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I.1 Introduzione al romanzo
Una divisa militare regolamentare, con tanto di berretto, ma vuota,
come fosse indossata da un soldato inesistente. Troneggia su uno
sfondo di sabbia giallastra, un deserto incastrato tra ripide mura
bianche. Lontano, quasi come un puntino, un cavallo nero cammina,
lasciando una leggera ombra dietro di sé.
Questa è la descrizione del quadro che lo stesso Dino Buzzati ideò per la copertina del
suo libro Il deserto dei tartari e mai fu fatta scelta editoriale migliore
1
. In quei pochi
semplici oggetti forse è racchiuso tutto il mistero di un libro che è riuscito, nel bene e
nel male, a far parlare di sé da oltre 65 anni.
A partire da quelle montagne, uno dei luoghi metafisici dell'autore
2
, che sostituiscono,
erigendosi oltre la linea dell'orizzonte, il cielo del quadro racchiudendolo in un ambiente
magico e arido allo stesso tempo. E saranno le montagne eroiche della morte vana di
Angustina; i ripidi sogni di Drogo e degli altri soldati che si infrangono nella barriera di
un tempo che chiude la prospettiva di un orizzonte di gloria; i ricordi di una gioventù,
quella passata dell'autore nelle Prealpi bellunesi, e quella dei soldati che nel guardarle
consumeranno la loro esistenza.
Su quel deserto giallastro, poi, sembra bruciarsi al sole tutta la routine e la piattezza di
una vita arida e solitaria. Un solo cavallo, primo sentore di un miracolo che può portare
novità e vitalità, che nel suo attraversare placido il deserto denota, direi quasi anticipa,
la soluzione vana di tutta un'attesa, di una vita che resterà immobile, come il macigno
che schiaccia, indifferente, il lato sinistro del dipinto.
Ma è nell'immagine di quella divisa privata della carne e di senso che si condensa la più
esplicita metafora di cui il quadro e il libro si fanno portatori. In quel militare vuoto,
senza volto, senza corpo, in quella divisa che magari sarà quella di Drogo, ma che
potrebbe essere di chiunque. In quel, mi si permetta la citazione, cavaliere inesistente
1 La copertina risulta nell'edizione degli Oscar Mondadori, collana Classici
moderni, del 2002
2 Veronese Asrlan, Invito alla lettura di Buzzati, Mursia, Milano, 1974
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perfetto, ordinato, ma privo di ogni connotazione, di ogni aspetto umano. Un uomo che,
persa ogni cognizione di sé, vaga nella crisi di un mondo e, soprattutto, di una società
borghese incastrati nel "credere, ubbidire, combattere" di un'Italia fascista e alle soglie
di una vera guerra
3
.
È facile riconoscere nel tema e nell'atmosfera sospesa di questo romanzo un'immagine
della tensione e dell'attesa di eventi distruttivi che percorreva l'Italia del fascismo
al'inizio della guerra mondiale; ma Buzzati traspone questa tensione in una specie di
tempo fuori dalla storia, in un orizzonte metafisico che resta in parte astratto e
convenzionale.
4
Un romanzo che sembra bloccato, ripetendo in ogni suo attimo sempre lo stesso schema
narrativo, come fosse l'immagine fissa di un quadro.
E in effetti la scrittura di Buzzati richiama sempre una produzione pittorica, con la sua
attenzione ai particolari coloristici (si veda il giallastro che assume un significato che va
ben oltre la pura definizione del colore) e ai luoghi simbolici. D'altronde diceva lo
stesso Buzzati:
La pittura per me non è un hobby, ma il mestiere; hobby per me è scrivere. Ma
dipingere e scrivere per me sono in fondo la stessa cosa. Che dipinga o che scriva, io
perseguo il medesimo scopo, che è quello di raccontare delle storie
5
.
E così come la sua vita fu sempre divisa tra produzione letteraria e figurativa, così le sue
opere si scambiano temi, luoghi e situazioni.
Si può comunque considerare il centro della produzione buzzatiana il senso dello
scorrere del tempo. E forse, tra le sue opere, nessuna è tanto esplicativa su questo
argomento quanto Il deserto dei Tartari. In quell'attesa senza limiti, senza fine, che un
3 Si confronti il discorso di Yves Panafieu, Aspetti storici, morali e politici del
discorso sull'impotenza, pronunciato nel convegno svoltosi nel novembre 1980.
4 Giulio Ferroni, Andrea Cortellessa, Italo Pantani, Silvia Tatti, Storia e testi
della letteratura italiana – Guerre e fascismo (1910-1945), Perugia, Mondadori, 2004
5 Dichiarazione inserita in un discorso autoironico, ma non tanto, sulla propria
pittura.
5
qualcosa avvenga a cambiare la propria vita e a dargli un significato altro, vero.
