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quadro la Turchia, la quale ha siglato un accordo di unione doganale con
l’UE nel 1996 [L. Manfra, 1999, p.1].
L’entrata in vigore dell’area di libero scambio, e la conseguente
eliminazione delle barriere al commercio, è prevista per il 2010, un
periodo di tempo ritenuto sufficientemente ampio da permettere ai paesi
MED di implementare le necessarie riforme e di riequilibrare le proprie
strutture produttive. Non tutti i prodotti saranno liberalizzati
contemporaneamente: nell’arco dei primi quattro anni degli accordi
verranno aboliti dazi e contingentamenti sulle importazioni dall’UE di
materie prime e beni d’investimento, per poi gradualmente estendersi a tutti
i prodotti dell’industria, sino a quelli finali nel 2010.
Dovranno essere perseguite politiche di “aggiustamento strutturale”
con decisione e continuità, poiché avranno il compito di rendere le
produzioni più efficienti e competitive sui mercati internazionali e allo
stesso tempo di minimizzare i costi e le tensioni sociali che una
“liberalizzazione forzata” non può non comportare.
� GLI EFFETTI DEGLI ACCORDI
Nel breve periodo gli effetti dell’intesa UE-MED si ripercuoteranno
sulle entrate del bilancio statale; difatti la caduta dei restringimenti e delle
limitazioni alle importazioni dei prodotti europei provocherà una
immediata contrazione degli introiti fiscali; tale diminuzione varierà a
seconda della quota importata dai paesi UE e dalla tariffa media che adotta
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ciascun paese, ma il ‘giro di vite’ sarà sensibile per tutte le amministrazioni
statali.
A rendere questo processo più penalizzante contribuiranno gli stessi
regimi fiscali sui quali si basano le economie mediterranee; la base
d’imposizione è generalmente molto ristretta, in quanto le amministrazioni
statali non dispongono di strumenti efficienti e di strutture adeguate per la
misurazione esatta dei redditi, la maggior parte dei quali percepiti a titolo di
lavoro indipendente o precario. A ciò bisogna aggiungere il fatto che la
maggior parte dei paesi MED ha appena cominciato ad adottare la tassa sul
commercio e quella sui redditi personali, proprio quegli strumenti sui quali
i moderni apparati pubblici basano le loro entrate.
La contemporanea presenza di questi elementi acuisce le
conseguenze dell’eliminazione delle barriere, le quali per questi paesi, oltre
che uno scudo protettivo, rappresentano una quota sul bilancio pubblico
percentualmente influente.
Un ulteriore effetto degli accordi si ripercuoterà sulle imprese e le
costringerà a profonde ristrutturazioni interne per adeguarsi al nuovo clima
competitivo che l’apertura dei mercati comporterà.
Difatti le merci provenienti dall’Europa non troveranno più quegli
ostacoli alle dogane che ne limitavano l’ingresso oppure ne aumentavano il
costo per il consumatore finale; di conseguenza tali beni, prodotti nel
continente con tecnologie più moderne, con regimi di economie di scala e
di costi unitari decrescenti, saranno immessi nei paesi MED ad un prezzo
decisamente inferiore a quello praticato in precedenza.
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Il pericolo è che tali merci spazzino via la concorrenza locale, di gran
lunga meno forte, organizzata e competitiva, soprattutto nei settori dei
prodotti industriali e finali; sicuramente una parte delle entrate doganali
verrà ‘catturata’ dai produttori europei, in quanto i prezzi al consumatore
verranno ridotti in misura inferiore all’entità della tariffa; un’altra parte
andrà ai distributori, cioè ai grossisti e ai commercianti che potranno
elevare il loro mark-up. Ciononostante i beni prodotti in Europa
conquisteranno rilevanti fette di mercato a spese dei produttori locali.
Strette da questa nuova situazione le aziende si troveranno a
combattere una dura battaglia sul piano dell’efficienza e della
competitività, due fattori che imporranno una rottura con i tradizionali
metodi di utilizzo delle risorse e di organizzazione della produzione. Molti
servizi pubblici ancora in regime di monopolio dovranno essere
privatizzati, altri, oberati da dimensioni eccessive e da sprechi e inattività,
dovranno essere fortemente alleggeriti sul piano del personale – con gravi
effetti sul livello dell’occupazione –. Per quel che riguarda il settore
privato, ancora poco sviluppato e in alcuni paesi quasi inesistente,
bisognerà implementare riforme strutturali e sviluppare condizioni
favorevoli ad incentivare l’iniziativa degli imprenditori, così da creare una
classe media attiva e preparata, con il compito di rivitalizzare l’economia
locale.
