5
un atteggiamento definitivo, antitetico all’uso serio
che ne fa tradizionalmente l’artista ipersensibile, come
zona di meditazione, di preparazione a una maturità spi-
rituale, come cimento che si conclude con la conquista del
diritto a parlare.
2
Naturalmente, in genere l’artista non tace nel senso lette-
rale del termine: di solito egli continua a scrivere, “ma in modo
che il suo pubblico non riesca più ad ascoltarlo.”
3
L’opera d’arte diviene, quindi, inaccettabile, e il silenzio,
la negazione si trasformano in armi nelle mani dell’artista, nella
lotta tra questi e il proprio pubblico. Una lotta, del resto,
destinata a non avere un vincitore, in quanto l’attività artistica
presuppone, in ogni caso, la presenza di un pubblico. Il silenzio
è, quindi, considerato come un obiettivo, una sorta di limite a cui
tendere.
4
E, inoltre, il silenzio rimane essenzialmente un mezzo
di comunicazione: silenzio assoluto e spazio vuoto sono, del
resto, inconcepibili.
5
Nell’opera di Elizabeth Bowen sono percepibili quelli che
Susan Sontag definisce “appelli al silenzio”
6
. Non si tratta di
richiami chiari, come si possono rinvenire nelle opere di alcuni
grandi del nostro secolo, ad esempio Samuel Beckett, tuttavia
questa scrittrice anglo-irlandese, nata a Dublino nel 1899 e morta
2
Susan Sontag, Interpretazioni tendenziose, Torino, Einaudi, 1975, cap. 1 “L’estetica del silenzio”,
p.7.
3
Ibidem, p.8
4
Ibidem, p.9.
5
Ibidem, p.11.
6
Ibidem, p.12.
6
nel 1973, affronta i problemi inerenti il linguaggio, consapevole
del fatto che esso, tra tutti gli strumenti adoperati nella creazione
artistica, sembra essere il più contaminato.
7
Si è detto che ciò è
tanto più vero per le donne, in quanto alle donne si richiede un
continuo sdoppiamento, una continua separazione da sé per
accedere ad un linguaggio oggettivo, universale. Una donna che
decide di scrivere “sperimenta l’impotenza quando per
comunicare deve usare un linguaggio che si fonda su paradigmi
maschili.”
8
Nei romanzi di Elizabeth Bowen ricorrono, con una certa
insistenza ma non in modo monotono, alcuni temi che possono
in qualche modo essere ricollegati all’impossibilità di esprimersi
adeguatamente. Come afferma Emmeline, una delle protagoniste
di To the North, “There is so much I should like to say that I
seem to have nothing to say. Perhaps some day words will be
different or there will be others.”
9
In un momento in cui queste parole mancano, sembra
suggerirci Elizabeth Bowen, la fuga, la violenza, la morte, la
follia sembrano essere più efficaci di qualsiasi altra forma di
comunicazione. Nella fuga i suoi personaggi ricercano la
stabilità, nella violenza - contro di sé e contro gli altri -
7
Ibidem, p.14.
8
“Scrivere la differenza”, cit., p.9
9
To the North, Harmondsworth, Penguin, 1985, p.101-102 [1
a
edizione, London, Gollancz, 1932].
D’ora in poi ci si riferirà a questo romanzo con la sigla TN.
7
esprimono sentimenti altrimenti indicibili, nella follia cercano di
attribuire nuovo significato ad un mondo che lo ha perduto.
Si può dividere l’opera di Elizabeth Bowen in tre fasi:
una, agli inizi della sua carriera, in cui ella tratteggia i contorni
di alcuni personaggi, che in qualche modo possono essere
considerati esemplari. Violenza e morte sono temi centrali in The
Last September (1929) e To the North (1932), due tra i suoi
primi romanzi. Il primo narra la vicenda di una giovane, sullo
sfondo dei cosiddetti ‘Troubles’ del 1920, “i.e. the roving armed
conflict between the Irish Republican Army and British forces
[...].”;
10
nel secondo protagoniste sono due donne alla ricerca di
se stesse, messe a confronto con due figure maschili dai contorni
sfuggenti e, a tratti, inquietanti. Il romanzo pubblicato dopo la
fine della II guerra mondiale - The Heat of the Day (1949) -
costituisce, insieme ai racconti scritti nel periodo del conflitto,
una sorta di centro nell’opera di Elizabeth Bowen: fu scritto a
metà della sua carriera artistica, e in esso i temi che già avevano
caratterizzato i romanzi precedenti, assumono un diverso
spessore in relazione agli orrori del conflitto mondiale.
