Cap. 2. La genitorialità
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CAP. 2
LA GENITORIALITÀ
«Diventare genitore è un’esperienza sufficientemente impor-
tante in grado di scuotere, stravolgere e trasformare la struttura
psichica interna, significa aprirsi a un’esperienza che ha un im-
patto immenso, che può stimolare il meglio di sé, ma che, a
volte, può far uscire il peggio» (Bouregba, 2004, p. 50).
2.1 LA GENITORIALITÀ E LE SUE FUNZIONI
La genitorialità, parte fondamentale della personalità di ogni essere
umano, inizia a formarsi nell’infanzia quando a poco a poco si interioriz-
zano i comportamenti, le aspettative, i desideri, i messaggi verbali e non
verbali dei propri genitori. È un funzione indipendente dalla generatività,
cioè non coinvolge necessariamente l’essere genitori reali, anche se natu-
ralmente la nascita di un figlio attiva fortemente lo “spazio mentale” in cui
si intrecciano i pensieri e le fantasie legati al proprio essere stati figli, alla
relazione tra i partner, ai comportamenti più idonei dell’essere genitori.
Secondo Vicentini (2003) la complessità di ciò che si definisce
genitorialità si esprime nelle sue funzioni (ne individua dodici), nei suoi
modi di esprimersi.
• La funzione protettiva: consiste nel prendersi cura del bambino, dei
suoi bisogni di protezione fisica e di sicurezza. Ciò è fondamentale per
lo sviluppo del legame di attaccamento. La vicinanza costante della ma-
dre e il soddisfacimento dei bisogni genera sicurezza nel bambino,
mentre la minaccia della perdita della figura materna provoca sentimenti
di ansia, di angoscia e costituisce un’esperienza dolorosa. La funzione
“Il lamento di Danae” Il vissuto di genitorialità nelle madri detenute
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protettiva è necessaria per il raggiungimento della “base sicura”
1
, che
consente, anche da adulti, di poter fare affidamento sulla persona giusta
nei momenti di difficoltà, percependo supporto.
La base sicura consente, inoltre, di sperimentare fiducia in sé per poter
dare sostegno agli altri.
«I bambini ai cui segnali le madri rispondono con sensibilità e
fornendo un confortevole contatto corporeo, sono quelli che ri-
spondono più prontamente e nel modo più appropriato alle sof-
ferenze altrui» (Bowlby, 1988, p. 10).
• La funzione affettiva:
«La sintonizzazione affettiva è l’esecuzione di comportamenti
che esprimono la qualità di un sentimento condiviso senza tutta-
via imitarne l’esatta espressione comportamentale» (Stern,
1995, p. 85).
La funzione affettiva si riferisce alla dimensione emotiva ed affettiva
all’interno della quale il bambino vive. Su questo argomento si sono
sviluppate le ricerche sulle emozioni positive come fondamentali alla
spinta evolutiva del bambino. La funzione affettiva perciò, si può defi-
nire come il desiderio di vivere e con-dividere emozioni positive con il
proprio figlio.
• La funzione regolativa: per regolazione si intende la capacità di rego-
lare i propri stati emotivi, organizzare l’esperienza e rispondere con
comportamenti adeguati. Il bambino, inizialmente, non possiede questa
capacità fondamentale e la acquisisce gradualmente grazie alla relazione
con i genitori o con chi si prende cura di lui (il caregiver). A volte la
1
Il concetto di “base sicura”: la particolare atmosfera di sicurezza e di fiducia che si
instaura tra figura attaccata e figura di attaccamento. Questo concetto, sviluppato ini-
zialmente da Mary Ainsworth, è stato particolarmente valorizzato da Bowlby (1979,
1988), che ha spiegato come un bambino o un adolescente, per affacciarsi al mondo
esterno ed esplorare in modo sereno l’ambiente extra-familiare, abbia bisogno di
sentirsi sicuro, «[…] questo mi porta a quello che io ritengo la caratteristica più im-
portante dell’essere genitori: fornire una base sicura da cui un bambino o un adole-
scente possa partire per affacciarsi nel mondo esterno e a cui possa tornare sapendo
per certo che sarà il benvenuto, nutrito sul piano fisico ed emotivo, confortato se tri-
ste, rassicurato se spaventato» (Bowlby, 1988, p. 10).
