Resurrezione e amore. Simbologie della fenice nella letteratura occidentale
Il mito della fenice ha attecchito in occidente, nelle sue primordiali sembianze egizie, con il nome bennu e si è sviluppato in Grecia tra Esiodo ed Erodoto, invadendo immediatamente con la sua idea suggestiva di immortalità le più svariate opere letterarie.
Giunta nella caput mundi, il mondo latino l’ha spinta nell’indefinitezza, lasciando che si facessero strada varianti del mito più disparate. Solo i secoli di sperimentazione e ricerca scientifica post medievali tenteranno di delineare chiaramente la descriptio phoenice, in linea agli interrogativi sulla sua reale essenza. Numerosi esegetici offriranno testi alla causa, eppure occorre aspettare l’Ottocento per l’eccellenza, quando l’erudizione di Leopardi riuscirà a porre ordine nel caos, ricapitolando schematicamente le variabili del mondo classico sul mito e ironizzando su chi non la riteneva un essere immaginifico, ma bensì un uccello in carne ed ossa.
La versione più conosciuta della figlia dell’eternità vuole che essa senta il peso della vecchiaia ormai raggiunti i cinquecento anni e decida di recarsi presso Eliopoli per preparare il nido di aromi e frutti e lasciarsi andare nel rogo, tra le fiamme accese da un raggio di sole, dopo un ultimo straziante canto; dalle ceneri essa risorge giovane e maestosa, fra le sue sfumature dorate e purpuree, simile ad un’aquila.
In questa versione la fenice è diventata nei secoli uno degli esseri mitologici più celeberrimi, ma ha raggiunto una forma definitiva solo attraverso millenni di simbologie, che le hanno impresso il loro marchio e mutato l’ossatura.
Innanzitutto risente della sua lettura in chiave cristiana, viva dal I secolo d.C. fino al Cinquecento, ma in realtà indistruttibile data la sua presenza o influenza in sprazzi sparuti fino al Novecento. Da Clemente Romano a Tasso, passando per il Physiologus graecus, con la conseguenziale e lunga tradizione di bestiari medievali, e la parodizzazione sacrale dantesca, la fenice porterà sulle sue ali sia l’onere di figurazione terrestre di Cristo sia l’umiltà di rappresentare il cattolico e la sua speranza nell’aldilà, così il suo rinascere a nuova giovinezza diventa la resurrezione nel regno di Dio.
Affascinati dalla singolare metafora, in primis la Provenza, poi i sudditi dell’amor cortese della sicilia e della toscana, adatteranno la religiosità della simbologia fenicea dei bestiari ai propri nobili sentimenti amorosi. E’ l’amore per la Laura del Canzoniere a trovare una delle forme più auliche d’espressione nella fenice, che con Shakespeare perde la tradizionale asessualità e trova un compagno.
L’unica avis del suo più lustre cantore, Lattanzio, il fortunato augello cristologico tassiano, la Fenyce protagonista del Cligès, mostra di riuscire ad adattarsi ad ogni corrente e ad ogni ideologia. Si riveste di metasimbolismo con il manierismo e il barocco, di vacuità con Metastasio e Mallarmé, di illuminismo, diventando la compagnia di viaggio ideale per Voltaire, dell’appellativo di dégoutant di Baudelaire, di vittorioso io dannunziano e di essenza traghettatrice con Bontempelli.
Cercheremo di ricostruire e analizzare ogni singola simbologia fenicea, gli sviluppi del mito e i moventi che l’hanno portata alla sua popolarità, a resistere ai millenni e diventare eterna come l’eternità che rappresenta.
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Informazioni tesi
Autore: | Francesco De Simone |
Tipo: | Laurea I ciclo (triennale) |
Anno: | 2013-14 |
Università: | Università degli Studi di Napoli - Federico II |
Facoltà: | Lettere |
Corso: | Lettere Moderne |
Relatore: | Francesco De Cristofaro |
Lingua: | Italiano |
Num. pagine: | 91 |
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