Probabilmente tutto è nato nella redazione del “Corriere della Sera”. Dal 1933 al 1939
ci ho lavorato tutte le notti, ed era un lavoro piuttosto pesante e monotono, e i mesi
passavano, passavano gli anni e io mi chiedevo se sarebbe andata sempre così, se le
speranze, i sogni inevitabili quando si è giovani, si sarebbero atrofizzati a poco a poco,
se la grande occasione sarebbe venuta o no, e intorno a me vedevo uomini, alcuni della
mia età altri molto più anziani, i quali andavano, andavano, trasportati dallo stesso
lento fiume e mi domandavo se anch’io un giorno non mi sarei trovato nelle condizioni
dei colleghi dai capelli bianchi già alla vigilia della pensione, colleghi oscuri che non
avrebbero lasciato dietro di sé che un pallido ricordo destinato presto a svanire.
Chiaro che la stessa situazione si presenta in tutti i generi di lavoro, in tutte le carriere.
Era insomma un tema abbastanza universale, una macchina nei cui ingranaggi ero
preso io, ma che macinava anche la stragrande maggioranza dei miei simili. […]
L’ambiente militare, specificatamente quello di una fortezza al confine, mi offriva due
grandi vantaggi. Primo, quello di esemplificare il tema della speranza e della vita, che
passa inutilmente, con una maggiore evidenza, perché la disciplina e le regole militari
erano assai più lineari, rigide e inesorabili di quelle instaurate in una redazione
giornalistica. Pensavo, insomma, che, in un ambiente militare, la mia storia avrebbe
potuto acquistare perfino una forza di allegoria riguardante tutti gli uomini. Secondo
motivo, il fatto che la vita militare corrispondeva alla mia natura
6
.
Quella che parte come una esigenza personale di rinnovamento, l'attesa di un
miglioramento diviene, nel libro, l'apologia di una vita consumata nell'illusione che un
Godot arrivi a dare un senso profondo, che da soli non si riesce a trovare se non nella
morte. E allora sì, in questa vita che, come una triste girandola, ripercorre lo stesso
identico binario senza nessun tipo di miglioramento o evoluzione personale, l'unica via
di fuga, l'unico modo per poter essere eroici, per poter essere ricordati è quello di
affidarsi ad una morte che ricorda il quadro del Principe Sebastiano, chiuso nel suo
mantello.
6 Intervista con Buzzati di Alberico Sala, inserita nell'introduzione de Il deserto
dei Tartari, Milano, Oscar Mondadori, 1966.
6
I.2 Il tempo e lo spazio
Disteso sul lettuccio, fuori dall'alone del lume a petrolio, mentre fantasticava sulla
propria vita, Giovanni Drogo fu preso improvvisamente dal sonno. e intanto, proprio
quella notte – oh, se l'avesse saputo, forse non avrebbe avuto voglia di dormire –
proprio quella notte cominciava per lui l'irreparabile fuga dal tempo.
Fino allora egli era avanzato per la spensierata età della prima giovinezza, una strada
che da bambini sembra infinita, dove gli anni scorrono lenti e con passo lieve, così che
nessuno nota la loro partenza. Si cammina placidamente, guardandosi con curiosità
attorno, non c'è proprio bisogno di affrettarsi, nessuno preme dietro e nessuno ci
aspetta, anche i compagni procedono senza pensieri, fermandosi spesso a scherzare.
Dalle case, sulle porte, la gente grande saluta benigna, e fa cenno indicando l'orizzonte
con sorrisi d'intesa; così il cuore comincia a battere per eroici e teneri desideri, si
assapora la vigilia delle cose meravigliose che si attendono più avanti; ancora non si
vedono, no, ma è certo, assolutamente certo che un giorno arriveremo.
Ancora molto? No, basta attraversare quel fiume laggiù in fondo, oltrepassare quelle
verdi colline. O non si è per caso già arrivati? Non sono forse questi alberi, questi
prati, questa bianca casa quello che cercavamo? Per qualche istante si ha l'impressione
di sì e ci si vorrebbe fermare. Poi si sente dire che il meglio è più avanti e si riprende
senza affanno la strada.
Così si continua il cammino in una attesa fiduciosa e le giornate sono lunghe e
tranquille, il sole risplende alto nel cielo e sembra non abbia mai voglia di calare al
tramonto. Ma a un certo punto, quasi istintivamente, ci si volta indietro e si vede che un
cancello è stato sprangato alle spalle nostre, chiudendo la via del ritorno. Allora si
sente che qualcosa è cambiato, il sole non sembra più immobile ma si sposta
rapidamente, ahimè, non si fa tempo a fissarlo che già precipita verso il confine
dell'orizzonte, ci si accorge che le nubi non ristagnano più nei golfi azzurri del cielo ma
fuggono accavallandosi l'una sull'altra, tanto è il loro affanno; si capisce che il tempo
7
passa e che la strada un giorno dovrà pur finire
7
.