Cap. 2. La genitorialità
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funzione regolativa genitoriale può aver un funzionamento “iper” (con
risposte intrusive che non danno tempo al bambino di segnalare i suoi
bisogni o i suoi stati emotivi), “ipo” (quando vi è una mancanza di ri-
sposte) o inappropriata.
• La funzione normativa: consiste nel dare dei limiti, nel fornire una
struttura di riferimento all’interno della quale il bambino si sente conte-
nuto e sicuro. Uno dei bisogni fondamentali del bambino è di vivere in
un contesto organizzato, coerente e che si ripete in modo da essere pre-
vedibile.
• La funzione predittiva: La funzione predittiva è la capacità del geni-
tore di prevedere la tappa di sviluppo successiva del proprio figlio sti-
molando con comportamenti adatti il raggiungimento del nuovo stadio.
Si può anche vedere come un processo di adattamento e di crescita in-
sieme.
• La funzione rappresentativa: presuppone delle interazioni reali con il
bambino e la conseguente creazione di una rappresentazione interna di
tali momenti. Il genitore deve saper proporre nuovi modi di stare in-
sieme a seconda dei bisogni e del grado di sviluppo del proprio figlio.
• La funzione significante: si riferisce alla funzione, chiamata da Bion
“reverie”, che ha la madre di trasformare i vissuti angosciosi e privi di
senso del proprio bambino, in elementi comprensibili. La madre orga-
nizza e dà senso alle esperienze e alle azioni del bambino.
• La funzione fantasmatica:
«Il genitore sembra essere condannato a rappresentare nuova-
mente la tragedia della sua infanzia col proprio bambino»
(Fraiberg, 1999, pp. 179-180).
Il bambino che nasce si inserisce all’interno dei fantasmi familiari dei
genitori. Vi è un “gioco di specchi” tra quello che i genitori sono stati da
bambini e quello che avrebbero voluto essere, quello che è il “figlio
immaginario” e quello che il bambino reale è.
• La funzione proiettiva:
«[...]Ognuno di noi in quanto genitore vede nel figlio un pro-
lungamento di sé, l’oggetto che riparerà, che colmerà questa
mancanza» (Bouregba, 2004, p. 53).
“Il lamento di Danae” Il vissuto di genitorialità nelle madri detenute
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Ogni genitore vede parti di sé nel proprio figlio. Accanto a questo
aspetto, definito narcisistico, esiste la percezione oggettiva del proprio
figlio, del suo essere un individuo separato, diverso da sé, con propri de-
sideri, inclinazioni e percezioni. La capacità di relazionarsi al bambino
come una persona altra da sé è molto importante affinché egli possa vi-
vere positivamente la propria autonomia e unicità.
• La funzione triadica:
«Non siamo genitori da soli, per esserlo bisogna essere in due»
(Bouregba, 2004, p. 54).
Si tratta della capacità di passare da una relazione “diadica” ad una
“triadica”, cioè di includere il bambino all’interno della coppia genito-
riale. Inizialmente, infatti, madre e bambino si legano in una diade, il
padre protegge e supporta la nuova relazione, successivamente si rico-
stituisce il legame della coppia genitoriale e, al suo interno, si inserisce
il figlio.
• La funzione differenziale: il bambino necessita di relazionarsi sia con
la madre che con il padre, sperimentandosi in rapporti diversi con per-
sone differenti. Questo presuppone la capacità dell’adulto di non chiu-
dersi in legami diadici, ma di essere capace di muoversi all’interno di
una rete più ampia di relazioni, per il sano sviluppo del bambino.
• La funzione transgenerazionale:
«Ci vogliono tre generazioni per fare un figlio» (nel Talmud)
Si può definire questa funzione come l’immissione del figlio dentro una
storia, quella della propria famiglia, in un continuum generazionale dove
si inserisce la nascita. Questa funzione riguarda i rapporti tra genera-
zioni, e come i genitori vivono le rispettive storie familiari.
