2
l’Italia, la Germania e la Spagna hanno già ratificato il trattato in sede
parlamentare, altri, come la Francia, l’Olanda e la Gran Bretagna hanno deciso
di sottoporre la ratifica al vaglio referendario e, comunque, tutti e 25 i firmatari
si sono impegnati a compiere la ratifica entro Novembre 2006. La decisione
francese, voluta fortemente dal presidente Chirac, sia per interessi politici
immediati -le elezioni presidenziali del 2006- sia per una tradizione politica
nazionale consolidata - referendum popolari su questioni d’importanza rilevante
per il processo d’integrazione - nei quali sarebbe fuorviante addentrarsi in questa
sede, ha però dato un risultato opposto a quello sperato, e se c’è un fallimento
che esso sanziona, è il tentativo di conciliare in un unico assetto istituzionale due
visioni dell’Europa divergenti e contraddittorie. “ Da una parte c’è la visione
anglosassone di un Unione intesa come libero mercato e come sistema sub-
regionale dell’Occidente con l’obiettivo di sostenere la crescita di sistemi
politici democratici e di sistemi economici liberisti […], dall’altra c’è una
visione tipicamente francese dell’Europa come forte realtà geopolitica, con un
alto grado di coesione sociale ed identitaria […] e con l’ambizione di agire come
grande potenza sulla scena mondiale sottraendosi alla tutela americana”
2
. Un
rifiuto, questo, però, dalla precisa impronta popolare; l’affluenza alle urne ha
raggiunto infatti il 70%. Ma dopo lo stupore di fronte a questa sentenza di massa
si deve riflettere sul fatto che i francesi non hanno rinnegato l’Europa, ma
bocciato il trattato costituzionale che le avrebbe dato una dimensione politica
più precisa. “ Gli elettori di sinistra hanno giudicato la nuova costituzione troppo
liberista sul piano economico e troppo avara su quello sociale; quelli di destra al
contrario troppo invadente e irrispettosa nei confronti dello stato nazionale”
3
. La
crisi, però, covava da tempo nell’Unione; i francesi hanno solo fatto esplodere la
miccia. I motivi sono diffusi anche negli altri paesi europei, in particolare la
paura della globalizzazione e di conseguenza i limiti da porre all’abbattimento
delle frontiere; non è da escludere la paura della disoccupazione e,
2
A.Bonanni, art. cit.
3
B.Valli, Uno Smacco all’Europa che fa male all’Eliseo, “La Repubblica”, 30 Maggio 2005
3
conseguentemente, dell’arrivo della manodopera a basso costo dai nuovi paesi
membri, per la maggior parte dell’Est europeo, con la prospettiva futura di
veder inglobare la Turchia musulmana e l’Ucraina impoverita. Il modello fornito
dall’Europa sembra essere inadatto a mantenere un equilibrio tra liberalismo
economico e solidarietà sociale, le direttive sembrano prive di senso, perché
troppo anglosassoni, quindi troppo liberiste ed inique. Ma qui la demagogia
populista ha molto materiale a cui attingere. Dall’altra parte della Manica, il
ministro degli esteri britannico Jack Straw è convinto che il risultato francese
abbia sollevato seri problemi per il futuro governo dell’Europa, ed è difficile
immaginare come la costituzione possa sopravvivere al rifiuto di uno dei paesi
fondatori, anche se i maggiori leader politici invitano alla calma ed affermano
che il processo di ratifica andrà avanti. “I 448 articoli della costituzione sono
volti a rendere il blocco più democratico, più efficiente e più in grado di
affrontare la competizione globale. Deve essere ratificata da 25 membri ed il
rifiuto di un paese fondatore strategico è stato interpretato come il risuonare del
suo rintocco funebre”
4
. E’ anche vero che l’Unione continuerà ad essere
amministrata in base al trattato di Nizza del 2001, a tutt’oggi vigente per una
prospettiva a breve e medio termine, ma il vuoto di una carta costituzionale che
riassuma in un unico documento gli indirizzi e le direttive poste in essere dai
vari trattati fondamentali e che vada a sanare quel gap democratico di cui tanto
si continua a parlare, tornerà a farsi sentire sul lungo periodo. “ La Comunità
Europea e poi la sua erede, l’Unione, è sorta dalle ceneri di un continente
devastato dalla guerra. Ha cercato di rimediare agli errori per sempre, di fondere
gli interessi nazionali in un unico interesse, quello della pace e della prosperità
[…]. Ma smantellare il muro di Berlino, riunificare la Germania, portare la
Polonia e l’Ungheria nell’ambito di questa “unione sempre più stretta” cambia
tutto. La nuova UE è un poderoso diffusore di pratica democratica e di riforma
di mercato, ma la sua fiamma iniziale si è affievolita. Ora è qualcosa di diverso,
4
J.Henley da Parigi, P.Wintour e N.Watts da Bruxelles, France delivers its judgment, and Europe is plunged
into crisis, “The Guardian”, 30 Maggio 2005
4
non più lo stesso. […] Le ragioni per unirsi e partecipare sono viste da 25
prospettive diverse”
5
. Una vera e propria seconda rivoluzione francese, quindi, il
risultato di questo referendum; perciò “ invece di andare in cerca di scuse e capri
espiatori i politici dovrebbero prendere atto di ciò che è ovvio. Questo testo e
l’impresa che lo ha prodotto hanno fatto a meno troppo a lungo dell’entusiasmo
popolare che è necessario nelle democrazie”
6
. “L’unica conclusione che non può
essere tratta da questo voto è che la Francia si stia disimpegnando dall’Europa”
7
.
