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1.2.2 Paura del crimine e “preoccupazione” per il crimine
In un’ampia rassegna sulla letteratura relativa alla paura del crimine, Ferraro
e LaGrange (1987) riconobbero il grande problema nel concettualizzare e misurare
la paura del crimine, così come il problema del confondere questo costrutto con il
rischio o la preoccupazione per il crimine. Per gli autori non è da trascurare il fatto
che la sostituzione delle misure relative alla paura del crimine con quelle del rischio
percepito o della preoccupazione per il crimine minimizza l’utilità di molti risultati
empirici.
All’interno della letteratura scientifica internazionale, soprattutto negli ultimi
trent’anni, si è verificato pieno consenso da parte dei ricercatori nel definire due
dimensioni principali del senso di insicurezza: il fear of crime, cioè la paura
personale della criminalità, ed il concern about crime, ovvero la preoccupazione
sociale per la criminalità. Per Furstenberg (1971), il fear of crime è rappresentato
dalla sensazione di ansia per l’insicurezza personale nel momento del pericolo
concreto o potenziale, mentre il concern about crime è legato ad una inquietudine
sociale verso il problema della criminalità.
Il concern about crime ha, in genere, a che fare con il grado di partecipazione
politica, con l’adesione ad una data visione del mondo e con i valori da perseguire.
E’ quindi legato al bagaglio culturale ed al sistema dei valori sociali e politici nei
quali l’individuo confida. Esso non riguarda la paura personale di essere vittima di
un crimine, bensì concerne la paura generale del cambiamento sociale correlato
all’ansia derivante dall’espansione degli atti criminali nella società e quindi, in
ultima analisi, interessa la sicurezza della comunità di appartenenza.
Il fear of crime attiene invece all’ambito della vittimizzazione ed è legato al
timore di subire il crimine e le sue conseguenze, oltre che alla risposta fisica ed
emotiva verso una minaccia reale o potenziale, dalla quale viene ricavata una
rappresentazione mentale anticipata di una probabile situazione rischiosa.
Amerio e Roccato (2005) ricordano che fear of crime e concern about crime
sono stati studiati e messi in relazione in diverse forme. In ogni caso, l’accertamento
del primo ha sempre riguardato la vita dell’intervistato (la casa, il quartiere, la
propria città ecc.), ma non la nazione nella sua interezza. Il secondo, invece, è stato
indagato interrogando l’intervistato sul problema della criminalità nel Paese o sul suo
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aumento. Il modello comunemente utilizzato nello studio del fenomeno (“modello
tradizionale”) include l’uso di variabili socio-anagrafiche e di vittimizzazione (diretta
ed indiretta) dove il fear of crime risulta più alto nel genere femminile, nei giovani,
nei soggetti a basso stato sociale, nei poveri, in quelli che hanno ricevuto una scarsa
educazione ed in quelli che vivono nelle aree urbane.
Sono stati elaborati diversi modelli, alternativi a quello “tradizionale”, che
hanno riguardato soprattutto i fattori psicosociali. Van der Wurff et al., nel 1989,
hanno sviluppato un modello che identifica quattro variabili psicosociali in grado di
condizionare il fear of crime: attractivity (ovvero la percezione di appartenere ad un
target a rischio di divenire vittima di atti criminali), evil intent (il livello di
associazione dell’intento criminale a particolari individui o gruppi), power
(percezione di poter controllare una possibile minaccia di crimine) e criminalizable
space (la percezione che una data situazione possa condurre ad una vittimizzazione)
(Amerio e Roccato, 2005).
Lo studio condotto da Amerio e Roccato nel 2007: “Psychological reactions
to crime in Italy: 2002-2004”, volto ad analizzare il fear of crime ed il concern about
crime tra gli italiani, dimostra che il primo è meno diffuso in Italia rispetto al
secondo e risulta essere influenzato dalle variabili socio-anagrafiche, soprattutto
legate alla vittimizzazione. Invece, il concern about crime è condizionato
maggiormente da quelle psicosociali e dai mass media. Sono infatti proprio i mass
media una delle variabili che maggiormente influiscono sulla preoccupazione
collettiva. I mezzi di comunicazione dedicano una quantità di spazio spropositata alla
diffusione di notizie di cronaca nera, descrivendo i fatti con toni molto più
drammatici e allarmanti di quanto in realtà essi siano. I disordini razziali, gli omicidi
efferati, soprattutto a danno dei bambini, i serial killer, sono entrati nelle case
attraverso la televisione e i giornali e hanno contribuito a terrorizzare un pubblico già
in trepidazione per una vita quotidiana sempre più incerta.
