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Il principio del verum-factum in G.B. Vico. Un percorso tra razionalismo ed empirismo.

Fuoriuscendo dai canoni dei due indirizzi epistemologici principali del XVI sec. (razionalismo ed empirismo), a cavallo tra il XVII ed il XVIII sec. Giambattista Vico (1668 - 1744) elabora una TEORIA DELLA CONOSCENZA inedita. Si tratta infatti di una teoria particolarmente originale, non ancora sondata in tutta la sua profondità; una teoria di tipo "filosofico-trascendentale" a tratti simile a quella elaborata da Kant in pieno Settecento e, soprattutto, una teoria che riesce a coniugare il piano del CONOSCERE ed il piano del FARE. Quindi, a partire dal principio gnoseologico del "verum-factum" (qui analizzato tanto nella sua maturazione storica quanto nella sua valenza teoretica), si analizza come il filosofo partenopeo imbastisca tale dottrina epistemologica volta a (ri)trovare l'ESSERE nella sua UNITA' - al di là della sua scissione tra INTELLETTUALISTICO (conoscere) e SENSISTICO-ESISTENTIVO (fare).

Inoltre, nell'analisi di una simile prospettiva gnoseologica, sono lasciati emergere le IMPLICAZIONI METAFISICHE e i CARATTERI ANTROPOLOGICI (soprattutto relativi alla "ricerca d'una antropologia integrale" e all'originale trattazione della "ragione creatrice") della riflessione vichiana.

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2 Introduzione Tradizionalmente, nella storia della filosofia, la gnoseologia secentesca viene suddivisa in due principali indirizzi di pensiero, antitetici tra loro: il razionalismo – che “nega all‟esperienza sensibile la capacità di fornire certezza alla mente” ed “assegna la priorità […] conoscitiva alla ragione del soggetto” 1 – e l‟empirismo – che esclude che “la ragione abbia per se stessa la capacità di giungere a conoscenze necessariamente vere”, giacché “solo l‟esperienza fornisce le idee” 2 . Ora, a cavallo tra il XVII ed il XVIII secolo, “da un angoletto morto della storia” 3 qual era il Regno di Napoli a livello culturale rispetto ad altri regni d‟Europa, Giambattista Vico elabora una propria teoria della conoscenza che non sembra rientrare né nei canoni del razionalismo né in quelli dell‟empirismo. Il razionalismo è rigettato esplicitamente e criticato apertamente da Vico già a partire dal De nostri temporis studiorum ratione (1708), “assieme al De Antiquissima (1710), una delle prime grandi opere filosofiche” del pensatore partenopeo 4 . In questi due testi, infatti, viene formulato quel “principio gnoseologico universale, che la condizione per conoscere una cosa è il farla e il vero è il fatto stesso: verum ipsum factum” 5 . Una volta chiarito il significato di tale concezione nei suoi vari aspetti e “stabilito nella connessione del vero e del fatto l‟ideale della scienza”, le risposte negative ad interrogativi quali “forse che l‟uomo ha esso creato il mondo? ha esso creato la propria anima?” portano a concludere che “all‟uomo non è data la scienza ma la sola coscienza”, che egli è, in quanto pensa, pur non sapendo che cosa è, poiché non è facitore di se stesso; che egli è verosimilmente in un mondo, pur non potendo attingere al vero “in sé” della natura, in quanto non 1 P. Rossi, Dizionario di filosofia, Firenze, La Nuova Italia, 1997, p. 391. Questa forma del razionalismo è riferita principalmente a Cartesio (1596 – 1650), che in più passi la rivendica, come quando sostiene che “né la nostra immaginazione né i nostri sensi potrebbero mai assicurarci nulla senza l‟intervento del nostro intelletto” (Discorso sul metodo, Bari, Laterza, 2006, p. 51). 2 Ibid., p. 127. Il maggior esponente dell‟empirismo è considerato il filosofo inglese John Locke (1632 – 1704), dal cui Saggio sull‟intelletto umano (1690) citiamo questo luogo emblematico: “Supponiamo dunque che la mente sia quel che si chiama un foglio bianco, privo di ogni carattere, senza alcuna idea. […] Donde ha tratto tutti questi materiali della ragione e della conoscenza? Rispondo con una sola parola: dall‟esperienza. È questo il fondamento di tutte le nostre conoscenze” (II. Delle idee, 1, 2 – tr. it. di C. Pellizzi, in Locke, Milano, Mondadori (“I classici del pensiero”), 2008, p. 95). 3 G. Patella, Senso, corpo, poesia. Giambattista Vico e l‟origine dell‟estetica moderna, Milano, Guerini, 1995, p. 10. Va precisato che il Regno di Napoli, tra il XVII e XVIII secolo, può esser considerato solo apparentemente un “angoletto morto” dato che fu investito da un moto di rinnovamento vivace e vasto già sotto il dominio di Carlo II, come viene attestato nell‟Istoria civile del Regno di Napoli (1723) di Pietro Giannone e come ci ricorda Paolo Rossi nel suo Il pensiero di Giambattista Vico, Torino, Loescher Editore, 1959, pp. X-XVI. 4 M. Sanna, Introduzione a G. B. Vico, De nostri temporis studiorum ratione, a cura di A. Suggi, Pisa, ETS, 2010, p. 6. 5 B. Croce, La filosofia di Giambattista Vico, Bari, Laterza, 1922, p. 5.

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