“ Ciò che ha dimostrato il dibattito in Francia è il grande desiderio da
parte degli elettori comuni di avere una vera voce in capitolo sul futuro dell’UE.
Non sono stati consultati per troppo a lungo”
8
. Dall’altra parte dell’Oceano si
guarda ugualmente con un misto di stupore e di attesa di ciò che seguirà al 29
Maggio, definito da “Le Figaro” come una svolta storica che avrà un effetto
funesto sull’influenza francese in Europa, una sorta di giorno zero in base al
quale classificare gli eventi “prima” e “dopo”, con il rischio che la storia
europea procederà senza la Francia. Effettivamente la Francia è il primo paese a
rifiutare la carta, ma ci si aspetta che altri “no” seguiranno a ruota. “ Seguendo il
no francese, una questione importante è se la Gran Bretagna andrà avanti con il
suo referendum programmato per l’anno prossimo o approfitterà della sconfitta
francese per ritirare la proposta. […] In una commovente conferenza stampa,
dopo la conferma del risultato francese, Jean-Claude Juncker, attuale presidente
dell’Unione, e Josè Manuel Barroso, presidente della Commissione Europea,
hanno letto una dichiarazione congiunta che difendeva l’integrazione europea”
9
.
Effettivamente il risultato congela gli sforzi fatti per conferire maggiore autorità
al governo centrale europeo di Bruxelles, come il potere di regolamentare la
politica estera così come il settore ittico, la politica abitativa ed una miriade di
altre questioni. Segna anche il capovolgimento dello storico sostegno per una
5
P.Preston, Now let’s pick up the pieces ,“The Guardian”, 30 Maggio 2005
6
K.Broomhall, ’The second French revolution’ What the British press had to say about the result of the French
EU referendum, “Guardian Unlimited”, editoriale “The Times”,30 Maggio 2005
7
Ibid., editoriale, “The Indipendent”, 30 Maggio 2005
8
Ibid., editoriale “Financial Times”, 30 Maggio 2005
9
K.Bennhold e G.Bowley, Repercussions across Europe after French reject EU charter, “The New York
Times”, 30 maggio 2005
5
maggiore unità con i propri vicini europei - le origini dell’unione risalgono
all’accordo tra Francia e Germania per unire le risorse industriali di carbone ed
acciaio nel 1951-. Le ansie per il futuro economico del paese hanno giocato un
ruolo chiave in questa campagna referendaria. “Per la prima volta, veramente, la
gente si è confrontata con la questione profonda sul futuro dell’Europa”
10
. E
l’America, spettatrice dell’intera vicenda che vede protagonisti i cugini europei,
non tarda ad emettere la sua sentenza, veritiera e cinica allo stesso tempo. “I
francesi sospettano delle idee “anglosassoni”, ma farebbero bene questa mattina
a considerare il caso della Gran Bretagna e dell’Europa. Gli inglesi si rifiutarono
di entrare a far parte della Comunità Economica Europea delle origini negli anni
’50 perché vedevano nell’ingresso in questa Europa allargata il simbolo del loro
fallimento e della loro debolezza. Ma ritornarono poi sui propri passi e chiesero
di entrare[…] nonostante la severa opposizione dei conservatori, perché
sapevano che abbracciare l’Europa era l’unico modo di andare avanti[…]. I
francesi fanno bene a preoccuparsi del futuro; con la loro attuale struttura
economica, non ce la faranno mai”
11
.
Tutto questo clamore sulla scena politica internazionale non può lasciarmi
indifferente perché, pur se ho deciso di cimentarmi nell’ardua impresa della
traduzione di un saggio di storia economica riguardante il processo di
integrazione europea, forse anche con un pizzico d’incoscienza ma anche di
risoluta determinazione, non posso ignorare il contenuto di ciò che vado
leggendo e studiando, cercando di conferirgli una forma propria in Italiano. Lo
scopo del lavoro del resto è ben lontano, nelle intenzioni, dall’essere un mero
esercizio accademico di buona traduzione e bella scrittura, senza nulla togliere
alle difficoltà del caso.