Non tutte le imprese riusciranno a realizzare i suddetti cambiamenti,
poiché la forte concorrenza europea da un lato le costringerà a grossi sforzi
economici, finanziari e organizzativi, dall’altro le porterà inevitabilmente
ad un conflitto fra di loro per accaparrarsi quote di mercato. Una forte
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selezione sarà la conseguenza di questo processo: molte aziende saranno
costrette a chiudere i battenti e si avrà un aumento del tasso di
disoccupazione.
Oltre alla questione dello ‘spreco delle braccia’, sorgeranno nuovi
problemi dovuti all’aumento delle sacche di povertà, poiché in questi paesi
i disoccupati vengono sostenuti da una base già ristretta di persone in
condizione lavorativa; ciò potrebbe provocare reazioni sul piano sociale,
poiché si rischierebbe d’indebolire la coesione tra i cittadini nonché il
pubblico consenso alle istituzioni, elementi essenziali per il funzionamento
di uno stato democratico.
A complicare il tutto vi sono i probabili tagli alla spesa sociale che i
governi mediterranei attueranno, al fine di reperire le risorse necessarie per
implementare le ristrutturazioni.
Difatti una liberalizzazione diffusa e un’integrazione economica a
vasto raggio d’azione necessitano di risorse finanziarie ed economiche
molto ingenti; i costi maggiori di questo processo saranno sopportati dai
cittadini, in quanto nei bilanci statali le risorse che garantiscono una pur
minima spesa sociale, saranno dirottate verso la ristrutturazione del settore
pubblico e privato, il potenziamento delle strutture produttive e quant’altro
possa preparare adeguatamente l’apertura delle frontiere.
Infine vi è il pericolo che i governi dei paesi locali non riescano a far
fronte alle spese per ristrutturare l’apparato pubblico e per ampliare quello
privato. L’Unione Europea, attraverso il Progetto Meda, ha stanziato dei
fondi per facilitare lo sviluppo delle infrastrutture, anche a livello locale,
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ma numerosi studi affermano che occorrerebbero maggiori risorse per
permettere la transizione verso la liberalizzazione dei mercati.
Se ciò non avvenisse, i paesi MED non sarebbero in grado di reggere
il peso, economico e sociale, che la messa in atto delle riforme comporta; il
deficit nei conti con l’Europa, grazie alle merci continentali rese più
economiche dall’abolizione dei dazi, non potrebbe più essere sanato:
svalutazione monetaria e inflazione ne conseguirebbero automaticamente.
Occorre dunque molta cautela; il terreno della liberalizzazione, per i
paesi mediterranei, appare minato da numerosi ostacoli, evitabili solo a
patto di un concreto sforzo e di una più stretta collaborazione con l’Unione
Europea.
� L’INTEGRAZIONE REGIONALE
I governi mediterranei, siglando accordi bilaterali con l’UE, si
espongono al pericolo di diventare delle ‘economie-satellite’, ossia dei
semplici mercati di sbocco per i prodotti delle imprese europee, più forti,
organizzate e competitive. Queste ultime infatti non troverebbero alcuna
convenienza nell’investire direttamente in una zona nella quale, per
esportare verso gli altri paesi dell’area, occorre sopportare costi doganali,
contingentamenti e altri più o meno ingenti costi di transazione; trarranno
invece vantaggio a produrre in Europa e successivamente ad esportare nei
vari paesi, godendo dei vantaggi degli accordi bilaterali.
Questo effetto, chiamato ‘hub and spokes’ (mozzo e raggi), non
sarebbe di certo positivo per i paesi MED, in quanto verrebbe a mancare
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l’apporto finanziario, economico e tecnologico degli investimenti stranieri,
i quali sono una componente imprescindibile per la crescita della regione.
L’esigenza di una coordinazione e armonizzazione delle economie
mediterranee appare dunque la via maestra sulla strada dello sviluppo; dare
agli investitori europei la possibilità di operare su un mercato mediterraneo
di 300 milioni di consumatori, con la garanzia di una agevole passaggio
delle merci e dei capitali, nonché una tutela soddisfacente dal punto di vista
giuridico e amministrativo, significa offrire loro condizioni d’investimento
di gran lunga migliori .
