
fogli la nota iscrizione di Gavio Silvano, patrono della città. Gaudenzio Merula,
insegnante della campagna novarese, fu portato dalle sue capacità didattiche a Torino
e fu qui che un decurione torinese gli aprì gli archivi della città perché potesse
ricostruire, secondo un gusto antiquario e geografico, la storia di Torino dalle origini.
Sfortunatamente il progetto di Merula non venne completato, perché fu allontanato
dalla città, accusato di essere un eretico. Giovanni Mario Maccio nacque a Brescia e
fu uno dei più celebri professori del XVI secolo: insegnò nella sua città, ad Asti, a
Pavia e ad Alessandria. Non insegnò mai a Torino, ma scrisse un’opera intitolata
Opinionum, all’interno della quale inserì alcune iscrizioni, le quali – sosteneva –
fossero proprie della città. Emanuele Filiberto Pingone fu un umanista e storiografo
del XVI secolo. Dopo la laurea, intorno al 1550, si recò a Roma e proprio del periodo
romano è una raccolta di antichità, che non fu mai stampata ma che è molto
importante poiché testimonia come cominciò a raccogliere iscrizioni fin da giovane.
Riunì tutto il materiale ritrovato nell’Augusta Taurinorum, opera che racconta di
anno in anno la storia della città fino ai suoi tempi. Pirro Ligorio, napoletano, fu un
artista poliedrico e abile falsificatore, apprezzato dai Savoia, che non esitarono a
spendere diciottomila ducati per ottenere i suoi ventisei preziosi codici illustrati,
strappandoli a Luigi XIII di Francia. Samuel Guichenon, francese di nascita, era un
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avvocato divenuto storiografo, che ebbe il compito – a metà XVII secolo – di
redigere la genealogia della famiglia dei Savoia. Per realizzare questo immenso
compito lavorò su ogni documento che riuscì a trovare, dagli atti degli archivi dei
Savoia, a quelli del Delfinato e di Borgogna; dai documenti relativi ai monasteri ai
documenti delle nobili famiglie. Inoltre, si fece aiutare dalla paleografia,
dall’epigrafia, dalla numismatica affinché le sue considerazioni potessero avere un
riscontro reale, attestato, scritto. Sei uomini nati in luoghi diversi, molto lontani tra di
loro, sei uomini che praticavano mestieri diversi eppure accumunati da quelle
iscrizioni che hanno riscoperto e che sono riconducibili alla città di Torino. Il loro
lavoro di riscoperta dell’antichità piemontese attraverso il documento epigrafico si
inserisce in un processo più ampio di recupero dell’antico, intrapreso già nel
Trecento da personalità quali Cola di Rienzo e Francesco Petrarca, ma anche in una
realtà politica più locale quale era quella sabauda, che proprio nella seconda metà del
Cinquecento aveva trasferito la capitale del ducato da Chambéry a Torino,
cambiamento che richiese di fare appello alla storia antica del Piemonte quale
strumento di giustificazione e nobilitazione della dinastia. Entravano poi in gioco nel
lavoro di questi eruditi interessi ancora più minuti, che erano quelli delle singole
comunità per cui, talvolta, questi studiosi si adoperarono e, non ultime, le passioni
personali che li animavano, spingendoli a cercare antichi documenti iscritti. Si
costruì, così, a cavallo tra XVI e XVII secolo, una cultura dell’antico nella quale non
erano ancora stati elaborati quei presupposti metodologici che avrebbero fatto da
base agli studi epigrafici contemporanei e nella quale a prevalere erano quegli
interessi dell’erudizione antiquaria di stampo campanilistico a cui non erano estranee
le pressioni del potere sabaudo o municipale e che indussero questi studiosi a
ricorrere talvolta alla falsificazione della documentazione. Proprio nell’Ottocento
Theodor Mommsen parlerà al riguardo di “formidabile galleria di Falsari”, in realtà,
il numero di coloro cui si possono imputare queste falsificazioni è piuttosto limitato,
ma la loro attività inquinò l’epigrafia subalpina per secoli.
