Le donne non avvocate: il dibattito sull’accesso delle donne alla professione forense tra Otto e Novecento.
Sono trascorsi ormai novantacinque anni dall’entrata in vigore della legge del 1919, e quindi dall’accesso delle donne all’avvocatura - e centotrenta anni dalla sentenza della Corte d’appello di Torino sulla causa Poët - ed ormai la presenza delle avvocate nelle aule dei tribunali non è più motivo di curiosità né di diffidenza. Nell’elaborazione di questa ricerca si sono messe in luce le ragioni giuridiche addotte, dopo l’unità d’Italia, a favore o contro la rimozione di un divieto risalente nel tempo e da molti ormai considerato obsoleto, ed è emersa la difficoltà, anche di molti esponenti del mondo forense, a confrontarsi con una mentalità nuova ed una differente visione del ruolo e delle capacità femminili.
La vicenda delle donne avvocate passa necessariamente attraverso un tentativo di demolizione delle fondamenta della visione tradizionale della donna come “regina del focolare domestico”: appartenevano a questa visione l’istituto dell’autorizzazione maritale e le varie incapacità cui era soggetta la donna in quanto tale.
Al di là delle norme che espressamente stabilivano le regole sull’incapacità femminile, vi erano poi delle leggi che semplicemente su questo punto tacevano: non vi era nessuna norma che sancisse espressamente la regola dell’incapacità di accedere alle professioni forensi; la legge emanata dopo l’unificazione della penisola per regolare le professioni forensi (l. n. 1938/1874) non ammetteva né negava la possibilità di accesso delle donne all’avvocatura e tale silenzio poteva essere interpretato in due diversi modi. Da un lato vi era una visione che si aggrappava alla concezione “classica” di donna, la quale non aveva mai aspirato a professioni così elevate: il fatto che la donna non potesse desiderare di ricoprire tali ruoli, veniva semplicemente dato per scontato; si tratta della tesi sostenuta dalla giurisprudenza maggioritaria del tempo, e da una dottrina minoritaria, ma autorevole. Dall’altro vi era un tentativo di utilizzare il silenzio della legge in senso favorevole alle aspiranti avvocate: si sosteneva infatti che la legge professionale era stata emanata in un momento in cui le donne non avevano ancora ricevuto l’espressa ammissione ai corsi di laurea ; di conseguenza la legge professionale doveva essere, secondo questa visione, interpretata in modo diverso, perché nel frattempo le cose erano cambiate, ed anche le donne potevano conseguire una laurea in Giurisprudenza.
Con lo scoppio del caso Poët furono in tanti ad auspicare un’interpretazione evolutiva della legge da parte dei giudici , i quali avrebbero dovuto, secondo la loro visione, adattare la legge ai cambiamenti sociali che stavano avvenendo in quegli anni.
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Informazioni tesi
Autore: | Virginia Rascazzo |
Tipo: | Tesi di Laurea Magistrale |
Anno: | 2014-15 |
Università: | Università degli Studi di Padova |
Facoltà: | Giurisprudenza |
Corso: | Giurisprudenza |
Relatore: | Chiara Maria Valsecchi |
Lingua: | Italiano |
Num. pagine: | 156 |
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