L’integrazione a livello regionale significa però armonizzare le
disposizioni e i regolamenti alle frontiere, coordinare e cooperare affinché
le risorse vengano sfruttate in maniera intelligente, evitando inutili
duplicazioni e puntando alla crescita dell’intera regione, rinunciando così ai
particolarismi e al conseguimento dei soli interessi locali. Le produzioni
devono essere coordinate da progetti e intese inter-governative per evitare
sprechi e puntare a raggiungere più elevate economie di scala e minori costi
unitari, sia sui prodotti destinati all’esportazione che su quelli per il
mercato interno.
Come spesso accade, quando dall’analisi teorica si passa
all’economia applicata si incontrano parecchie difficoltà. Nella regione
mediterranea, difatti, permangono profonde divergenze di ordine politico,
sociale, religioso ed economico.
Innanzitutto sull’intera area grava la questione arabo-israeliana, un
conflitto lungo e sanguinoso che si nutre di intolleranza interrazziale e di
fanatismi religiosi, inconciliabili con lo spirito di armonia e coesione civile
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che occorrerebbe per un’integrazione. In più, Israele è il paese che, per
dotazione di risorse, iniziative e capitale umano, potrebbe trainare lo
sviluppo della regione, ed invece, come mostrano le analisi sugli scambi
intra-regionali, rimane isolato dagli altri paesi – solo con l’Egitto ha
qualche relazione - e commercia esclusivamente con paesi non
mediterranei.
Un altro fattore di divisione può essere identificato nelle diverse
strategie di politica economica: alcuni paesi perseguono una politica di
liberalizzazione del commercio, crescita del settore privato e
differenziazione delle esportazioni, il tutto supportato da un’azione volta a
promuovere il risparmio privato nazionale e ad attirare quello
internazionale; altri, ancorati alla tradizione “inward-looking”, detengono
ancora monopoli di numerose attività e basano le proprie economie sugli
introiti doganali, sul finanziamento inflazionistico della domanda, nonché
sul ricorso al credito e al deficit pubblico.
Sebbene ultimamente si sia tentata la realizzazione di riforme di
‘aggiustamento strutturale’, le difficoltà di armonizzare le politiche di paesi
così disomogenei rischiano di prendere molto tempo, e tempo sufficiente
potrebbe non esserci.
� I BENEFICI DEGLI ACCORDI
Se i paesi MED riusciranno ad integrarsi, sia sul piano della
coordinazione della produzione che su quello dell’eliminazione degli
ostacoli al commercio interno, nel medio-lungo periodo le economie
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mediterranee potranno godere di moderati benefici e innestare così un
circolo virtuoso, usufruendo dell’intesa con l’Europa.
I vantaggi che i paesi MED potranno trarre dalla messa in pratica
della loro partnership sono difficilmente quantificabili, in quanto sulle
performances economiche incideranno fattori statici ma soprattutto
dinamici, ed entreranno in gioco numerose variabili, non tutte dipendenti
dalla pura applicazione degli accordi.
Tre sono gli obiettivi macroeconomici da raggiungere: aumento della
produttività, aumento degli investimenti e diffusione delle tecnologie. È’
importante notare che questi obiettivi non possono essere raggiunti
separatamente oppure uno dopo l’altro, poiché sono profondamente
interrelati e il loro esito è condizionato dall’utilizzo delle leve e degli
strumenti della politica economica.
L’incremento dei livelli di produttività sarà una conseguenza
dell’interazione fra vari fattori; in primo luogo vi è la caduta dei dazi e dei
contingentamenti gravanti a tutt’oggi sui prodotti, soprattutto beni
intermedi e prodotti dell’industria, provenienti dall’Europa: il minor costo
degli inputs faciliterà l’approvvigionamento delle imprese locali e le
spingerà ad utilizzare combinazioni produttive a più alta intensità di
tecnologia, più accessibili perché meno costose.
Un’ulteriore spinta al miglioramento potrà arrivare dall’abbattimento
dei cosiddetti ‘costi di transazione’, ossia di quelle spese che le aziende
devono sostenere per vendere i loro prodotti su un mercato che adotta
regolamentazioni differenti da quello di origine. Controlli, burocrazia,
regole sugli standards di qualità, norme sanitarie spesso formano delle vere
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e proprie barriere all’ingresso di beni stranieri, che ne alzano il prezzo al
consumatore dal 50 all’80% in più, e talvolta anche oltre. L’integrazione a
livello regionale avrà, fra gli altri, il compito di eliminare questi ‘red tapes’,
cioè quegli ostacoli agli scambi che non dipendono dalle tradizionali
restrizioni doganali; se il processo avrà successo, le imprese mediterranee
ne beneficeranno non poco e verranno stimolate a produrre di più e meglio.