2.1.2 La genitorialità e la teoria dell’attaccamento
Il bambino, a poco, a poco, interiorizza la sua storia relazionale con
l’adulto di riferimento: la madre e il suo modo di comportarsi nei confronti
del bambino, il padre e i suoi modi di interagire con lui. Il bambino costrui-
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sce un modello di sé nell’interazione con ciascuno dei due, costruendo
un’immagine di se stesso che riflette l’immagine che i genitori hanno di lui,
comunicatagli attraverso il modo cui viene trattato e attraverso ciò che gli
viene detto. Queste rappresentazioni mentali, chiamate da Bowlby (1969-
1988) “modelli operativi interni”, comprendono le rappresentazioni interio-
rizzate a livello cognitivo ed emotivo e delle figure di accudimento e quelli
di sé-con-l’altro (Shane, Shane e Gales, 1997; Liotti, 2001).
I modelli operativi interni determinano la percezione e interpreta-
zione degli eventi, le aspettative circa la vita relazionale, le previsioni circa
il comportamento dell’altro, condizionando le risposte comportamentali,
soprattutto in situazioni di ansia e bisogno (Bowlby, 1973).
Dato che i MOI riflettono le interazioni che ha vissuto l’individuo
con le figure di accudimento, tali modelli in fase di sviluppo sono necessa-
riamente complementari (Bretherton e Munholland, 1999). Infatti,
«nel modello operativo di sé che ognuno costruisce, una confi-
gurazione chiave è proprio l’idea di come ognuno si senta ac-
cettabile o inaccettabile agli occhi delle proprie figure di attac-
camento. Sulla struttura di questi modelli complementari sono
basate le previsioni delle persone sul comportamento delle pro-
prie figure di attaccamento, se saranno facilmente accessibili e
responsive, se ritorneranno per dare aiuto» (Bowlby, 1973, p.
203).
È dunque dalla struttura di questi modelli che dipende la fiducia
riposta dall’individuo nella figura di attaccamento, nel suo essere disponi-
bile o meno. Un modello operativo di sé valido e competente è costruito nel
contesto di un modello di genitori disponibili emotivamente e material-
mente supportivi nell’esplorazione. Di contro, un modello di sé svalutato e
incompetente corrisponde ad un modello operativo di genitori respingenti o
indifferenti, o interferenti con l’esplorazione (Bretherton e Munholland,
1999).
Mentre nei primi anni di vita, i MOI sono relativamente aperti al
cambiamento, già nel corso dell’infanzia cominciano a solidificarsi, fino a
venir dati per scontati ed arrivare ad operare a livello inconscio (Bowlby,
1988): diventano cioè caratteristiche della personalità del soggetto, disponi-
bili nell’adolescenza e in età adulta come gamma di modelli gerarchica-
“Il lamento di Danae” Il vissuto di genitorialità nelle madri detenute
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mente organizzati e riferiti a differenti aspetti della realtà (Hazan e Shaver,
1994).
La teoria dell’Attaccamento ha fornito quindi una nuova chiave di
lettura che ha consentito di iniziare a comprendere, attraverso il comporta-
mento del bambino, anche l’insieme delle sue complesse reazioni emotive
insieme alla relazione tra il bambino e l’adulto significativo, differenzian-
dosi dalla dimensione interpretativa centrata sul singolo o sui suoi esclusivi
vissuti interni, caratteristica della Psicoanalisi freudiana classica (Camaioni,
Di Blasio, 2007).