Farral e Ditton (2000) rilevano l’importanza di prendere in considerazione
anche le variabili psicosociali, unitamente a quelle socio anagrafiche, nella
spiegazione delle variazioni del fear of crime, a differenza della maggior parte delle
teorie e delle ricerche che pongono l’accento solo sulle variabili sociologiche e
socio-anagrafiche. Infatti, molti studi posti in rassegna da Cates et al. (2003), si sono
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soffermati sull’analisi del genere, delineando quello femminile come espressione dei
livelli più elevati di fear of crime, nonostante la minore vittimizzazione subita
rispetto agli uomini (cit. in Polano, Cervai, Borelli, 2007).
A questo proposito, alcuni studiosi (Oatley, 1992) sostengono che la paura
per la criminalità sia un sentimento irrazionale e ciò si verifichi secondo due
modalità: si parla di irrazionalità rispetto alle cause quando la paura è eccessiva
rispetto al rischio effettivo di subire un crimine, e di irrazionalità rispetto agli effetti
quando la paura tende ad ostacolare e ad influire negativamente sul comportamento
delle persone. Per quanto riguarda il primo tipo, durante gli anni ’80 sono state
condotte diverse ricerche in Gran Bretagna e Stati Uniti che hanno sottolineato come
la paura fosse maggiormente diffusa tra donne e anziani, cioè tra i gruppi sociali che
in realtà correvano meno rischi, in quanto mostravano un più basso tasso di
vittimizzazione. I ricercatori (Stafford, Galle, 1984; Maxfield, 1984; Roché, 1993)
spiegavano questo risultato, che appariva paradossale, sostenendo che la paura fosse
alimentata dalle informazioni sbagliate diffuse dai mass media circa i rischi concreti
di subire un reato (Strano, 2003).
La tradizione di studi individua alcuni fattori importanti nel determinare la
paura del crimine (Miceli et al., 2004):
il livello di diffusione dei reati (in particolare micro-criminalità),
nonostante le ricerche dimostrino che la paura del crimine sia più
diffusa dei crimini stessi (Moser, 1999).
Le inciviltà fisiche e sociali (Palmonari, 1999). Le inciviltà
accrescono la paura perché riflettono il degrado sociale e le persone le
associano alle attività criminali (Hunter, 1978; LaGrange et al., 1992).
Il vivere in aree urbane (Moser, 1992). Una bassa integrazione sociale,
l’alta densità umana e residenziale; l’eterogeneità di etnie, età e
reddito; le dimensioni degli edifici e la mancanza di servizi e spazi
verdi, sono caratteristiche delle grandi città che possono aumentare la
paura del crimine (Skogan & Maxfield, 1981).
Le variabili socio-demografiche. La paura del crimine è maggiore tra
le donne (Kruger et al., 2007; Villano & Mancini, 1999), soprattutto
per quanto riguarda le violenze sessuali. In riferimento all’età i
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risultati non sono concordi: in alcuni studi la relazione tra le due
variabili sembra essere debole (Miceli et al., 2004), mentre in altri il
livello della paura del crimine risulta più alto tra gli anziani (Pantazis,
2000).
Lo status sociale. Il livello di paura risulta maggiore tra i non-bianchi
(Liska et al., 1988), tra le classi economiche più svantaggiate
(Lavrakas, 1982) e tra coloro che hanno un minor grado di educazione
(Kennedy & Silverman, 1985). Inoltre la paura del crimine può essere
connessa ad un sentimento soggettivo di vulnerabilità più marcato e
ad una mancanza oggettiva di risorse per affrontare i crimini.
La vittimizzazione diretta. È collegata alla paura anche se tramite una
debole relazione. Questa diventa più forte se sono controllate altre
variabili, quali il genere, l’età e il reddito (Skogan & Maxfield, 1981).
