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Il concetto di empatia tra filosofia, psicologia e consulenza filosofica

L’obiettivo della mia tesi è discutere il ruolo che l’empatia e in generale i processi di condivisione delle emozioni rivestono all’interno degli incontri di consulenza filosofica. Per poter assolvere il compito prefissatomi è stato però necessario individuare una definizione precisa di empatia, dato che spesso gli studiosi che se ne sono occupati l’hanno intesa, a mio modo di vedere, in modo superficiale, concentrandosi perlopiù sulle sue componenti affettive. Nel primo capitolo ho così cominciato a tracciarne una genealogia partendo dall’ambito filosofico che gli ha dato i natali, ovvero la riflessione estetica di Theodor Lipps, non senza aver confutato la sua presunta filiazione dal romanticismo tedesco. Considerando l’estetica una disciplina psicologica, Lipps ritiene che attraverso l’empatia il soggetto proietti sull’oggetto contemplato un senso estetico da lui stesso ricavato per via imitativa. La caratterizzazione lippsiana del fenomeno empatico coinvolge anche la sfera intersoggettiva: l’espressione altrui che il soggetto percepisce attiva una disposizione interiore che viene poi proiettata sull’altro, come se questa gli appartenesse. Questa lettura del fenomeno empatico è stata oggetto di critica da parte di Max Scheler e di Edith Stein. Il primo critica lo psicologismo lippsiano in difesa di quelli che Andrea Pinotti chiama i «diritti dell’oggetto» e considera l’empatia un’illusione solipsistica dovuta a un’eccessiva valorizzazione dell’attività concettuale del soggetto: a suo modo di vedere il fenomeno descritto da Lipps caratterizza piuttosto l’unipatia, una forma estrema di contagio affettivo che implica un’identificazione tra soggetto e oggetto. Stein invece, importando nel proprio concetto di empatia alcuni caratteri della simpatia scheleriana, individua nel fenomeno empatico due componenti fondamentali: un momento di partecipazione affettiva, affine al contagio affettivo, e un momento di distacco cognitivo.
Nel secondo capitolo ho abbandonato momentaneamente l’ambito strettamente filosofico per tracciare una panoramica storica della trattazione psicologica sul concetto. È così emerso che in ambito psicologico è stato talvolta posto l’accento sul carattere imitativo dell’empatia, nel solco del pensiero di Lipps, e sul coinvolgimento affettivo che la caratterizza, talaltra sulla sua componente cognitiva. Ho chiamato equivoco sineddotico questa tendenza a ricondurre a uno solo delle due componenti la totalità del fenomeno empatico. In anni recenti gli psicologi hanno tuttavia finito per prediligere una lettura multidimensionale dell’empatia, finendo per concordare con la lettura che Stein aveva dato dell’empatia anni prima. Ho poi dato conto degli studi neuroscientifici sull’argomento: la scoperta dei neuroni specchio ha infatti dimostrato che una certa condivisione degli stati affettivi avviene in maniera automatica. Una volta definita compiutamente l’empatia ho poi descritto la psicoterapia di Carl Rogers e il ruolo che questi assegna all’empatia nella sua Client-centered therapy. Lo psicologo americano la considera infatti una conditio sine qua non per la riuscita del processo terapeutico.
Nel terzo capitolo affronto così la questione del ruolo dell’empatia nella consulenza filosofica. Per chiarire cosa intendo per consulenza filosofica, ho riflettuto sulle intenzionalità del consulente filosofico paragonate a quelle che motivano psicoterapeuti e insegnanti e ho concluso che questi non dovrebbe essere mosso né da un’intenzionalità terapeutica di incremento del benessere del consultante, né da un’intenzionalità didattica. L’unica intenzionalità accettabile per un consulente filosofico è, a mio modo di vedere, quella di affiancare il consultante in un processo di chiarificazione dei concetti di cui è portatore o che sono implicati nella sua vita.
Se è chiaro che la relazione non dev’essere l’oggetto primario della consulenza filosofica in quanto il focus di essa non è sul soggetto consultante quanto sui concetti di cui è portatore, nondimeno l’empatia riveste in essa un ruolo che, seppur non operativo come nel counseling rogersiano, è in ogni caso rilevante per due motivi: prima di tutto perché essa può favorire l’andamento della discussione creando un ambiente relazionale confortevole, in secondo luogo perché essa, essendo caratterizzata anche da un distacco cognitivo, contiene al suo interno gli anticorpi per far fronte al rischio di contagio affettivo.

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INTRODUZIONE In questo lavoro di tesi intendiamo discutere l’eventuale rilevanza del concetto di empatia per la consulenza filosofica. A tal fine appare opportuno individuare una definizione di tale concetto che dia conto di ogni caratteristica del fenomeno cui esso si riferisce: in vista di questo obiettivo tracceremo una genealogia del concetto, ripercorrendo le diverse fasi della riflessione portata avanti su di esso tanto in ambito filosofico quanto in quello psicologico. In un secondo momento esamineremo il ruolo operativo che il concetto di empatia ricopre nella psicoterapia e quello non operativo che crediamo esso rivesta talvolta nella consulenza filosofica. Nel primo capitolo prenderemo in esame le posizioni di filosofi che hanno riflettuto sul concetto di empatia. I primi teorici di essa si consideravano eredi delle teorie romantiche di immedesimazione con la natura: l’analisi del senso del rapporto dell’uomo con la natura formulato da Novalis mostrerà però quanto questa pretesa ascendenza risulti problematica. In seguito analizzeremo la teoria propugnata da Theodor Lipps all’inizio del Novecento in merito all’empatia: considerando l’estetica una disciplina psicologica, egli ritiene che attraverso l’empatia il soggetto proietti sull’oggetto contemplato un senso estetico da lui stesso ricavato per via imitativa. La caratterizzazione lippsiana del fenomeno empatico coinvolge anche la sfera intersoggettiva: l’espressione altrui che il soggetto percepisce attiva una disposizione interiore che viene poi proiettata sull’altro, come se questa gli appartenesse. La posizione di Lipps e la sua caratterizzazione del fenomeno empatico sono fortemente avversate da due pensatori vicini alla fenomenologia: Max Scheler ed Edith Stein. Scheler considera l’empatia proiettiva di Lipps un’illusione solipsistica causata da un’eccessiva valorizzazione dell’attività concettuale del soggetto; di contro riconosce un ruolo fondamentale al concetto di simpatia, ritenendo che quest’ultima sia la relazione emotiva fondamentale grazie alla quale l’essere umano può partecipare alle emozioni altrui, senza che la propria individualità venga peraltro mai meno.

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Parole chiave

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cognitivismo
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