Attraverso questo lavoro si è cercato di comprendere perché persone con
background tanto differenti abbiano rivolto le proprie attenzioni al recupero del
passato di una città quale Torino, in cui l’occupazione francese e le continue guerre
avevano destabilizzato lo sviluppo della cultura regionale e delle istituzioni
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scolastiche locali e in cui solo il trasferimento della capitale del ducato aveva dato
avvio a un processo di rinascita culturale
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e si è cercato di andare alle radici di uno
sviluppo tanto precoce degli studi sulle antiquitates piemontesi e della loro scoperta
e valorizzazione tra XVI e XVII secolo. Gli storici e gli studiosi dell’epoca
osservano come al fiorire della cultura piemontese contribuì più il desiderio dei
comuni di accaparrarsi i maestri migliori che l’innovazione didattica dell’Università.
Perché è vero che il 7 ottobre del 1404 l’antipapa Benedetto XIII emise la bolla della
fondazione dello studium di Torino, ma esso ebbe notevole difficoltà ad affermarsi e
il periodo di maggiore prosperità dell’Università torinese si ebbe una cinquantina di
anni dopo. Proprio dalla metà del XV secolo alcuni umanisti insegnarono a Torino,
però la loro presenza fu fugace, tant’è che lo studium rimase quasi estraneo alle
nuove correnti rinascimentali. È quindi vero che dopo la metà del secolo comparvero
i primi studiosi di lettere classiche: nel 1454, ad esempio, giunse Giovanni Maria
Filelfo, che ottenne il titolo di doctor artium e insegnò retorica, ma neanche tre anni
dopo partì e di veri letterati e amanti delle lettere non ce ne furono se non qualche
giurista che si dilettava nello scrivere.
Il punto di partenza dell’indagine sono stati quegli studi condotti nel corso
dell’Ottocento, che hanno contribuito a far uscire dall’oblio le figure di questi
eruditi; in particolare Gaudenzio Claretta, Ferdinando Gabotto, Domenico Promis e
la fondamentale opera di Carlo Promis Le iscrizioni raccolte in Piemonte e
specialmente a Torino da Maccaneo, Pingone, Guichenon tra l’anno MD e il MDCL.
Si è quindi proceduto ad analizzare le opere che questi studiosi diedero alle stampe,
testi pubblicati tra XVI e XVII secolo tra Torino e Lione. Dall’analisi degli studi
ottocenteschi e da quelle delle opere di questi eruditi si è, in primo luogo, cercato di
evincere il dato biografico di ciascuno essendo carenti notizie ufficiali al riguardo. In
secondo luogo, si è cercato di stabilire l’esistenza di rapporti tra questi eruditi,
postulabili sulla base di analogie, corrispondenze e similitudini che saltano all’occhio
dalla lettura comparata di questi scritti cinquecenteschi e secenteschi.
Sebbene le notizie in nostro possesso non consentano di stabilire con certezza né
l’esistenza di eventuali relazioni tra i soggetti, né dipendenze contenutistiche certe tra
le opere, la ripetitività nella presentazione della documentazione induce a postulare
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Si veda PIVANO S., Emanuele Filiberto e le Università di Torino e Mondovì, in «Studi pubblicati
dalla Regia Università nel IV Centenario della nascita di Emanuele Filiberto», Torino, 1928.