Ma il costrutto di “Fear of crime” ha sempre avuto, ed ha tutt’ora, problemi di
misurazione. Ferraro e LaGrange (1987) credono che molti ricercatori abbiano fallito
nella distinzione tra paura del crimine e rischio di vittimizzazione, in quanto spesso
vengono poste domande sulla preoccupazione per il crimine piuttosto che sulla paura
di diventare vittime del crimine. Per esempio la domanda: “Si sente sicuro ad uscire
da solo/a la notte nel proprio quartiere?” non è una misurazione diretta della paura
del crimine, ma riflette una più generale preoccupazione per la sicurezza. L’altro
problema riguarda la specificità della misurazione del costrutto. Alcuni studi lo
misurano tramite un’unica ampia domanda, come per esempio: “Quanta paura ha di
divenire vittima di un reato serio?”, e gli autori sostengono che essa manchi di
specificità e che conduca ad un errore in quanto non si può determinare quali siano i
reati di cui il rispondente ha paura.
1.2.2.1 Paura del crimine e vulnerabilità
Il modello su cui si basavano le prime ricerche relative alla paura del crimine
riteneva che la paura fosse direttamente collegata al fatto di essere stati vittime del
crimine. Sebbene Skogan e Maxfield (1981) sostenessero l’esistenza di questa
relazione tra vittimizzazione e paura, per altri ricercatori (Gates e Rohe, 1987; Liska,
Sanchirico e Reed, 1988) sembrerebbe inesistente o minimo questo legame. Il primo
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modello venne criticato in quanto emerse che: le persone con più probabilità di
divenire vittime del crimine (giovani uomini) sono quelle che riportano più bassi
livelli di paura del crimine, mentre quelle che hanno meno probabilità di
vittimizzazione (donne anziane) riportano punteggi relativamente elevati (Garofalo e
Laub, 1978). Questi risultati portarono allo sviluppo di un modello di vittimizzazione
indiretta, basato sull’idea che coloro i quali percepiscono se stessi vulnerabili al
crimine hanno maggiore paura, e questo spiegherebbe i livelli elevati di paura nelle
donne, in quanto percepiscono una vulnerabilità fisica maggiore nei confronti del
probabile aggressore.
La nozione di vulnerabilità dunque, è stata introdotta per spiegare la
differenze relative ai livelli di paura del crimine esperiti dai diversi gruppi sociali.
I criminologi, e gli studiosi in genere, sono concordi nel suddividere la
vulnerabilità in due componenti: quella fisica, che comprende la percezione della
potenziale vittima di essere incapace a contrastare un crimine, e quella sociale, che si
riferisce alla misura in cui la potenziale vittima è esposta al rischio (Skogan e
Maxfiel, 1981; Baumer, 1985; cit in Halpern, 1995).
Di tutti i fattori di vulnerabilità il genere risulta essere quello maggiormente
dimostrato. Numerosi studi (Clemente e Kleiman, 1977; Box et al., 1988; LaGrange
e Ferraro, 1989) hanno dimostrato che le donne riportano maggiori livelli di paura
rispetto agli uomini, e chiaramente la paura per le violenze sessuali acquista un peso
non indifferente su questo risultato, che i ricercatori sostengono sia dovuto, in parte,
alla riluttanza che gli uomini hanno nel dichiarare la propria paura. In realtà questa
motivazione trova scarse conferme, in quanto sia tramite l’osservazione diretta dei
comportamenti degli uomini, che rinunciano in misura minore allo svolgimento delle
proprie attività per paura, sia tramite la somministrazione di domande più
approfondite, la differenza tra i generi permane. E questo si riflette sulle mappe
cognitive che i due generi utilizzano per la paura: le donne hanno paura delle aree
che ritengono pericolose, mentre gli uomini hanno paura di quelle che non
conoscono (cit. in Halpern, 1995).
L’età è un altro fattore di rischio molto studiato, anche se studi recenti
sostengono che l’importanza di questo fattore sia stata sovrastimata nei lavori
iniziali. Gli anziani, soprattutto gli over 60, hanno più paura rispetto ai giovani,
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anche quando gli altri fattori sono mantenuti costanti. Questo effetto mostra una forte
interazione negativa con il genere, infatti invecchiando, la differenza tra uomo e
donna tende a scomparire. Questo significa che, con l’aumentare dell’età gli uomini
si sentono più vulnerabili nonostante il rischio oggettivo di vittimizzazione sia
minore (Halpern, 1995).