2.1.3 Gli studi sull’attaccamento
Le prime ricerche sull’attaccamento risalgono agli anni ’50 e si basa-
rono principalmente sul metodo etologico dell’osservazione diretta (Lorenz,
1949; Harlow, 1958). A questo periodo risalgono i lavori di Bowlby sugli
effetti della deprivazione materna nei bambini istituzionalizzati e ospedaliz-
zati (Bowlby, 1951), e quelli sulle esperienze di separazione e di perdita
(Bowlby, 1969, 1973, 1979, 1980). Alla fine degli anni ’60, l’attaccamento
incominciò ad essere oggetto di studi sistematici per poter essere trasfor-
mato in uno strumento utilizzabile sul piano della ricerca e della terapia. La
prima a seguire questa strada fu Mary Ainsworth, che sviluppò la Strange
Situation (SS) una metodologia per la valutazione degli stili di attaccamento
nei bambini di uno-due anni di vita. Si tratta di una procedura video-regi-
strata della durata di circa una ventina di minuti in cui un bambino e la
propria madre (il caregiver) vengono introdotti in una stanza ed esposti a
momenti di separazione e riunione alla presenza di un estraneo. Attraverso
questa metodica sono stati identificati dalla Ainsworth tre tipi di attacca-
mento: sicuro (B), insicuro-evitante (A) e insicuro-ambivalente (C).
Successivamente è stato descritto da Mary Main e Judith Solomon
(1986) un quarto tipo definito insicuro-disorganizzato/disorientato (D).
Stile di attaccamento insicuro evitante (A)
Caratterizza i bambini che non sembrano avere fiducia in
un’adeguata risposta materna e mostrano uno spiccato distacco ed evita-
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mento della vicinanza e del contatto con la madre. In assenza della madre,
infatti, si mostrano indifferenti, non reagiscono alla separazione e sembrano
concentrati sui giochi e sugli oggetti, esibiscono un eccesso di autonomia e
di attenzione al compito. Quando la madre ritorna, non si avvicinano a lei
oppure evitano attivamente il contatto.
Stile di attaccamento sicuro (B)
Caratterizza i bambini che hanno avuto una madre sensibile ai se-
gnali di sconforto e di disagio e responsiva alle loro richieste. In presenza
della madre, sono in grado di concentrarsi sui giochi e di esplorare
l’ambiente. Quando sperimentano la separazione dalla madre mostrano, in
maniera più o meno evidente, segni di disagio e di sconforto, ma al ritorno
della madre non sono solo in grado di esprimere chiaramente il loro deside-
rio di vicinanza e di contatto fisico bensì riescono ad essere anche da lei
facilmente calmati e consolati, per poi ritornare ad esplorare l’ambiente.
Stile di attaccamento insicuro ambivalente (C)
I bambini ansioso-ambivalenti, incerti circa la disponibilità della
madre nel fornire aiuto e protezione, appaiono quasi completamente assor-
biti dalla figura di attaccamento, ma non riescono ad utilizzarla come base
sicura da cui partire per esplorare l’ambiente. Durante la separazione dalla
madre, esprimono evidenti segni di stress, disagio e angoscia che non ven-
gono placati nemmeno con il ritorno della madre.
Stile di attaccamento insicuro disorganizzato (D)
(aggiunto alla classificazione originaria da Main e Solomon (1986)
Il bambino non è in grado di organizzare una strategia comportamen-
tale unitaria ed emette segnali inadeguati a mantenere e strutturare il le-
game. Ha manifestazioni sequenziali o contemporanee di modelli di com-
portamento contraddittori, movimenti ed espressioni non diretti, incompleti
e interrotti, stereotipie, movimenti asimmetrici, movimenti fuori luogo e
posizioni anomale, congelamento, immobilità, espressioni e movimenti
rallentati, comportamenti diretti ed espliciti di apprensione o spavento ri-
volti ai genitori.
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2.1.4 L’attaccamento in età adulta
Stili di Attaccamento in Età Adulta: il modello di Bartholomew.
Questo modello considera i quattro stili come risultanti dall’incrocio
di due variabili bidimensionali, il modello di sé e il modello dell’altro, i cui
livelli possono essere “positivo” o “negativo”. Così, ad esempio, un mo-
dello di sé positivo e dell’altro positivo identifica lo stile “sicuro”; un mo-
dello di sé positivo e dell’altro negativo identifica lo stile “insicuro evi-
tante”; un modello di sé negativo e dell’altro “positivo”, lo stile “insicuro
ansioso”; un modello negativo di sé e dell’altro, lo stile “disorganizzato”.