Nell’ultimo periodo della sua vita Elizabeth Bowen si
dedicò principalmente alla scrittura di saggi; ciononostante, è un
romanzo - Eva Trout (1968) - a concludere la sua produzione: si
tratta di un’opera sulla quale i giudizi dei critici sono sempre
10
Prefazione alla seconda edizione di The Last September, ripubblicata in The Mulberry Tree,
Writings of Elizabeth Bowen, Selected and introduced by Hermione Lee, London, Virago Press
Limited, 1986, p.125. D’ora in avanti questa raccolta di saggi verrà indicata con la sigla MT.
8
stati discordanti, ma che appare di centrale importanza per la
discussione di questa tesi, in quanto in essa la scrittrice ha
pienamente sviluppato i temi caratteristici della sua produzione
letteraria, tracciandone un’ideale conclusione.
Nell’opera di Elizabeth Bowen si riflette la complessità
della sua vita: si può anzi affermare che la ricchezza di sfumature
riscontrabile nella sua produzione artistica sia diretta
conseguenza degli eventi che caratterizzarono la sua vita e
soprattutto la sua infanzia.
Elizabeth Bowen nacque a Dublino nel 1899. La sua fa-
miglia apparteneva alla classe dei proprietari terrieri protestanti,
giunti sull’isola nel XVII secolo. I Bowen possedevano una
grande casa padronale nella contea di Cork, Bowen’s Court: era
soltanto una delle “big houses” sparse sul territorio irlandese,
simbolo della classe dominante. Per Elizabeth Bowen
rappresentava il legame - fortissimo - con le proprie radici,
l’unico posto che poteva veramente chiamare “home”, pur
consapevole della contraddizione insita nella condizione della
sua classe, isolata, estranea rispetto al tessuto sociale irlandese e
allo stesso tempo lontana dal considerarsi parte integrante della
società inglese.
11
11
Nella prefazione a L’ultimo settembre, Milano, La Tartaruga, 1987, p.6, edizione italiana di The
Last September, Ida Levi definisce gli anglo-irlandesi “inglesi per fedeltà, irlandesi per
temperamento.”.
9
L’infanzia di Elizabeth fu segnata da due eventi in parti-
colare: quando aveva sette anni suo padre fu colpito da una
grave forma di esaurimento nervoso, che la costrinse a lasciare
l’Irlanda insieme alla madre, con cui fino ad allora aveva avuto
un rapporto abbastanza difficile, di cui abbiamo traccia nelle
figure di madri che più tardi animeranno i suoi romanzi e
racconti: la traumatica esperienza - la separazione dal padre, ma
anche dalle proprie radici - fu però l’occasione per creare un più
intimo legame con sua madre; legame spezzato dalla morte di
Florence Bowen quando Elizabeth aveva tredici anni. La
sensazione di solitudine, di esilio, di perdita che aveva già
provato nel momento in cui si era separata dal padre e dall’amata
Irlanda, divenne - con la morte di sua madre - permanente, e si
rifletté nei romanzi e nei racconti, divenendo un tratto costante e
distintivo della sua scrittura.
I had come out of the tensions and mystery of my
father’s illness, the apprehensive silences or chaotic
shoutings[...]with nothing more disastrous than a
stammer.(“Pictures and Conversations”, MT, p.270)
Ma, come sottolinea Phyllis Lassner, “The stammer
assumed a symbolic quality with her mother’s death.”
12
La difficoltà di comunicare fu dunque sperimentata da
Elizabeth Bowen durante la sua infanzia e la sua adolescenza.
12
Phyllis Lassner, Elizabeth Bowen, Houndmills, Basingstoke, Hampshire and London, Macmillan
Education, 1990, p.7.
10
Dalla lettura delle pagine autobiografiche che ha dedicato a
questo periodo della sua vita, si riceve un’impressione tutta
particolare, la singolare sensazione di trovarsi di fronte ad un
mondo fatto più di immagini che di parole, un mondo rimasto
nella memoria della scrittrice quasi fosse una fotografia, un
quadro, un’immagine dai contorni e dai colori a tratti sbiaditi, a
tratti di nuovo nitidi.
13
“I have a wonderful visual memory but a
poor verbal one”. La sua giovinezza, il suo primo incontro con
Londra furono una sorta di film muto, secondo quanto ella stessa
sottolinea. (“Coming to London”, MT, p.88)
England affected me more in a scenic way than in
any other - and still does.....this newness of England,
manifest in the brightness, occasionally the crudity, of its
colouring, had about it something of the precarious.