E’ singolare il modo in cui, a volte, il germe di un’idea si insinui
all’improvviso nella mente. Così è capitato nel mio caso, durante una delle
innumerevoli lezioni universitarie d’inizio semestre, in una giornata autunnale
10
C.Whitlock, France rejects European constitution, “The Washington Post”, 30 Maggio 2005
11
D.Ignatius, Chirac failure to lead, “The Washington Post”, 30 Maggio 2005
6
in cui miriadi di pensieri si affollano in testa nel tentativo di organizzarsi in
quella che diverrà la routine dei mesi successivi, tra lezioni che si
sovrappongono agli orari più impensati, libri da comprare, ricerche, spesso vane,
nella biblioteca di facoltà, esercitazioni al laboratorio linguistico, esoneri da
sostenere, tensione pre-esame in costante incremento, appunti da prendere e da
scambiare, voci di corridoio che seminano il panico per la sessione a venire,
studio individuale; il tutto tralasciando completamente la sfera personale.
Durante questa sindrome da stress, in cui molti colleghi sicuramente si
riconosceranno, è bastata una parola a dare vita ad una intuizione, a far
illuminare magicamente un percorso virtuale in cui ci si addentra come in una
proiezione. Così, seguendo una lezione di storia dell’Europa, ho avuto modo di
sentire il professore che citava, durante la spiegazione, il saggio di Milward
“The European Rescue of the Nation-State”, aggiungendo che non era mai stato
tradotto in italiano. In quel periodo seguivo contemporaneamente un seminario
di traduzione letteraria dall’inglese, ai fini della preparazione dell’esame scritto,
per gli studenti del vecchio ordinamento; anche se indirettamente, questa tesi
deve la sua esistenza anche a quel seminario. La combinazione di entrambe le
cose ha suscitato in me delle riflessioni. Ero una studentessa all’inizio del quarto
anno di corso dell’indirizzo delle professioni europee, con un piano di studi
ibrido , un anello evolutivo intermedio verso le attuali lauree specialistiche.
Quale poteva essere allora la conclusione migliore di un tale corso di studio se
non quella di applicare le competenze linguistiche acquisite alla comprensione
di una materia che si discostava dalle scienze umanistiche proprie, quale
l’argomento di questo saggio, ma che contemporaneamente permetteva una
comprensione più nitida della contemporaneità e forse anche dei reali sbocchi
lavorativi di una simile formazione? Questo è stato il mio pensiero, la mia
intenzione e questo il risultato di tale sforzo, più o meno riuscito, non sta a me
giudicare.
7
“The European Rescue of the Nation-State” è stato pubblicato per la
prima volta nel 1992. La sua genesi e formazione si collocano perciò nella
seconda metà degli anni ‘80, un periodo importante per la storia della Gran
Bretagna in relazione al processo d’integrazione europea. Sono anni in cui i
problemi economici hanno acquisito una rilevanza sempre maggiore per la
politica. La “rivoluzione tatcheriana”spiega molti processi storici; la guerra delle
Falkland e le campagne all’interno della CEE sono stati esempio di un elemento
nazionalista tradizionale. La sua politica è stata un chiaro tentativo di arrestare il
relativo declino economico causato dalla perdita dell’impero e dall’indebolirsi
del ruolo del Regno Unito su scala mondiale. I governi della Tatcher del periodo
1979-90 hanno rappresentato una combinazione tra ritorno al mercato e
continuità dello stato sociale. In politica estera la progressiva integrazione
europea ha fatto nascere dubbi ed incertezze, mentre in altri contesti è stata
perseguita una politica filo-americana; d’altro canto i governi Regan e Tatcher,
entrambi conservatori radicali, hanno fornito uno sfondo favorevole all’azione
congiunta. L’intera politica britannica nell’ambito europeo del periodo post-
bellico sembra rappresentare un classico esempio d’incapacità di percepire la
realtà e valutare interessi a lungo termine. Il fallimento dell’amministrazione
britannica è evidente nel rapporto fra Regno Unito ed Europa. Il relativo declino
economico del paese, le sue origini, devono tener conto di questa dimensione
fondamentale della politica nazionale, influenzata anche dal trattamento
preferenziale riservato ai paesi del Commonwealth. Indicativa di tale
atteggiamento è stata la campagna per la riforma dei contributi del Regno Unito
al bilancio della CEE , che ottenne come risultato una loro considerevole
diminuzione temporanea. La PAC è stata il bersaglio frequente e preferito delle
proteste britanniche, nonché la questione più generale della sovranità nazionale,
che hanno determinato notevoli inquietudini all’interno della destra. Da questo
contesto fortemente nazionalistico ed euroscettico nasce “The european rescue
of the Nation-State”, un importante studio dettagliato della storia delle origini
8
della Comunità europea. Supponendo che lo scopo delle politiche comunitarie
fosse non tanto quello di prendere il posto dello stato-nazione, quanto quello di
rinforzarne il ruolo, lo studio originale e controverso di Alan Milward fende le
ortodossie accettate su un argomento di grande importanza oggi; esplora le
relazioni future tra stato-nazione e Comunità sulla base della sua stessa storia.