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che esse esistessero. Con questa ricerca si è cercato di offrire uno spaccato della
realtà culturale torinese tra Cinquecento e Seicento mettendo in luce i rapporti tra gli
eruditi, le gerarchie dei testi, le reciproche dipendenze e le conseguenze di questi
concatenamenti di studi, in un’epoca in cui la preoccupazione di non falsificare la
storia e di controllare personalmente l’attendibilità delle affermazioni riportate non
era una priorità. Si può sì sostenere che le più antiche sillogi che si possiedono
risalgono al IX secolo, ma è solo col fiorire dell’umanesimo che lo studio e la
raccolta dei reperti in Piemonte cominciò ad avere una connotazione storica e
documentaria, benché precaria e non scientifica e metodologica. Per quanto riguarda
Torino e la regione la raccolta cominciò proprio con Simeoni, Maccaneo, Merula,
Maccio, Ligorio e Guichenon, i quali per di più si “aiutarono” tra di loro,
scambiandosi informazioni, reperti, iscrizioni. C’è chi lo fece citando la fonte dalla
quale prese spunto, c’è chi lo fece tacendola. La ricerca aiuterà a capire perché
avvenne questo scambio, chi lo promosse tacitamente e chi lo fece alla luce del
giorno; aiuterà, insomma, a comprendere chi è la fonte dell’antichità ritrovata e chi è
il copiatore, quale opera possiede l’originale e quale una copia o un falso.
Fabretti menzionò, tra coloro che per primi pubblicarono le iscrizioni torinesi,
anche gli storiografi Filippo Malabaila e Agostino della Chiesa, le opere dei quali
furono espressione di una storiografia municipale: Della Chiesa era lo storiografo di
Saluzzo, Malabaila era lo storiografo di Asti e non sarebbero mai potuti diventare
storiografi dello Stato sabaudo. Non sarebbero mai potuti, quindi, per prestigio,
essere accostati a Pingone, a Merula, a Guichenon. Malabaila scrisse un’opera
intitolata Compendio historiale della citta d’Asti, la quale non è altro che un
riassunto di tutte quelle leggende sull’origine della città di Asti, elaborate per esaltare
la nobiltà cittadina ed è considerata in ordine di tempo la prima divulgazione delle
falsificazioni della città. Malabaila falsificò perché voleva glorificare la città di Asti,
che doveva avere un’origine più illustre rispetto a quella di Torino. Quest’ultima, del
resto, aveva già il suo mito, da quando Emanuele Filiberto Pingone nel 1577 aveva
fatto pubblicare l’Augusta Taurinorum e aveva raccontato la leggendaria storia della
fondazione da parte di Eridano–Fetonte. Malabaila intraprese una lunga contesa con
Agostino Della Chiesa, che cercava di smascherare le sue bugie storiche.
Evidentemente quest’ultimo non fece in tempo, oppure la sua denuncia non ebbe
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grande successo, poiché quando Samuel Guichenon pubblicò l’Histoire
généalogique de la royale maison de Savoie attinse proprio da quelle iscrizioni
astigiane che lo studioso falsificatore inventò di sua mano. Si è, dunque, cercato di
inserirsi nel filone storiografico che sta incontrando molto favore in questi anni,
andando ad analizzare un periodo che finora non è stato particolarmente indagato
allo scopo di individuare il momento in cui sono state originate una serie di
inesattezze e falsificazioni che sono state ottusamente perpetuate per secoli e solo
nell’Ottocento inoltrato sono state smascherate. Perché per ricostruire il mondo
classico torinese e piemontese vi furono coloro i quali si servirono della letteratura,
dell’archeologia, della numismatica e coloro i quali decisero che, quando vi era una
lacuna nella documentazione, a piacimento potevano colmare quel vuoto. Giudicare
quest’ultimi semplici falsari potrebbe essere riduttivo. Certo, essi hanno creato un
inganno: alcuni – come Malabaila – l’hanno fatto per fini personali, altri – come
Guichenon – erano semplicemente sbadati e negligenti perché presero alla lettera le
fonti da cui attinsero, senza verificare se esse fossero attendibili. Tuttavia per alcuni
– come Ligorio – fu solo il modo col quale concepire la ricerca antiquaria. Modo
errato o meno, si proverà a spiegarne il perché.