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Criminali si nasce o si diventa? Il verdetto alle Neuroscienze

Quest'elaborato nasce con lo scopo di mettere luce sull'origine di quei comportamenti brutali e aggressivi che contraddistinguono l'operato dei criminali e il delicato rapporto esistente tra psicologia e processo giuridico, ambito in cui le neuroscienze hanno trovato la loro massima applicazione.
Le innumerevoli tecniche strumentali usate permettono infatti, di far affiorare le correlazioni anatomo-cliniche rilevanti sul soggetto posto in giudizio, attualmente quest'ultime rappresentano un passo intrigante al fine di verificare la colpevolezza o meno di un individuo, e auspicano, in virtù delle applicazioni future, la possibilità di poter quantificare la probabilità della recidiva, fondamentale per una corretta riabilitazione dei detenuti.
L'interesse del diritto penale alla mente umana e ai vari stati mentali esistenti, risale fino al diciassettesimo secolo, precedentemente i processi che presentavano comportamenti "devianti" erano interpretati come forme attraverso le quali il diavolo (secondo le credenze popolari per di più) si manifestava. Solo diversi secoli dopo, a partire dal ventesimo, in presenza di deficit cognitivi che procuravano alterazioni nel comportamento del soggetto imputato, si iniziò a dedicare la giusta rilevanza a tutte quelle diagnosi formulate attraverso un'analisi freudiana o altri approcci analoghi.
La medesima caratteristica che emerge quando si parla di cervello criminale è la presenza di una zona d'ombra nel lobo frontale, infatti, lesioni più o meno circoscritte di queste aree possono provocare nel soggetto la perdita della capacità, totale o parziale, di modulare il proprio comportamento e la compromissione di alcune funzioni cognitive, asseconda dell'area del cervello coinvolta. A mettere in luce la relazione tra controllo degli impulsi e cervello, è stata la biologia molecolare genetica, la quale ha potuto provare che la zona della corteccia prefrontale è sede di tutti quei sistemi inibitori sul controllo dell'aggressività; pertanto, ciò che viene giudicato aggressivo da un cervello "sano" è del tutto neutrale per coloro che invece presentano delle anomalie.
Ritornando al quesito di apertura di quest'elaborato, si vuol porre in risalto la cruda verità emersa finora: è giusto definire criminale colui che presenta tali alterazioni, che siano di tipo congenito, acquisite o morfologiche?
Se i comportamenti che insorgono, sfuggono al controllo intenzionale dell'individuo, ignaro di possedere un'alterazione a livello della corteccia prefrontale, si determina così, una situazione di totale assenza di patologie conclamate, pertanto, quando si parla di libero arbitrio, numerosi sono i quesiti che emergono e che trasversalmente attraversano scienza, filosofia e diritto.
Lo scopo ultimo che le neuroscienze hanno, oltre a quello di riuscire a mappare un circuito di funzionamento celebrale ben preciso, è quello di superare il binomio mente-corpo, conosciuto anche come dualismo cartesiano, in una prospettiva riduzionistica, per cui tutto ciò che è mentale, psichico, o di carattere animico/religioso sarebbe pienamente riconducibile a dinamiche neurofisiologiche o neurocelebrali.
L'incapacità di intendere e di volere rappresenta pertanto un valido motivo, universalmente riconosciuto, che porta a rivisitare parzialmente o totalmente l'esito all'interno di un processo penale. In presenza di tale mancanza di controllo da parte dell'individuo posto in giudizio, la giurisprudenza fa leva sul grado di responsabilità imputabile o meno in relazione ad un dato comportamento. La facoltà di autodeterminarsi di un individuo è quindi totalmente compromessa in tali situazioni, per la giurisprudenza, ciò che emerge è una violazione sostanziale del principio di responsabilità, nozione fondamentale nel nostro ordinamento e non solo. L'incapacità che il criminale ha pertanto, nel controllare l'impulso aggressivo può essere considerato imputabile a quest'ultimo?
L'articolo 85 del codice penale è una base solida su cui il principio dell'imputabilità si fonda, e secondo quanto recita quest'ultimo: "Nessuno può essere punito per un fatto preveduto dalla legge come reato, se, al momento in cui lo ha commesso, non era imputabile. È imputabile chi ha la capacità di intendere e di volere", aver compiuto il fatto dipende principalmente da un gesto di volontà nel farlo, pertanto, nel momento in cui, a venire meno è l'intenzionalità del fatto, il reato viene escluso. Ciò che emerge dagli antitetici concetti di mens rea o mens aegra (mente colpevole - mente malata) è una questione alquanto delicata che porta avanti un dibattitto etico-filosofico millenario, tra libero arbitrio e determinismo, le cui origini risalgono fino ai tempi dell'antica Roma. Quest'elaborato ha come fine ultimo quello di illustrare le varie dinamiche che possono verificarsi all'interno dei vari processi penali, ma il solo parere che conta, al di là di quello scientifico o umano, che può emergere da tali questioni, è quello del giudice.

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INTRODUZIONE Quest'elaborato nasce con lo scopo di mettere luce sull’origine di quei comportamenti brutali e aggressivi che contraddistinguono l’operato dei criminali e il delicato rapporto esistente tra psicologia e processo giuridico, ambito in cui le neuroscienze hanno trovato la loro massima applicazione. Le innumerevoli tecniche strumentali usate permettono infatti, di far affiorare le correlazioni anatomo-cliniche rilevanti sul soggetto posto in giudizio, attualmente quest’ultime rappresentano un passo intrigante al fine di verificare la colpevolezza o meno di un individuo, e auspicano, in virtù delle applicazioni future, la possibilità di poter quantificare la probabilità della recidiva, fondamentale per una corretta riabilitazione dei detenuti. L'interesse del diritto penale alla mente umana e ai vari stati mentali esistenti, risale fino al diciassettesimo secolo, precedentemente i processi che presentavano comportamenti “devianti” erano interpretati come forme attraverso le quali il diavolo (secondo le credenze popolari per di più) si manifestava. Solo diversi secoli dopo, a partire dal ventesimo, in presenza di deficit cognitivi che procuravano alterazioni nel comportamento del soggetto imputato, si iniziò a dedicare la giusta rilevanza a tutte quelle diagnosi formulate attraverso un’analisi freudiana o altri approcci analoghi. La medesima caratteristica che emerge quando si parla di cervello criminale è la presenza di una zona d’ombra nel lobo frontale, infatti, lesioni più o meno circoscritte di queste aree possono provocare nel soggetto la perdita della capacità, totale o parziale, di modulare il proprio comportamento e la compromissione di alcune funzioni cognitive, asseconda dell’area del cervello coinvolta. A mettere in luce la relazione tra controllo degli impulsi e cervello, è stata la biologia molecolare genetica, la quale ha potuto provare che la zona della corteccia prefrontale è sede di tutti quei sistemi inibitori sul controllo

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Parole chiave

processo penale
neuroscienze
psicologia giuridica
processi cognitivi
neuroscienze giuridiche
neuroscienze in tribunale
art. 85
principio della responsabilità
riabilitazione dei detenuti
mente colpevole

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