Analizzando documenti provenienti dagli archivi di otto paesi europei diversi,
egli esamina i fattori che hanno portato alla costituzione della Comunità
Economica, le attività della Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio e gli
esordi della Politica Agricola Comune. Nell’ultima parte studia i motivi del
perché la Gran Bretagna sia rimasta fuori da questi accordi. Ovviamente la
traduzione si limita ai primi due capitoli del saggio, dato che l’intera opera
consta di più di seicento pagine. La combinazione di analisi politica ed
economica consente provocatorie ed illuminanti osservazioni sulle origini e sul
futuro della Comunità Europea. Il nucleo centrale dell’analisi rimane comunque
l’interpretazione che Milward dà dell’integrazione europea, ossia che essa non
sia la sostituzione dello stato-nazione divenuto incapace da parte di un’altra
forma di governo, bensì una creazione da parte degli stati-nazione europei per i
loro scopi precipui, un atto di volontà nazionale quindi. Il punto di vista di
Milward è supportato storicamente: le nazioni europee erano devastate
immediatamente dopo la guerra, e istituzioni quali la Comunità Economica
fecero molto per ripristinare la loro posizione. Tale argomentazione ha
espressione costituzionale nel Consiglio Europeo dei Ministri; organo creato
originariamente dai sei paesi membri, a tutt’oggi rappresenta la risorsa superiore
di autorità all’interno dell’Unione, agendo come rappresentativo dei governi.
Analizzare la situazione politico-economica del secondo dopoguerra europeo e
le sue linee di tendenza, che spingono tutte verso la creazione di strutture
sopranazionali e confrontarsi con l’innegabile processo che ha visto lo stato-
nazione non già indebolirsi ma rafforzarsi e consolidarsi negli anni ‘50, provoca
problemi interpretativi di non facile soluzione. La scuola federalista, con
9
capostipite Walter Lipgens, tende ad interpretare i riferimenti alla necessità di
un’unità europea, come passi in avanti verso la nascita di una coscienza europea
unitaria, che avrebbe fallito in definitiva a causa dei motivi strutturali da
ascriversi alla guerra fredda postbellica; la Comunità Europea fu quindi il
necessario passo in avanti verso lo svuotamento delle sovranità distinte verso
una maggiore integrazione già segnata da tempo. La risposta di Milward, in
chiara polemica con Lipgens, è una doccia fredda per gli amanti dell’idea della
Comunità europea come anticamera della scomparsa degli stati-nazione; per
preservare il consenso politico su cui si fondò la restaurazione postbellica, lo
stato fu costretto ad uscire dalle proprie frontiere e a creare le istituzioni europee
comunitarie per sostenere le sue ambizioni interne. La Comunità è dunque il
frutto non dell’indebolimento, ma del rafforzamento dello stato-nazione. Forse
se si ammette la coesistenza di motivi ideali accanto a quelli economici
predominanti all’indomani del conflitto, entrambe le posizioni hanno una loro
ragion d’essere. L’aporia individuata da Milward identifica il paradosso della
politica del XX secolo. Il pensiero federalista europeo volle dare una risposta a
tale aporia ponendosi al di fuori del sistema degli stati-nazione, negandone
l’unicità e la necessità; osservando tale sistema dall’esterno ne individuò il
punto debole fondamentale e stabilì l’unico correttivo possibile: superare la
sovranità dello stato nei rapporti internazionali. Milward, al contrario, sostiene
che le istituzioni comunitarie nacquero e si affermarono grazie alle esigenze
degli apparati statali, delle forze economiche nazionali, con motivazioni in gran
parte legate alla ricerca del consenso interno. Che le comunità europee nascano
su basi nazionali è una cosa che nessun simpatizzante dell’idea federalista può
oggi negare. Lo stato-nazione divenne più potente dopo il 1945 in Europa
occidentale di quanto lo fosse stato mai in precedenza. Per questo appare
contraddittorio che alcuni teorici abbiano predetto la sua sostituzione, proprio
nel momento in cui gli stati europei si stavano impegnando in programmi
d’intervento senza precedenti nella vita economica e sociale, con lo scopo
10
preciso di formare e controllare il proprio destino. Essi uscivano dall’esperienza
del 1929-45 indeboliti a tal punto da dover ricostruire se stessi come unità
organizzative nell’immediato dopoguerra. La Grande Depressione aveva
disintegrato il fragile consenso politico, soprattutto con la caduta dei redditi
agricoli; l’invasione, la sconfitta e l’occupazione non lasciarono ai governi
alcuno spazio di manovra. Per riconquistare la propria legittimità e ristabilire lo
stato-nazione come unità politica fondamentale, essi dovettero intraprendere
delle politiche le cui conseguenze andarono a riflettersi sui rapporti
internazionali, prima fra tutte protezionismo agricolo e modernizzazione
industriale, in contemporanea ad assistenzialismo e politiche d’occupazione.