Would it last?.(“Pictures and Conversations”, MT, p.277)
Furono - secondo quanto afferma Elizabeth Bowen, queste
circostanze a fare di lei una scrittrice: “[...]England made me a
novelist”(MT, p.276). Fu la separazione dall’Irlanda, lo
scontrarsi con la nuova realtà di questo paese ‘altro’, che creò in
lei i presupposti per la futura carriera artistica, tessuta attorno ai
sentimenti che in quei giorni la pervadevano.
Elizabeth Bowen ha analizzato con molta attenzione le
caratteristiche della propria scrittura in molti scritti autobiogra-
fici. La scrittura appare un aspetto intrinseco della sua natura,
tanto da portarla ad affermare “When I have nothing to write I
13
Non a caso Elizabeth Bowen ha scelto di intitolare le sue memorie Pictures and Conversations.
11
feel only half alive.”
14
Ella però non considerava il suo modo di
scrivere come peculiarmente femminile; era anzi sua
convinzione che l’opera dei grandi romanzieri si distinguesse
proprio in quanto scritta “...from outside their own nationality,
class or sex.” (“Notes on Writing a Novel”, MT, p. 44). Sembra
essere molto importante per la scrittrice sottolineare la sua
assoluta neutralità in quanto artista. Ma quanto appare nelle sue
opere è comunque la testimonianza di un interesse specifico per
la psicologia femminile, pur nel costante confronto con
personaggi maschili, visti però attraverso gli occhi delle donne,
tramite i quali vengono filtrati tutti gli avvenimenti: nonostante i
proclami qua e là fatti da Elizabeth Bowen sulla conseguita
libertà e parità delle donne
15
, è innegabile - come sottolinea
Heather Bryant Jordan - che “she remained sensitive to the
particular difficulties women encountered in their lives[...]”.
16
Ma è la scrittura di Elizabeth Bowen - “prodotto di un
accumulo di negazioni, di costruzioni impersonali e di torsioni
inattese”
17
- ‘femminile’ nelle sue caratteristiche formali? Sono
specificamente femminili gli “appelli al silenzio” della sua opera
o sono piuttosto da inserirsi in un ambito più ampio, che supera i
confini del sesso per iscriversi nei mutamenti di carattere
14
“Miss Bowen on Miss Bowen”, New York Times Book Review, March 6, 1949, 33.
15
Si veda ad esempio l’articolo pubblicato sul New Statesman, October, 31, 1936, p.678. in cui si
afferma che le donne sono ora “free to do what they ought, what they can, what they have it in
them to do: they have no excuse for not doing so.”
16
Heather Bryant Jordan, How Will the Heart Endure: Elizabeth Bowen and the Landscape of War,
University of Michigan, 1992, p. XV.
17
Introduzione di Ida Levi all’edizione italiana di The Last September, p.6
12
generale che interessarono la scrittura nella prima metà del ‘900?
E’ insomma così diversa - a prescindere da giudizi sul merito
delle opere - la voce di Elizabeth Bowen da quella di Samuel
Beckett, di James Joyce, di Franz Kafka, di Luigi Pirandello, che
negli stessi anni si interrogavano nei loro scritti sulla precarietà
dell’io, sulla inutilità delle parole, sull’impossibilità di essere
persone invece che personaggi? In questa tesi si cercherà di
dimostrare che tale differenza esiste e, allo stesso tempo, a tratti
si riduce fin quasi a scomparire: si può dire che si tratti di una
differenza di prospettiva, accompagnata da un linguaggio in cui
il non detto assume un ruolo importante, forse anche in ragione
dei condizionamenti sociali a cui le donne - e con esse Elizabeth
Bowen - erano sottoposte. Non si tratta quindi tanto di attribuire
la differenza tra uomo e donna a fattori biologici pur importanti,
quanto piuttosto di analizzare le componenti sociali che hanno
fatto della scrittura femminile in ogni epoca una scrittura
censurata, votata al silenzio,
18
[...] una ‘lingua della scusa’,
prodotta da un soggetto incerto circa il proprio diritto, la propria
legittimità a parlare.
19
La “rivendicazione di un’altra parola”
20
è, nel caso speci-
fico di Elizabeth Bowen, non del tutto consapevole; nei suoi
18
Entra qui in gioco il contrapporsi di diverse visioni, che da una parte fanno della donna “una
macchina ctonia, indifferente allo spirito che la abita”, con una sola ‘missione biologica’, la
gravidanza ( Camille Paglia, Sexual Personae, p.15), dall’altra sottolineano esclusivamente la sua
condizione nella società, imputando tutte le differenze alla secolare oppressione esercitata dagli
uomini.