Infine occorre considerare che un aumento dei livelli di produttività è
indispensabile alle aziende che vorranno competere con le più moderne
imprese europee; non si dimentichi, infatti, che l’altra faccia della medaglia
dell’apertura delle frontiere è caratterizzata dall’irrompere dei beni
continentali sui mercati locali.
Risulta perciò chiaro che molte imprese locali saranno portate al
fallimento dall’aumento della competitività sui mercati interni, in quanto
non potranno reggere il passo delle multinazionali europee. Quelle che
però, a costo di grossi sforzi di riorganizzazione e di ammodernamento
delle strutture e infrastrutture, riusciranno a sopravvivere e ad adeguarsi al
nuovo clima di libero commercio, vedranno aprirsi prospettive nuove sia
sui mercati interni che su quelli internazionali: potranno esportare i propri
prodotti, finalmente resi competitivi, e godere di quelle economie di scala
che danno la possibilità d’instaurare un circolo virtuoso fra investimenti,
produzione, commercializzazione, vendite e nuovi investimenti.
Questo circolo virtuoso trae fondamento da una componente
essenziale del ciclo economico: gli investimenti. Senza questo elemento
non ci potrà essere nessuna prospettiva di crescita per la regione
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mediterranea, data la limitatezza e la scarsa rilevanza che le borse e i
mercati finanziari rivestono.
L’area MED rimane strettamente dipendente dall’afflusso, e quindi
dall’impiego produttivo, del risparmio, sia nazionale che estero. In
particolare per questi paesi, endemicamente carenti di risparmio interno a
causa dei bassi livelli di reddito a delle alte propensioni al consumo, risulta
importantissimo l’afflusso di capitali stranieri sotto forma di investimenti
diretti, che rappresentano un vero e proprio polmone per la crescita
economica e il progresso industriale e tecnologico.
Gli investitori europei rischieranno i propri capitali nella zona
soltanto se le prospettive di profitto saranno soddisfacenti e sussisteranno
sufficienti margini di sicurezza; in altre parole occorre creare un terreno
fertile all’ingresso e al consolidamento degli IDE (Investimenti Diretti
Esteri).
Attualmente, nell’area mediterranea il volume degli IDE è ancora
modesto; le profonde divisioni politiche ed economiche, i già citati ostacoli
al commercio e le incertezze sulle regolamentazioni dei diritti di proprietà,
nonché sulle garanzie giuridiche e amministrative alle imprese straniere
concorrono a creare un contesto non particolarmente favorevole
all’attecchimento di un solido flusso di investimenti.
Se le riforme strutturali verranno implementate, e con loro anche una
cooperazione e armonizzazione intra-regionale sul piano giuridico e
finanziario, è probabile un cambiamento negli atteggiamenti degli operatori
stranieri.
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La diffusione della tecnologia è un ulteriore obiettivo che i paesi
MED tentano di raggiungere. Per la maggior parte di questi stati non c’è
stata una razionale programmazione della propria industrializzazione, come
per tutti i paesi poveri; quelle fabbriche e imprese che hanno adottato i
metodi moderni di produzione sono nate per iniziativa privata, per lo più
straniera, e si sono sviluppate a ‘macchia di leopardo’, senza un’adeguata
coordinazione per sfruttare al meglio le già scarse risorse locali.
Questa situazione ha comportato uno sviluppo a due velocità: mentre
le industrie che sfruttavano le dotazioni naturali di materie prime si sono
potenziate ed hanno iniziato a produrre per esportare, le innovazioni per il
mercato interno hanno languito poiché non hanno ricevuto particolari
incentivi dal lato della domanda. Conseguentemente la diffusione di
tecnologie avanzate è proceduta molto a rilento, e ancor più stagnante è
stata quella di ‘know-how’, ossia del conoscenze tecniche indispensabili
alla formazione di capitale umano qualificato.
A parte pochi prodotti, come il petrolio, le materie prime,
l’agricoltura e alcuni articoli manufatti ad alta intensità di lavoro
‘unskilled’, nessuna produzione mediterranea è competitiva con le grandi
imprese europee, le quali già da tempo hanno raggiunto elevati livelli di
produttività e godono di una grande esperienza nel commercio
internazionale. Oltretutto la maggior parte delle imprese più moderne nella
regione mediterranea sono il frutto di quei processi di delocalizzazione
produttiva attraverso i quali le grandi multinazionali, per economizzare
sulle retribuzioni della manodopera, decentrano alcune fasi della
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produzione, come l’assemblaggio o il confezionamento, in paesi dove è più
basso il costo del lavoro.