Tutto ciò implicò maggiore interdipendenza tra gli stati e a volte qualcosa di più:
integrazione. La chiave di volta verso un nuovo consenso politico risiedeva nella
crescita economica; per questo si giunse alla ricerca di politiche commerciali
neomercantiliste che potessero unire una rapida espansione commerciale a
forme di protezionismo più selettive ed adattabili. La scelta del superamento
dell’interdipendenza a favore dell’integrazione, con una conseguente cessione di
una parte di sovranità nazionale, è il prezzo che gli stati hanno dovuto pagare
per avere la certezza dell’irreversibilità di accordi commerciali fondamentali sul
lungo periodo ed una notevole espansione del commercio, oltre che la presenza
di un sistema legislativo centrale a garanzia di un equilibrio di potere che
tendesse sempre a tutelare primariamente gli interessi dei singoli governi
nazionali che a tale sistema avevano per l’appunto ceduto parte della propria
sovranità.
L’importanza di questo saggio risiede infatti anche nella sfida ad
invalidare l’assunto conclamato che esista un’antitesi tra la Comunità Europea e
lo stato-nazione; la stessa Comunità è in parte responsabile di questa errata
convinzione, in quanto essa si è da subito presentata come il simbolo di una
nuova Europa in cui la forma anacronistica del governo nazionale sarebbe stata
sostituita dalla forma sopranazionale più appropriata. Dopo il 1945 lo stato-
11
nazione europeo si salvò dal collasso, creò un nuovo consenso politico come
base della propria legittimità attraverso cambiamenti sostanziali per rispondere
alle esigenze dei cittadini: ciò significò un’estensione ampia delle sue funzioni,
la riaffermazione di se stesso quale unità fondamentale di organizzazione
politica. La Comunità Europea evolse solo come un aspetto di quella
riaffermazione nazionale, che senza di essa sarebbe stata impossibile. Fattore
chiave di questa ricostruzione fu ciò che viene spesso chiamata “democrazia
sociale Keynesiana”, ossia l’intervento statale nell’economia per assicurare la
piena occupazione ed aumentare la competitività -un’estensione massiccia di
ciò che oggi è il welfare- e misure studiate per sostenere l’agricoltura e quindi
ridurre il pericoloso gap politico tra redditi agricoli ed urbani. Queste politiche
contribuirono, e furono certamente favorite dal boom economico che investì
l’Europa occidentale a partire dalla fine degli anni ‘40. In particolare la
Germania Ovest si configurò come il perno del commercio europeo occidentale;
non solo le esportazioni di beni manufatti verso i cinque paesi che insieme ad
essa avrebbero costituito il nucleo originario della CEE aumentarono
vertiginosamente, ma essa costituì al tempo stesso un mercato crescente per le
loro esportazioni di beni manufatti, proprio nel periodo in cui la domanda
americana era in calo. Questo sviluppo rese la Repubblica Federale
indispensabile per il salvataggio europeo dello stato-nazione; il commercio tra i
sei crebbe molto più velocemente rispetto a quello estero di qualsiasi altra parte
d’Europa: la Gran Bretagna in particolare si ritrovò sempre più emarginata. “Il
concetto generale di Keynesianesimo, che è in gran parte un termine
inappropriato, influenzò la politica fiscale e monetaria di alcuni governi […].