19
“Scrivere la differenza”, op. cit., p.10
20
Ibidem, p.10
13
scritti è comunque senza dubbio riscontrabile quello che è stato
definito punto di vista femminile.
Si tratta di chiarire, a questo punto, cosa si intenda per
‘punto di vista femminile’, per non dar luogo da equivoci: è utile
a questo proposito la definizione che se ne dà nel già citato
articolo “Scrivere la differenza”, in cui si rigetta l’accezione
strettamente naturalistica, estendendo piuttosto il concetto ad un
ambito più vasto, quale quello della rilettura del mito o della
storia ad esempio, ed evitando d’altra parte di fare del punto di
vista femminile una sorta di feticcio, qualcosa a cui ricondurre
tutta la produzione letteraria femminile in maniera schematica e
rigida.
21
Questo vale tanto più per Elizabeth Bowen, alla quale ci
si dovrebbe avvicinare liberandosi innanzitutto di qualsiasi
schema critico precostituito: troppo a lungo questa scrittrice è
stata fraintesa, e parte della critica più recente ha polemizzato
con coloro che, in passato, avevano letto la sua opera in maniera
tutto sommato superficiale, rimanendo fermi soltanto alle
caratteristiche esteriori di trame, ambientazioni, personaggi,
senza analizzare le implicazioni più profonde della sua scrittura,
che - secondo Andrew Bennett e Nicholas Royle, autori di uno
dei più recenti e completi testi critici sul romanzo di Elizabeth
Bowen - “...is concerned with dissolution, dispersion, melting,
·21
Ibidem, p.18
14
break up and death.”
22
Intreccio, personaggi, ambientazioni,
stile, andrebbero insomma riconsiderati, tenendo presente tutto
ciò: tali categorie infatti - sempre secondo l’opinione di Bennett
e Royle - vengono decostruite, trasformate totalmente da
Elizabeth Bowen e il risultato è un vero e proprio ‘attentato’ nei
confronti della forma stessa del romanzo, come è tradizional-
mente intesa.
In questo lavoro si cercherà di tenere presente le diverse
chiavi di lettura attraverso le quali è possibile leggere l’opera di
Elizabeth Bowen; il silenzio e il desiderio “..for a new language,
based on models of silent and symbiotic union...”
23
possono
essere considerati una sorta di categoria che unifica diversi temi:
un filo rosso che lega tra loro le varie fasi di sviluppo della
scrittura di Elizabeth Bowen, in alcuni momenti più sottile, in
altri più visibile.
22
Andrew Bennett e Nicholas Royle, Elizabeth Bowen and the Dissolution of the Novel: Still Lives,
London, Macmillan, 1995, p. XIX.
23
Harriet S. Chessman, “Women and Language in the Fiction of Elizabeth Bowen”, Twentieth
Century Literature, XXIX, no. 1, Spring 1983, ripubblicato in Elizabeth Bowen, edited and with an
introduction by Harold Bloom, Chelsea House Publishers, a division of Chelsea House Educational
Communications Inc., 1987, p.124.
15
CAPITOLO
PRIMO
Il tempo perduto, le radici ritrovate
16
1.1 Il crollo della casa dei Naylors
“[...]the mansion piled itself up in silence over the
Montmorency’s voices.”
24
La parola “silence” ricorre in maniera
quasi ossessiva fin dalle prime pagine di The Last September. Il
silenzio è in questo romanzo qualcosa di più di uno stato
temporaneo: è una condizione permanente, un’alterazione
definitiva del corso delle cose. Il silenzio fa parte della storia di
Danielstown - la ‘big house’ del romanzo
25
- e Danielstown è
l’artefice delle vite di coloro che la abitano.
The distant ceiling imposed on consciousness its
blank white oblong, and a pellucid silence, distilled from a
hundred and fifty years of conversation, waited beneath
the ceiling. Into this silence, voices went up in stately
attenuation. Now there were no voices; Mrs.
Montmorency and Laurence sat looking away from each
other. (LS, p.20)
Dei romanzi scritti da Elizabeth Bowen, The Last
September era il suo preferito, il più vicino al suo cuore, come
ella stessa ci dice nella prefazione all’edizione americana del
1952 (MT, p.123); ed è anche l’unico, tra i suoi romanzi, ad
essere ambientato interamente e consapevolmente nel passato.
24
The Last September, Harmondsworth, Penguin, 1985, p.8 [1a edizione, London, Constable,
1929].Nelle successive citazioni si utilizzerà la sigla LS.