Tuttavia gli elevati livelli di paura degli anziani dipendono dal contesto,
infatti, nonostante essi dichiarino, rispetto ai giovani, di sentirsi meno sicuri
camminando per strada di notte, non riportano livelli più elevati di paura in altre
situazioni, quali, per esempio, lo stare da soli in casa la notte. Le differenze dovute
all’età quindi diminuiscono nel momento in cui si formulano delle domande più
specifiche (LaGrange e Ferraro, 1989; cit. in Carrer, 1998). Nonostante sia stato
dimostrato che gli anziani sono effettivamente i meno esposti al rischio di
vittimizzazione, è stato evidenziato come le loro peculiarità li rendano le vittime più
sensibili ai reati, in quanto incapaci di sfuggire ad attacchi di carattere fisico e più
deboli sotto numerosi aspetti, sia affettivi che economici. Ed è ovvio che uno dei
principali fattori che spiegano le basse percentuali di vittimizzazione è costituito dal
fatto che esse si espongono meno a situazioni a rischio elevato, quali per esempio
l’uscire di casa la notte (Carrer, 1998).
Sia il genere che l’età sembrano avere interazioni con i fattori di vulnerabilità
sociale e di rischio: in aree ad alto rischio, l’influenza delle due variabili è molto
attenuata se tutti i gruppi mostrano alti livelli di paura (Maxfield, 1984; Baumer,
1985; cit. in Halpern, 1995); questo avviene in particolar modo per il genere in
quanto emerge la differenza dovuta ai crimini sessuali, più frequenti in aree ad alto
rischio (Halpern, 1995). Il più importante fattore di vulnerabilità sociale è invece
l’ampiezza della città: coloro che vivono in grandi centri urbani nutrono maggiore
paura rispetto ai residenti di realtà più piccole, anche quando gli altri fattori vengono
controllati (Clemente e Kleiman, 1977; Baumer, 1985; Box et al., 1988; cit.in
Halpern, 1995). Il reddito risulta essere un’ulteriore variabile indipendente che
influenza la paura del crimine, infatti le persone povere riportano livelli più elevati
(Clemente e Kleiman, 1977; Baumer, 1985; cit.in Halpern, 1995). I fattori di
vulnerabilità sociale riflettono ampiamente la realtà dei crimini, mentre questo non è
vero per i fattori di vulnerabilità fisica (Halpern, 1995).
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Santinello et al. (1998), riportando gli studi di Skogan e Maxfield (1981) e
Tyler (1980), introducono il concetto di “vittimizzazione allargata” o “indiretta”, che
consiste nel subire le conseguenze psicologiche di un atto criminale da parte di un
soggetto, anche se egli non l’ha vissuto direttamente. Si tratterebbe di un effetto
secondario dovuto all’amplificazione che i legami sociali del vittimizzato riescono a
produrre anche tra chi non era presente, e ciò sarebbe in grado di spiegare la
differenza tra i tassi di vittimizzazione e la paura del crimine (Polano et al., 2007).
1.2.2.2 Paura del crimine e “incivilities”
Come accennato precedentemente, la paura oggi diffusa nelle città, e il
conseguente bisogno di sicurezza, non possono essere ricondotti solamente alle
variazioni del tasso di criminosità; è perciò necessario avanzare ipotesi che
permettano di dare una spiegazione a questa mancata corrispondenza tra aumento
dell’insicurezza e criminalità.
Per ogni gruppo sociale insediato in un territorio si danno standard di
convivenza nello spazio pubblico e standard di cura e mantenimento del territorio.
Gli atti di inciviltà sono atti che violano tali standard (Chiesi, 2003), e sono da
considerarsi comportamenti illegittimi o al limite dell’illegittimità, o anche
semplicemente inaccettabili per quote rilevanti della popolazione.
Si possono distinguere in due macro-categorie: inciviltà ambientali e sociali.
Le prime comprendono strade e marciapiedi danneggiati (mancata manutenzione del
manto stradale e del marciapiede, autovetture e motorini abbandonati, segnaletica
orizzontale illeggibile, ecc.); strade sporche (rifiuti scaricati in strada, rifiuti
ingombranti lasciati sul marciapiede o al margine della strada, ecc.); strade
abbandonate (lotti abbandonati o incustoditi, edifici abbandonati con finestre o porte
barricate con assi, ecc.); affacci danneggiati (graffiti, scritte sui muri, vetri rotti,
infissi fortemente danneggiati, ecc.); arredo urbano danneggiato (panchine, lampioni,
cassonetti e pensiline di attesa dell’autobus danneggiati, verde pubblico non
mantenuto, segnaletica verticale danneggiata o illeggibile, inadeguatezza o mancata
manutenzione del sistema di illuminazione, ecc.).
Le seconde comprendono l’occupazione della strada da parte di gruppi che
attuano comportamenti anti-sociali (per esempio radio al massimo volume, frasi di