Mentre questo poteva essere stato un piccolo contributo alla stabilità
dell’economia internazionale, che era l’obiettivo proprio di Keynes, la lunga
durata del Grande Boom europeo può essere spiegata solamente con l’assenza di
shock esterni abbastanza forti da alterare le politiche interne. Ciò può essere in
parte attribuito al modello di flussi di merce conseguente alla creazione della
12
Repubblica Federale tedesca. Se Keynes, protezionista e nazionalista, avesse
fatto di testa propria, la causa più evidente della stabilità dell’economia
internazionale postbellica, non sarebbe esistita e probabilmente non ci sarebbe
stato nessun Grande Boom europeo”
12
. La popolarità delle idee di Keynes si
spiega con il fatto che esse si prestarono bene a sostenere la rinascita dello stato-
nazione, perché la sua organizzazione amministrativa era stata posta al centro
del recupero del capitalismo liberista. L’esperienza della CECA dimostrò come
“l’europeizzazione” di certi problemi potesse rendere la vita dei singoli governi
nazionali molto più facile, mettendo in comune risorse e distribuendo
responsabilità. Lo sviluppo della PAC negli anni ‘60 seguì un modello simile:
“l’europeizzazione” permise ai politici nazionali di sostenere i redditi agricoli
dai cui voti essi dipendevano ancora. La democrazia trovò il proprio equilibrio
politico su tre pilastri: i lavoratori organizzati in sindacati, gli agricoltori e la
piccola borghesia, principale beneficiaria dello stato assistenziale. La presa che
il richiamo al benessere ebbe sugli elettori europei derivava dai trent’anni
d’insicurezza nella quale erano vissuti, e tutti i partiti si sottomisero a questo
implicito dettato. Una sorta di richiamo alle origini, di adempimento al dovere
primario e primigenio per cui lo stato aveva visto la luce: la protezione dei
cittadini, non solo dall’invasore ma anche e soprattutto dall’insicurezza
individuale, economica e sociale. La ricerca di legittimazione divenne ricerca di
consenso, perciò le riforme e le realizzazioni dello stato sociale divennero uno
strumento politico potente nelle mani dei politici, soprattutto in periodi di
campagna elettorale. Il risultato delle concessioni fatte a determinati gruppi
sociali per la ricostruzione del consenso portarono ad una forte crescita della
spesa pubblica in tutto il sistema economico. A partire dalla metà degli anni ‘50
in Europa occidentale si sviluppò un sistema politico ad alto tasso
d’investimento, con aumenti costanti della domanda e consumi sostenuti tramite
redistribuzioni di reddito; dal dopoguerra emerge così un insieme di paesi affini,
12
Alan S.Milward, Keynes, Keynesianism, and the International Economy, Keynes Lecture in Economics,
British Academy, Proceedings of the British Academy, PBA 105, Vol. 117.,1999.
13
soprattutto dal punto di vista della politica economica. Milward enfatizza la
dimensione economica dell’integrazione europea, tendendo a minimizzare altri
fattori politici cruciali coinvolti nel processo, tra i quali due risaltano per
importanza. Per primo la relazione critica che ha tenuto insieme le istituzioni
europee a partire dai Trattati di Roma, ossia quella tra Francia e Germania
Ovest; la classe politica francese ha sempre cercato di contenere la potenza della
Germania all’interno di una stretta alleanza, e l’integrazione dell’Europa
occidentale doveva essere la base della sicurezza della Repubblica Federale, e
questa era, in definitiva, l’unica condizione possibile per una futura
riunificazione della Germania. In secondo luogo l’istituzione della CEE
rappresentò il culmine degli sforzi consistenti fatti dagli USA per sostenere
l’integrazione europea; all’epoca del Piano Marshall per la ricostruzione europea
nel 1947-48, l’amministrazione americana avanzò l’idea di un’unione doganale
dell’Europa.
