2
Occorre considerare che l’obiettivo dell’integrazione europea era inizialmente inviso
dai partiti della sinistra sia perché consideravano l’unificazione europea come una
appendice al Patto Atlantico al servizio degli USA, sia perché concepivano ancora le
politiche economiche nell’ambito di un orientamento nazionale.1
Successivamente, la politica economica nazionale fu caratterizzata da due
significativi interventi che avevano l’intento di porre rimedio a situazioni problematiche
fino a quel momento trascurate: l’istituzione della Cassa del Mezzogiorno (legge del 10
agosto 1950) per la creazione di opere infrastrutturali di pubblico interesse nell’Italia
Meridionale, e le leggi di riforma agraria e fondiaria.
L’attività della Cassa del Mezzogiorno fu poi successivamente estesa ad interventi
che promuovessero lo sviluppo dell’agricoltura e del turismo. Si incoraggiò la spesa
pubblica sia in maniera diretta che indiretta, ovvero attraverso incentivi: per esempio venne
approvata una legge nel luglio del 1957 che obbligò le imprese a partecipazione statale a
realizzare il 40% degli investimenti nel Sud. Tutto ciò ebbe effetti positivi sullo sviluppo
industriale che, però, non portarono a rilevanti trasformazioni negli indirizzi fondamentali
di politica economica. Vi era comunque la mancanza di una programmazione economica
generale e, sia la Cassa del Mezzogiorno, sia le leggi di riforma agraria non erano state
introdotte in un piano di lungo periodo. Tuttavia, le nuove strutture della spesa pubblica
favorirono lo sviluppo industriale che determinò, a sua volta, un rilevante aumento del
reddito, soprattutto al Centro-Nord dove era previsto un forte trasferimento di buona parte
degli effetti della spesa pubblica addizionale necessaria per la politica meridionalistica
(questo secondo il giudizio della SVIMEZ, società costituita nel 1947 per una ricerca
documentata dei problemi del meridione).2
Si affermò, quindi, l’industrialismo come politica economica per il riscatto del
Mezzogiorno, alla cui dottrina aderivano i più disparati settori della vita sociale del paese:
uomini politici, amministratori pubblici, sindacati del lavoratori, esponenti del mondo
industriale, studiosi. Tra quest’ultimi, ebbe un ruolo di primo piano Pasquale Saraceno, un
1
VALERIO CASTRONOVO, Storia economica d’Italia dall’800 ai giorni nostri, Torino, Einaudi, 1995, pp. 406 –
408.
2
SIRO LOMBARDINI, La programmazione. Idee, esperienze, problemi, Torino, Einaudi, 1967, pp. 25 – 27.
3
economista che negli anni 60 diverrà vice-presidente della Commissione Nazionale per la
programmazione economica.
Saraceno analizza la questione meridionale nell’ottica di una problematica di “area
depressa”, ovvero, una area in cui sussistono fattori produttivi inutilizzati, dove permane
un forte squilibrio fra risorse naturali e popolazione facendo sì che gli aumenti di reddito
vengano ricercati nell’industria manifatturiera e non nella produzione delle materie prime e
delle derrate alimentari, la cui domanda è aumentata. Per Saraceno, “l’azione statale deve
contribuire a creare migliori condizioni di vita e l’ambiente necessario per l’impianto di
nuove imprese ed inoltre, generale una domanda suppletiva di beni di consumo creando,
quindi, un aumento del potere di acquisto e uno sbocco alla produzione delle future
imprese”. L’iniziativa pubblica doveva guidare quella privata: la prima doveva mirare ad
utilizzare i fattori trascurati dalla seconda. Da ciò se ne deduce che Saraceno giudicava la
concezione dello sviluppo nel quadro di una economia mista dove i due tipi di iniziativa
economica non erano in una situazione di contrasto, bensì di integrazione. Inoltre, in linea
con la concezione economica meridionalista di quegli anni, era convinto che lo sviluppo del
Mezzogiorno fosse necessario per il rilancio dell’intera economia nazionale: la politica
meridionalista non doveva essere concepita solamente nell’ottica della solidarietà
nazionale, ma intesa come una reale interdipendenza di interessi tra Nord e Sud.3
Nello stesso periodo, per quanto riguarda l’esigenza di una programmazione
generale, per risolvere l’annoso problema dell’occupazione, vennero promossi due
convegni:
1. Nell’ambito del secondo congresso della Confederazione Generale del Lavoro,
che si svolse a Genova nell’ottobre del 1949, si chiese un mutamento negli
indirizzi di politica economica: il contenuto di ciò venne precisato alla
Conferenza economica nazionale per il piano del lavoro svoltasi a Roma nel
febbraio del 1950. Esso era fondato da un programma coordinato di opere
pubbliche e investimenti strategici e si costituiva in quattro punti: sviluppo
delle fonti di energia, come la produzione di energia elettrica con la
3
PIERO BARUCCI, Ricostruzione, pianificazione, Mezzogiorno. La politica economica in Italia dal 1943 al
1955, Bologna, Il Mulino, 1978, pp. 323 – 331.
4
costruzione di centrali elettriche e la piena utilizzazione delle risorse idriche
per migliorare le prospettive di sviluppo industriale creando subito
un’occupazione addizionale; la realizzazione di un piano di bonifiche e di
trasformazioni fondiarie per incrementare l’agricoltura; una politica di edilizia
popolare e per la costruzione di edifici pubblici; altre opere pubbliche
programmate in modo organico per consentire l’assunzione dei disoccupati.