I quattro stili di attaccamento in età adulta, secondo Bartholomew:
Sicuro: modello di sé positivo, modello dell’altro positivo. Basso evita-
mento, bassa ansia. Caratteristiche principali: alta coerenza, alta fiducia
in sé, approccio positivo agli altri, alta intimità nelle relazioni. Davanti
ai problemi il soggetto sicuro, che ha fiducia in se stesso, risponde in
maniera flessibile, fronteggiandoli attivamente ed attivando strategie di
coping che includono il rivolgersi all’altro come fonte di supporto. Il
modello positivo che ha dell’altro lo porta ad apprezzare gli altri e ad es-
sere caldo ed affezionato nei loro confronti. In generale una persona si-
cura avrà una relazione mutua con le altre persone, dalle quali general-
mente viene considerato un tipo positivo. Le sue relazioni di coppia
sono caratterizzate da intimità, vicinanza, mutuo rispetto, coinvolgi-
mento e apertura emotiva. È in grado di risolvere i conflitti col partner
in maniera costruttiva.
Preoccupato: (assimilabile all’insicuro Ansioso Ambivalente) modello
di sé negativo, modello dell’altro positivo. Basso evitamento, alta ansia.
Caratteristiche principali: preoccupazione per le relazioni, alta dipen-
denza dagli altri per l’autostima, elevato bisogno di relazione. Il modello
negativo che l’individuo Preoccupato ha di sé lo porta ad avere bassa
autostima e a tendere alla dipendenza dal giudizio degli altri. Quando si
confronta con i problemi, reagisce in maniera forte o eccessiva dal punto
di vista emotivo, e trova difficoltà nella loro risoluzione senza l’aiuto
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degli altri. Il suo impulso è quello di rivolgersi immediatamente all’altro
nei momenti critici. Il modello positivo che ha dell’altro lo porta dispe-
ratamente alla ricerca di compagnia ed attenzione. Necessita costante-
mente di intimità nelle relazioni, tanto che la sua insaziabilità nella ri-
chiesta di attenzione ed approvazione tende a far allontanare gli altri.
Tendenzialmente appare in conflitto con gli altri, in quanto ha la con-
vinzione che l’altro non dia mai abbastanza, e di non essere mai giudi-
cato per il proprio reale valore. Per l’individuo preoccupato le relazioni
sentimentali sono di importanza critica. Si può dispiacere di non riuscire
a trovare qualcuno con cui dividere la propria vita anche se sembra es-
sere costantemente coinvolto in relazioni romantiche. Le sue relazioni
sono costellate da picchi emotivi di rabbia, passione, gelosia e possessi-
vità. Tende a dare inizio ai conflitti, esprimendo apertamente i propri
sentimenti e la propria insicurezza verso la relazione, ma allo stesso
tempo tende a rimandare la rottura del legame, rimanendo così col par-
tner nonostante i gravi problemi che egli stesso ha messo in rilievo.
Distanziante: (assimilabile all’Evitante) modello di sé positivo, modello
dell’altro negativo. Alto evitamento, bassa ansia. Caratteristiche princi-
pali: bassa coerenza, svalutazione delle relazioni, evitamento
dell’intimità, alta fiducia in sé e sicurezza compulsiva di sé. Il modello
positivo che l’individuo Distanziante ha di sé lo porta ad avere alta fidu-
cia in se stesso. Generalmente sembra non essere interessato al giudizio
degli altri, anche se pensa di essere considerato arrogante, furbo, critico,
serio, riservato. Il modello negativo che ha dell’altro lo porta a dare
l’impressione di non apprezzare troppo le altre persone, apparendo tal-
volta cinico o eccessivamente critico, mantenendo costantemente dagli
altri una distanza emozionale. Non è a proprio agio con gli affetti e non
ricerca l’intimità, evitando attivamente di dare il supporto che gli altri
possono chiedergli. Svaluta l’importanza delle relazioni, evita i conflitti
interpersonali e sottolinea l’importanza dell’indipendenza, della libertà e
dell’affermazione. Le relazioni di coppia del Distanziante sono caratte-
rizzate dalla mancanza dell’intimità o della vicinanza e da una bassa
apertura nella comunicazione, risultando meno coinvolto del partner.