L’interpretazione di Milward rimane comunque un’interpretazione di
rottura, vicina alle posizioni neoliberali. Il titolo stesso del saggio è
provocatorio, per Milward sono i capi di stato a costruire l’Europa. Nell’ambito
delle relazioni internazionali, l’integrazione europea è vista dall’autore come il
fattore cruciale di ridefinizione degli stati-nazione dell’Europa occidentale usciti
indeboliti dalla seconda Guerra Mondiale; tale processo sarebbe stato usato
consapevolmente dai partiti politici al potere come strumento di “nation-
building”, secondo una strategia di stabilizzazione politica e modernizzazione
economica a livello nazionale ed internazionale. A differenza di altre teorie
interpretative dell’integrazione europea, il neoliberalismo tiene maggiormente in
considerazione gli aspetti di “bassa politica” quali le politiche economiche e
sociali. Il nodo centrale di questa interpretazione risiede nella questione della
sovranità degli stati, in quanto non è dato per scontato il suo abbandono a favore
di una dimensione sopranazionale. Il processo d’integrazione è determinato da
cause esterne all’integrazione stessa, per questo ogni ulteriore passo in avanti
14
richiede una particolare congiuntura favorevole di interessi; non si tratta perciò
di un processo progressivo che conduca ad un risultato scontato, nel caso
specifico ad una dimensione di sovranità sopranazionale; gli esiti possono essere
molteplici, da una regressione verso una completa autonomia nazionale alla
cessione totale della propria indipendenza politica, o ancora a soluzioni
intermedie. Nella dimensione intergovernativa neoliberale il ruolo dei governi è
duplice: da un lato sono rappresentativi di una società ed agiscono in sua vece;
dall’altro godono di un’autonomia decisionale che li rende protagonisti, negli
accordi che portano all’integrazione, della tutela dei propri interessi oltre a quelli
delle società che rappresentano, per questo non saranno mai favorevoli ad una
cessione irreversibile di sovranità a meno che una maggiore integrazione non
significhi un rafforzamento del proprio ruolo nella politica interna del proprio
paese. “Come ha suggerito il lavoro storico di Milward, l’integrazione non
sarebbe necessariamente l’antitesi di una politica nazionale, ma potrebbe anche
essere a volte lo strumento – proprio da parte di Stati nazionali – per rafforzare
la propria capacità politica”
13
. In quest’ottica sarebbe più che chiara l’attuale
configurazione istituzionale unitaria, che conferisce massimo potere legislativo
al Consiglio, organo di rappresentanza dei governi nazionali, a scapito del
Parlamento. Avendo voce in capitolo a livello comunitario e a livello nazionale,
i governi tenderebbero in questo modo a massimizzare il proprio potere
contrattuale ottenendo come sottoprodotto il già citato deficit democratico.
Nessuna necessità di istituzionalizzazione politica dunque, dato che una
Costituzione influenzerebbe solo marginalmente i processi economici. Ancora
una volta in contrasto con le idee federaliste secondo le quali la Costituzione
sarebbe un passo necessario per il processo d’integrazione, in vista di una vera e
propria Unione federale, nell’ottica neoliberista rappresenterebbe invece una
misura non indispensabile, anzi addirittura rigida e forse anche
13
F.Andreatta, E pluribus plura? Integrazione senza costituzione, in Costituzionalizzare l’Europa Ieri ed Oggi, a
cura di U.De Siervo, G.Bonacchi, S.Guerrieri, A.Manzella, F.Sdogati, A.M.Petroni, A.Q.Curzio, V.E.Parsi, il
Mulino, (Bologna, 2001), p. 135-136.
15
controproducente, spostando la focalizzazione dai processi politici agli assetti
giuridico-istituzionali.
Alcune recensioni su accreditate riviste specializzate sottolineano alcuni
aspetti singolari di questo saggio:
“ C’è una certa ironia nel fatto che il paese che ha contribuito meno
all’integrazione europea abbia dato i natali allo storico che l’ha illuminata
maggiormente. Nessun altro studioso all’interno dell’Unione ha saputo unire
l’abilità archivistica e la passione intellettuale che Milward ha portato nel
problema delle sue origini”
14
.
“ La grandezza di ciò che ha portato a termine non può essere contestata.
Milward ha prodotto una valutazione critica estremamente intelligente che
esamina ed analizza l’affermazione europea dello stato-nazione quale unità
organizzativa fondamentale della società degli anni ‘50[…], nessun altro libro
ci ha dato un resoconto così definitivo o un’interpretazione così convincente
come ha fatto il prodigioso risultato di Milward nell’ambito della conoscenza
storica”
15
.
“ Ben scritto, anche se provocatorio”
16
.
“ Come studio coinvolgente sulle origini della dimensione sopranazionale
europea nella sfera economica, sarà difficilmente fatto di meglio.”
17
Degli accenni alla lunga e fruttifera formazione e carriera accademica
dell’autore di questo saggio sembrano a questo punto dovuti: Alan Steel
Milward, nasce nel 1935 in Inghilterra; diplomato a Stoke-on-Trent, consegue
un diploma artistico presso il London University College nel 1956; nel 1960
intraprende un dottorato di ricerca alla London School of Economics; nel 1976
si qualifica come Maestro d’Arte alla University of Manchester. Nel frattempo è
Lecturer of Economic History alla University of Edinburgh, Scozia, (1960-65);
14
www.amazon.co.uk, The European Rescue of the Nation-State, reviews of the 1
st
edition, P.Anderson, London
Review of Books
15
Ibid., American Historical Review
16
Ibid., New Statements&Society
17
Ibid., Germanpolitics
16
Senior Lecturer of Social Studies alla University of East Anglia, Norwich,
Inghilterra, (1965-68); Visitor Professor of Economics alla Stanford University,
(1966-67) e Associated Professor (1969-71); Visitor Professor of Economics
alla University of Illinois, Urbana, (1978-79); Guest Professor allo
Sozialwissenschaften Institut von Universität Siegen, Repubblica Federale
Tedesca (1980); Professor of European Studies alla University of Manchester,
Institute of Science and Technology, Inghilterra (1971-83); Professor of
Contemporary History allo European University Institute, Firenze, Italia, (1983-
86); Professor of Economic History alla London School of Economics and
Political Science (1986-96); External Professor allo European University
Institute, Firenze (1996- ); Directeur d’etudes all’ Ecole de Haute Etudes en
Science Sociales; Contributor of articles to professional journals; Member
Archives, Advisory Committee, European Community; British Academy Fellow
(1987); Member University Association Contemporary European Studies
(President, 1980-83); Economic History Association, German History Society,
Association Professors of History, Contemporary Aspiér Communanté
Européenne.