Questa realtà è immediatamente evidente se si analizza la struttura
del commercio con l’Unione Europea: oggi il commercio fra le due zone è
in massima parte di tipo ‘ad una via’ (one-way trade), ossia vengono
scambiati prodotti di tipo diverso, tipicamente materie prime contro
prodotti industriali; a questo tipo di commercio, fortemente ineguale e
penalizzante per i paesi scarsamente dotati, se ne contrappone uno di tipo ‘a
due vie’ (two-way trade), nel quale si scambiano prodotti simili ma
qualitativamente differenti.
I vantaggi nella transizione dall’uno all’altro modello stanno nel
carattere di sostanziale simmetria che caratterizza quest’ultimo: nel
momento in cui le produzioni mediterranee si presentano sul mercato non
più sotto forma di inputs a basso costo per il mercato europeo, ma
rappresentano un’alternativa ai beni finali prodotti sul continente, esse
possono competere testa a testa in quei settori in cui si possono realizzare
maggiori incrementi di produttività, poiché i prodotti contengono un
maggior valore aggiunto.
Restare ancorati alle tradizionali esportazioni di combustibili,
materie prime e prodotti agricoli significa invece restare dipendenti dalla
domanda estera, sopportare le fluttuazioni dei mercati e i peggioramenti
delle ragioni di scambio.
Sicuramente non è quest’ultimo l’obiettivo che i paesi MED si
ripropongono di raggiungere con gli accordi con l’Unione, tuttavia il
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passaggio verso il commercio a due vie è difficile ed incerto e richiede
tempo e passaggi graduali.
Una possibile soluzione potrebbe essere rappresentata dall’esempio
fornito dai ‘new comers’ orientali, per i quali la competizione con i giganti
economici giapponesi e cinesi risulta davvero difficile. L’unica via che
questi paesi hanno avuto per sviluppare le proprie economie è stata quella
di specializzarsi in produzioni intermedie ad alto contenuto tecnologico,
come i circuiti, i transistor ed altri prodotti dell’elettronica; questi ultimi
vengono poi venduti in Giappone, dove le componenti vengono assemblate
e sono realizzati i prodotti finiti, poi esportati in tutto il mondo.
Questo sistema potrebbe essere applicato anche all’economia
mediterranea, la quale potrebbe specializzarsi per produrre componenti di
prodotti europei; è chiaro che i paesi MED rimarrebbero comunque
dipendenti dalle imprese UE, ma la diffusione delle tecnologie e delle
conoscenze sarebbe di gran lunga più agevole e verrebbero compiuti i primi
passi sul cammino verso un aumento del ‘two-way trade’.
Certo il passaggio sarà lento e graduale; la strada che conduce allo
sviluppo è impervia e piena di ostacoli e difficoltà, tuttavia rimane
obbligata: non percorrerla significherebbe condannarsi all’isolamento e alla
povertà.
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� 1.1. IL COMMERCIO INTERNAZIONALE
La base economica del commercio internazionale sta nel fatto che i
paesi si differenziano nelle risorse di cui dispongono, nelle istituzioni
economiche e sociali e nelle capacità di crescita e di sviluppo. Alcuni sono
molto grandi e popolosi, ma scarsamente dotati di fattori produttivi; altri,
sebbene piccoli, hanno grandi risorse a loro disposizione; in ogni caso essi
si aprono al commercio internazionale per conseguire dei vantaggi
economici rispetto alla produzione e al consumo per il mercato interno.
In generale possiamo dire che i paesi oggi più industrializzati, che
per semplicità chiameremo Nord, sono quelli che hanno iniziato per primi
ad evolversi, socialmente ed economicamente; la rivoluzione industriale ha
permesso loro di compiere impressionanti balzi in avanti e le nuove
tecnologie gli hanno conferito grossi vantaggi nelle produzioni più
moderne e a più alto valore aggiunto.
I paesi in via di sviluppo, che chiameremo Sud, viceversa non sono
stati altrettanto pronti a cogliere le opportunità delle nuove scoperte; molti
di essi hanno dovuto subire il duro regime di dominazione e sfruttamento
imposto loro dalle grandi potenze coloniali europee; altri, come in Estremo
Oriente, hanno preferito chiudersi nei propri costumi e nei modi arcaici di
produzione; in un modo o nell’altro, il Sud è stato storicamente messo ai
margini del grande commercio mondiale e gran parte delle sue risorse sono
state utilizzate dai paesi più industrializzati.