Un brano lungo, ma che valeva la pena di riportare integralmente perché riassume tutto
il senso dell'opera. A pagina 40 Dino Buzzati, mentre Drogo passa la sua prima notte
alla Fortezza Bastiani, sveglio tra il senso di solitudine e l'ansia di scappare da quel
luogo che già lo sta ammaliando, ci spiega tutto l'iter della vita del suo protagonista (o
forse di tutti noi?). Un'esistenza fatta di continui rimandi e aspettative in un domani che
non arriverà mai, nell'illusione di essere nati per compiere un proprio eroico destino.
L'ansia del protagonista e la fuga del tempo iniziano sin dalla prima pagina del testo,
quando Drogo è ancora solo un giovane che per la prima volta lascia la propria casa
d'infanzia, dopo la nomina di ufficiale. È ancora nel pieno della sua vita ma già, prima
di partire, ripensa a tutti i giorni che si sono consumati tra lo studio e i suoi sergenti
istruttori, e ne sente la mancanza; già è consapevole di aver bruciato la parte più fulgida
della propria candela. In un giorno imprecisato di settembre, mese
sospeso e ridotto alla semplice significazione della fine dell'estate è indizio del
decadere incombente, del crepuscolo serotino, del progressivo spengimento delle
energie vitali
8
,
mese che sin da subito segna una stasi e un tramonto, in un anno qualsiasi, da una città
che allo scrittore non serve e non interessa precisare, Giovanni Drogo parte per la sua
più grande avventura.
Lo seguiamo mentre, compiuto un viaggio di due giorni, il suo viaggio d'iniziazione,
arriva alla Fortezza e subito prova un senso di ansia, una voglia di fuggire a cui la paura
di non dare una lieve sfumatura negativa alla sua carriera pone un potente freno.
«A meno che lei non si adatti a restare qui quattro mesi, il che sarebbe la soluzione
migliore.»
9
7 Dino Buzzati, Il deserto dei Tartari,Cles, Classici Moderni Mondadori, 1989,
pag 40
8 Marcello Carlino, Come leggere il deserto dei Tartari di Dino Buzzati,
Milano,Mursia, 1976
9 Dino Buzzati, Il deserto dei Tartari, Cles, Classici Moderni Mondadori, 1989,
pag 21
8
E da qui inizia la corsa del tempo nel romanzo. Da quel momento tutto diviene troppo
veloce, perfino il ritmo della scrittura del libro accelera. Tant'è che in ventuno capitoli
vengono descritti quattro anni, e negli ultimi nove, se ne avvicendano più di
venticinque. E anche i salti temporali tra un capitolo e l'altro aumentano in una corsa
vertiginosa, dandoci il peso di un'abitudine che ingabbia l'animo del giovane ufficiale
così come dei suoi commilitoni. E in quei quasi quarant'anni di vita descritti dallo
scrittore non c'è nulla che ci salvi dalla percezione di un tempo che, inclemente, procede
senza dare mai tregua, vanificando ogni attesa, mentre lo scorrere di quel supremo
dittatore pare essere il pensiero unico e, quasi fisso, dell'autore; tempo che si ritroverà
ad essere scandito dai viaggi di Drogo tra la città e la Fortezza.
In effetti i tre luoghi metafisici di Buzzati, che ricorrono costantemente in tutta la sua
produzione, e che sono l'unico teatro di quarant'anni di storia de Il desero dei Tartari,
sono: le montagne delle Prealpi bellunesi, il deserto e la città di Milano; e questi luoghi
sono presenti nella mente dello scrittore perché
Familiari e amate le une (n.d.a le montagne), temuto ancora e desiderato l’altro (n.d.a
il deserto): ma entrambi destinati ad essere per lo scrittore (che di metafora non può
non nutrirsi e nella metafora dirsi) vive metafore dell’esistenza e del destino
10
.
o, meglio ancora, sono onnipresenti perché
simboleggiano soltanto i diversi aspetti del tempo. La contemplazione del tempo è il
vero tema di Buzzati [...] ma perché se ne possa dare una rappresentazione, il tempo
deve passare attraverso tutte le figure della sensibilità, quelle almeno che lo scrittore
può conoscere per personale esperienza.
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E allora ecco come, in tutte le opere di Dino Buzzati, si ripresentiano quelle montagne
che Buzzati ha sempre amato; le montagne della sua infanzia bellunese che erano già al
10 Stefano Jacomuzzi, I primi racconti di Buzzati, discorso tenuto al convegno del
novembre 1980
11 Veronese Arslan, Invito alla lettura di Buzzati, Milano, Mursia, 1974