Di seguito l’elenco delle principali opere e pubblicazioni:
German Economy at War, (1965), Prometheus Books
The New Order and the French Economy, (1970), Claredon Press
The Fascist Economy in Norway, (1972), Oxford University Press
The Economic Development of Continental Europe, 1780-1870, (1973),
Rowman&Littlefield
Development of the Economies of Continental Europe, 1850-1914,
(1977), con S.B. Saul, Harvard University Press
Der zweite Weltkrieg: Krieg, Wirtschaft und Gesellshaft, 1939-45
(Geschichte der Weltwirtschaft im 20. Jahrundert; BD.5), (1977),
Deutscher Taschenbuch-Verlag
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Economic Development of Continental Europe, 1780-1870, con S. B.
Saul, (1979), Unwinhyman, 2ª edizione
The Economic Effects of the Second World War on Britain (studies in
economic and social history), (1984), Macmillan, 2ª edizione
The Reconstruction of Western Europe, 1945-51, (1987), University of
California Press
The Frontiers of National Sovereignty: History & Theory, 1945-92,
(1994), Routledge London
Britain’s Place in the World: a Historical Enquiry into Import Contras,
1945-60, (1996), Routledge London
The Rise and Fall of a National Strategy, 1945-63 (the UK & the EC, vol.
I), (2002), Frank Cass Publishers
Trade, Politics & the European Union (the Graz-Shumpeter Lectures)
(2004), Routledge London
In traduzione italiana si vedano:
L’economia di guerra della Germania, (1978), F. Angeli
Guerra, economia e società, (2000), Etas
L’Europa in formazione, in Storia d’Europa, vol. 1, L’Europa Oggi, a
cura di P.Anderson, M.Aymard, P.Bairoch, W.Barberis, C.Ginzburg,
Einaudi, (Torino, 1993).
Tra i Principi Fondamentali della Costituzione Italiana, l’articolo 11
recita: “L’Italia […] consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle
limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la
giustizia tra le Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni
internazionali rivolte a tale scopo.” Sulla base della consapevolezza che
questo principio ci conferisce, tutti dovremmo sviluppare una coscienza
politica e sociale che ci permetta di vivere la complessità della
contemporaneità nel pieno esercizio dei nostri diritti-doveri di cittadini, non
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solo nazionali, ma anche e soprattutto europei. Personalmente ritengo che per
fare questo nel miglior modo sia necessario e doveroso gettare uno sguardo al
passato, per conoscere e capire le dinamiche che hanno condotto alle attuali
configurazioni istituzionali sopranazionali che forse mai come oggi
influiscono non solo sulle dinamiche sociali, economiche e politiche degli
stati, ma anche sulla vita individuale di ciascuno di noi. Ciò che siamo e ciò
che viviamo oggi è il prodotto dell’evoluzione storica, così come si è venuta
a determinare dall’incontro-scontro di fattori specifici in determinate
congiunture spaziali e temporali; ignorare tutto questo sarebbe come vivere la
propria esistenza con una benda sugli occhi. In questo mondo sempre più
interdipendente, multietnico ed informatizzato, in cui spesso non è facile
riuscire a formarsi un’opinione personale, che possa guidarci nella nostra
morale civile, e dove eventi di qualsiasi sorta innescano delle reazioni a
catena che vanno a ripercuotersi sugli equilibri più impensati, credo sia
giusto fermarsi e cercare di comprendere la contemporaneità anche attraverso
lo studio della storia, uno sguardo retrospettivo per far luce sul presente. Per
questo ho deciso di dare il mio se pur minimo contributo alla causa,
traducendo, da totale profana, una parte significativa di questo saggio,
sperando che il mio lavoro possa essere utile, se non altro a me stessa. Lascio
perciò la parola e soprattutto l’autorevolezza, a Milward, alla sua
“interpretazione suggestiva, anche se non del tutto convincente, dei moventi
dell’integrazione, nel quadro di un’analisi approfondita delle fasi iniziali del
processo”
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L.Rapone, Storia dell’integrazione Europea, p. 126, Carocci (Roma,2002)