2. Il convegno organizzato dalle Acli nel 1952 sui problemi riguardanti
l’obiettivo di una piena occupazione per richiamare l’attenzione di politici e
studiosi sugli orientamenti della politica economica. Il problema fondamentale
discusso era quello di trovare i mezzi economicamente e politicamente più
facili per coprire il costo fisso del lavoro: questo viene coperto quando lo
Stato interviene per combattere la disoccupazione con lavori pubblici ma ciò
non risponde ad un piano organico di sviluppo dell’economia nazionale. La
conclusione del convegno fu caratterizzata da una mozione che espresse
l’esigenza di una programmazione economica e dell’elaborazione di strumenti
per garantire una efficiente distribuzione territoriale e settoriale degli
investimenti.
Occorre rilevare l’importanza che ebbe lo schema di sviluppo dell’occupazione del
reddito in Italia nel decennio 1955-1964, presentato dal ministro del bilancio Ezio Vanoni al
governo nel dicembre del 1954, meglio noto come “piano Vanoni”. Si trattava di uno
schema di analisi di possibili decisioni di politica economica per il quale portò ancora
contributi decisivi il professor Pasquale Saraceno. Il piano doveva fornire indicazioni di
massima per l’elaborazione di un programma su come conseguire una politica organica di
spesa pubblica in un determinato periodo. Esso proponeva come obiettivi: l’occupazione
stabile della manodopera ancora disoccupata, l’equilibrio della bilancia dei pagamenti, la
riduzione della disparità tra le condizioni economiche del Nord e del Sud. Tuttavia, il piano
Vanoni risultò insufficiente ad indirizzare la politica economica e i governi successivi non
5
hanno mai elaborato programmi organici di politica economica con un chiaro riferimento al
piano.4
L’alba del centro-sinistra
Le discussioni sulla programmazione economica vennero riprese successivamente
agli inizi degli anni 60 grazie soprattutto ai mutamenti del sistema politico: nel 1962 si aprì
la seconda fase della storia repubblicana, ovvero, il passaggio dal centrismo al centro
sinistra.
A cavallo fra gli anni 50 e 60, le posizioni dei partiti riguardo l’esigenza di una
programmazione generale furono diverse e rispecchiarono quella logica di frammentazione
partitica che ha sempre caratterizzato il sistema politico italiano. La Democrazia Cristiana
organizzò un convegno di studi a San Pellegrino, dove Saraceno sostenne che l’economia di
mercato era concettualmente obsoleta ed era legittimo costituire aziende pubbliche di
produzione che integrassero l’iniziativa privata o la sostituissero in quelle regioni del paese
dove l’industria privata non avesse investito o non sarebbe andata ad investire. Occorreva
realizzare l’obiettivo della “formazione del capitale direttamente produttivo”. Queste tesi
vennero riprese all’VIII congresso della DC a Napoli (27-31 gennaio 1962) dove Aldo
Moro dichiarò che la politica economica doveva essere finalizzata alla eliminazione di tre
4
SIRO LOMBARDINI, La programmazione. Idee, esperienze, problemi, cit, pp. 27-30. Riferimenti alla
programmazione economica in generale si trovano, oltre che nei citati volumi, anche nei seguenti: GISELE
PODBIELSKI, Storia dell’economia italiana (1946-1974, Bari, Laterza, 1975; VALDO SPINI, I socialisti e la politica
di piano (1946-1964), Firenze, Sansoni, 1982; FERDINANDO DE FENIZIO, La programmazione economica (1946-
1962), Torino, Utet, 1965; AUGUSTO GRAZIANI, Lo sviluppo dell’economia italiana – Dalla ricostruzione della
moneta europea, Torino, Bollati Boringhieri, 1998; BRUNO BOTTIGLIERI, La politica economica dell’Italia
centrista (1948-1958), Milano, Edizioni di Comunità, 1984; GIORGIO RUFFOLO, Rapporto sulla programmazione,
Bari, Laterza, 1973.
6
tipi di divari: quelli tra Nord e Sud, tra agricoltura ed industria e nel settore
dell’occupazione.
Il partito Socialista Italiano vedeva nella programmazione economica la rimozione
delle inefficienze e degli ostacoli creati dal sistema capitalistico. Occorrevano, per i
socialisti, riforme strutturali e una programmazione economica capaci di imporre al profitto
privato la priorità dell’interesse collettivo al fine di ridurre la distanza tra i livelli di reddito
dei diversi gruppi sociali assoggettando, quindi, i centri di potere privato alle decisioni dei
poteri pubblici.5
Su posizioni analoghe era il Partito Socialdemocratico Italiano, per natura riformista
e che avviò in questo periodo il processo di unificazione con il PSI.
Altri soggetti, invece, tennero posizioni distinte e contrapposte dal progetto politico
del centro-sinistra:6
Il Partito Comunista Italiano vedeva nella ideologia leninista lo strumento
necessario per la costruzione del socialismo. I cardini del programma di
centro-sinistra (programmazione economica e politica dei redditi) furono i
bersagli della polemica comunista. Essi accusarono a più riprese i socialisti di
tradimento di interessi della classe operaia, in quanto avevano abbandonato la
concezione della lotta di classe come una via per la realizzazione di una vera
democrazia.
Il Partito Liberale Italiano, che si poneva in radicale contrapposizione con la
stagione riformatrice dei primi anni sessanta, era un partito collocato a destra,
e divenne destinatario del consenso moderato dell’area più industrializzata del
paese; si pose come l’opposizione democratica all’apertura a sinistra. Infatti, il
PLI, alleato di governo della DC insieme a PRI e PSD, non entrerà mai a far
parte della coalizione governativa del centro-sinistra.
5
MARCO CINI, Stato, banca industria. Lineamenti dello sviluppo economico italiano dall’unità ai giorni
nostri, Genova, Ecig, 2008, pp. 227-228.
6
YANNIS VOULGARIS, L’Italia del centro-sinistra 1960-1968, Roma, Carocci, 1998.