25
Sulle ‘big houses’ irlandesi Elizabeth Bowen ha scritto nel 1940 un saggio, intitolato appunto “The
Big House”, pubblicato originariamente su The Bell, e ripubblicato poi in The Mulberry Tree, pp.
25-30. In questo saggio si concentra soprattutto sulla particolare impressione che tali case
esercitano su coloro che le visitano, l’impressione cioè di essere completamente isolate: “The
17
Nell’Irlanda del 1920, Elizabeth Bowen crea un piccolo
mondo, chiuso tra le quattro mura cariche di storia di
Danielstown. Protagonista è Lois Farquar, nipote dei proprietari
della casa, Richard e Myra Naylor: una ragazza di diciannove
anni, orfana, fin dalle prime pagine del libro definita dagli altri
personaggi del romanzo in relazione alla madre scomparsa, quasi
fosse priva di una personalità propria.
[...]for Bowen, people are figured, characterized,
given identity precisely by the thought of the dead - their
thoughts about dead people, and dead people’s thoughts
about them.
26
Lois è stata vista come il prototipo di tutte le figure fem-
minili create da Elizabeth Bowen: la prima fragile, insicura
fanciulla, la prima di una lunga serie. Indubbiamente Lois è
incerta non solo per quel che riguarda il suo futuro, ma anche nei
confronti del suo presente; Lois è impaziente, senza posa,
insoddisfatta di sé - come la descrive Hermione Lee -
27
incapace
di comprendere ciò che la circonda, un mondo in dissoluzione,
un mondo nei confronti del quale ella non è in grado di
schierarsi.
L’identificazione tra Lois e Danielstown è pressoché
completa: Lois ne è l’ultima erede, la custode delle sue
loneliness of my house, as of many others, is many an effect than a reality. But it is the effect that is
interesting.” (p. 25).
26
A. Bennett e N. Royle, op. cit., p.17. Si veda p.8 di LS.
18
tradizioni, legata ad essa e allo stesso tempo privata da essa della
sua libertà.
28
E’ infatti intrappolata nell’immutabilità delle sue
mura, in uno stato di catatonia che ad Andrew Bennett e
Nicholas Royle è sembrato la cifra dell’intero romanzo e in
qualche modo dell’intera opera di Elizabeth Bowen: è come se il
pensiero si fosse fermato, ma ciò non implica l’assenza di esso,
quanto piuttosto la presenza di una sorta di corto circuito del
pensiero che produce la sensazione di trovarsi di fronte a
personaggi sospesi tra uno stato di trance e uno di shock
emotivo.
29
27
H. Lee, Elizabeth Bowen: An Estimation, London and Totowa, Vision and Barnes and Noble, 1981,
p. 45.
28
Le case hanno un ruolo centrale nell’opera di Elizabeth Bowen: in primo luogo perché forniscono
lo scenario sociale entro il quale i personaggi si muovono; in secondo luogo perché sottendono
tutta una serie di significati simbolici, di cui si avrà modo di discutere in questa tesi. In particolare,
le case in Irlanda sono da una parte simbolo del forte richiamo alle proprie radici, dall’altro
l’emblema di quello che Elizabeth Bowen definisce “a particular doom of exclusion” ( The Last
September, cit., p. 23; si veda anche la nota 30): sono esemplari in particolare, per quanto riguarda
il primo aspetto, Mount Morris, la casa irlandese di The Heat of the Day; e, per quanto riguarda il
secondo aspetto, la casa che è al centro delle vicende dell’altro romanzo di Elizabeth Bowen
interamente ambientato in Irlanda - A World of Love - una casa che sembra ‘possedere’ coloro che
la abitano ed in particolare la protagonista Jane. Per alcune interessanti osservazioni
sull’importanza delle case nell’opera di Elizabeth Bowen si veda John Hildebidle, “Elizabeth
Bowen: Squares of Light in the Hungry Darkness” in Five Irish Writers: the Errand of Keeping
Alive, Cambridge, Massachusetts and London, Harvard University Press, 1989, pp. 88-128, in
particolare pp. 107-114. Gaston Bachelard ne La poetica dello spazio, Bari, Edizioni Dedalo, 1975
(quarta ristampa 1993) dedica particolare attenzione alla casa ed ai suoi spazi, affermando, in
particolare, che essa è “il nostro angolo del mondo, è [...] il nostro primo universo. Essa è davvero
un cosmo, nella prima accezione del termine.” (p. 32)
29
A. Bennett e N. Royle, op. cit., pp. 3-4. In The Dissolution of the Novel questi due stati vengono
definiti ‘catalepsy’ e ‘cataplexy’.