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Tende a non mostrare affetto nelle relazioni e non si sente a proprio agio
con le richieste di supporto o le manifestazioni di dipendenza del par-
tner. Preferisce evitare i conflitti o altre manifestazioni emozionali e ra-
pidamente si sente intrappolato o annoiato dalla relazione.
Timoroso-Evitante: (assimilabile al Disorientato/Disorganizzato) mo-
dello di sé negativo, modello dell’altro negativo. Alto evitamento, alta
ansia. Caratteristiche principali: bassa fiducia in sé, evitamento
dell’intimità causato dalla paura del rifiuto, conflitto tra il desiderio e la
paura dell’intimità, elevata conoscenza di sé. Il modello negativo che
l’individuo Timoroso ha di sé stesso lo porta ad avere bassa autostima,
molte incertezze verso se stesso e gli altri. Questo modello negativo si
rispecchia nell’alta dipendenza emozionale, alta gelosia, elevata ansia di
separazione. Spesso si lamenta di non piacere agli altri o che questi lo
vedano come noioso o non attraente. Il modello negativo che ha
dell’altro lo porta ad evitare le richieste di aiuto, finché non sia certo di
una risposta positiva. Evita i conflitti, di piangere davanti a gli altri, e di
autorivelarsi perché impaurito dalla possibilità del rifiuto. Il Timoroso
ha difficoltà nel fidarsi degli altri. Desidera il contatto con le altre per-
sone, ma contemporaneamente sente di non esservi adeguato ed è estre-
mamente sensibile ad ogni segno di rifiuto. Nelle relazioni è dipendente,
e spesso si autodescrive come solo. Si lamenta di non riuscire a trovare
il giusto partner o che non sarà mai desiderato da nessuno in futuro. È
difficile trovarlo coinvolto in una relazione sentimentale e quando vi si
trovi assume un ruolo passivo. Nelle relazioni sentimentali è decisa-
mente dipendente ed insicuro e tende ad essere più coinvolto del partner.
Tende ad autocolpevolizzarsi per i problemi della coppia ed ha difficoltà
a comunicare apertamente e a mostrare i sentimenti al partner.
Cap. 2. La genitorialità
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2.2 LA GENITORIALITÀ IN CARCERE: ACCENNO ALLE PROBLE-
MATICHE
«Lo stato di precarietà appare la condizione che più sembra in-
fluenzare la vita della detenuta madre, precarietà per la situa-
zione giuridica, per i rapporti affettivi lasciati all’esterno, per il
suo ruolo di madre e di donna» (Biondi, 1994, p. 13).
Nella situazione emotiva, psicologica e ambientale in cui la madre
detenuta si trova, è difficile mantenere e rappresentare la propria funzione
genitoriale, vivere ed agire la propria maternità.
«La principale conseguenza è che alla privazione della libertà,
si accompagna un’ulteriore prezzo da pagare, forse il più diffi-
cile da sopportare per queste detenute: quello di vedersi negare
l’inviolabile diritto-dovere di essere, per il proprio figlio, una
madre presente con una funzione riconosciuta come valida e si-
gnificativa» (Salerno, Di Vita, 2004, p. 134).
La detenzione viene vissuta dalla madre come una grande squalifica,
data dalla sensazione, che provoca vergogna, di aver abbandonato il proprio
figlio. Il sentimento di vergogna mina la legittimità psichica dell’essere
genitore. Scrive Bouregba
«Più la madre ha vergogna di aver abbandonato, più in lei si
abbassa la legittimità della posizione che occupa» (Bouregba,
2004, p. 81).
G. ha 3 figli che vivono in Brasile, con i quali non ha più contatti da
4 anni. Quando le chiedo se pensa di tornare a condurre una vita normale
con i suoi figli fuori dal carcere, mi risponde con rassegnazione:
«Non penso che tornerò a fare mai più la mamma come prima
perché ci vorrà tantissimo prima che accetteranno di rivedermi.
Non posso andare da loro e imporre che torni tutto come
prima… già hanno tanto sofferto quando li ho lasciati, quando
uscirò devo loro almeno il rispetto di non stravolgere un’altra
volta le loro vite» (Marasca, 2011, ined.).
Un’altra delle difficoltà nell’esercitare la genitorialità quando si è
detenuti è confrontarsi con il giudizio sociale: in genere la società non crede
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che una madre possa essere una buona madre se è detenuta: non è esatta-
mente lo stesso per i padri, ma per le madri il giudizio è sempre stato netto
(Bouregba, 2004).
R. è di origine rumena e ha tre figli, affidati a suoi parenti.
Quando le chiedo se secondo lei essere in carcere è la stessa
cosa per gli uomini e per le donne, mi risponde che no, non può
essere uguale, perché per una donna è motivo di molta più ver-
gogna (Marasca, 2011, ined.).
Alcuni genitori si trovano in uno stato di “incontinenza psichica”
dovuta alla detenzione (Bouregba, 2004), tanto che non sanno più a chi
indirizzare le loro intenzioni: quando parlano al bambino non è a lui che si
rivolgono: non si rivolgono a lui nella realtà in cui si trova, nell’età che ha,
gli parlano come se fosse un adulto. La detenzione è un’esperienza che
spersonalizza «non si è più abituati ad abitare se stessi» (Bouregba, 2004,
p.76) cosicché si tende a rivolgersi agli altri senza sapere bene a chi ci si sta
rivolgendo «a non destinare a qualcuno il discorso che si enuncia»
(Bouregba, 2004, p. 76).
Per questo sia i genitori che i figli avrebbero bisogno di essere aiutati
durante i loro incontri: un genitore detenuto è un genitore in difficoltà e
l’incontro potrebbe diventare difficile e doloroso per entrambi
2
. Anche le
condizioni ambientali possono fare la differenza: occorrerebbe allestire
spazi adeguati, dove si possano ritrovare i gesti quotidiani, mangiare in-
sieme, giocare insieme. Se il senso di colpa per l’abbandono è ciò che più
caratterizza la “genitorialità a distanza” tra la detenuta e il figlio affidato a
terzi, nel caso in cui il bambino conviva con lei in carcere, è il senso di
colpa per aver costretto il figlio alla dolorosa esperienza di “recluso inno-
cente” ad essere dominante
3
. In questo caso inoltre, la donna deve convi-
vere ogni giorno con l’angoscia di sapere che prima o poi arriverà la sepa-
razione. Al compimento del terzo anno del bambino, infatti, la madre dovrà
accettare forzatamente che saranno altri ad occuparsi del bambino, che fino
2
Ci sono diverse associazioni che si occupano di favorire la relazione tra figli e geni-
tori detenuti di cui tratterò nel capitolo 4.
3
Queste due situazioni sono trattate più approfonditamente nei capitoli 4 e 5.
Cap. 2. La genitorialità
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a quel giorno ha vissuto in un rapporto simbiotico ed esclusivo con la
mamma. Particolarmente significativa è stata la testimonianza di una agente
che lavora nella sezione femminile della Casa Circondariale.
Lavora nella C.C. da 15 anni: «Quando, allo scadere dei tre
anni di vita, un bambino viene allontanato dalla mamma dete-
nuta la situazione è terribile: dobbiamo sorvegliare la mamma
giorno e notte perché è sempre a rischio di automutilazioni e
suicidio. E il bambino? Lo portano via dalle sue braccia mentre
piange disperato, ho visto scene terribili... dopo tanti anni di la-
voro ancora non mi sono abituata, anzi la pena è così grande
che quando so che sta per avvenire una situazione simile, chiedo
di poter prendere le ferie» (Marasca, 2011, ined.).