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Riqualificazione urbana area ALER, Quartiere Giambellino, Milano

Le tematiche di questo progetto di tesi sono quelle dell’edilizia popolare milanese che, tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, ha trasformato completamente il volto di Milano a causa della veloce industrializzazione subita dal Paese e del processo di urbanificazione delle aree agricole. Si pensa che la popolazione residente a Milano sia passata dai 186.000 abitanti del 1860 ai 441.947 censiti nel 1901: una crescita incredibile. L’edilizia popolare ha risposto alla sempre crescente richiesta di alloggi in modo selvaggio, realizzando in tempo record numerosissimi edifici per abitazioni ma, spesso, mantenendo standard qualitativi minimi.
Molti dei quartieri popolari di Milano, costruiti in quella che una volta era la periferia della metropoli, sono ora luoghi degradati, dal punto di vista estetico e strutturale sia degli edifici che degli ambienti: alcuni di questi quartieri sono divenuti luoghi ideali per lo sviluppo della malavita. Le popolazioni più disagiate sono costrette a vivere in questi luoghi, spesso teatro degli avvenimenti più inquietanti riportati dai quotidiani. Sia a livello politico che sociale ci si chiede, dunque, come sia possibile risolvere il problema del crescente stato di degrado dei più noti e malfamati quartieri popolari milanesi. Si legge spesso che la soluzione più logica sia abbattere tutto, ricostruire, magari, abitazioni di lusso, per una fetta di popolazione “per bene”, così da eliminare il problema degli immigrati, dei senza tetto, della gente bisognosa. Raramente ci si imbatte, però, nella considerazione più importante di tutte: che fine farebbero le migliaia di abitanti di questi quartieri se li si dovesse abbattere senza pensarci su due volte?
La mia ricerca è servita ad evidenziare questi problemi ed a comprendere da cosa siano generati, come li si possa affrontare. L’unica via è davvero quella di abbattere tutto, ricostruire nuovi alloggi, spazi urbani, attività commerciali e servizi e, magari, cercare di disperdere la popolazione attualmente presente in questi quartieri in altre zone di Milano? Non si può, forse, trasformare un quartire degradato in un esempio di riqualificazione, in un nuovo motore per la vita milanese e, perché no, in un luogo vivo e pulsante ricco di attività innovative e d’interesse persino metropolitano? La risposta che ho cercato di dare è che tutto questo si può fare, senza abbattere nulla o quasi, tramite l’impiego di tecnologie innovative, con forte carica utopistica e sperimentale, ma con il tentativo di non perdere mai completamente di vista la storia degli errori del passato e le reali necessità della città moderna.

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CAPITOLO 1. EDILIZIA POPOLARE A MILANO 13 esperimentale,maconiltentativodinonperderemaicompletamentedivistalastoriadegli errori del passato e le reali necessità della città moderna. 1.2 Dallo Iacp all’Aler Di Enrico Landoni - Dipartimento di Scienze della Storia e della Documentazione Storica - Uni- versità degli Studi di Milano L’assoluta gravità dell’emergenza abitativa si impose all’attenzione della classe politica ita- liana tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, come una delle dirette conseguenze del- l’incipiente industrializzazione del Paese e del progressivo inurbamento di sempre più consistenti settori del proletariato agricolo. Emblematico di queste travolgenti dinamiche economiche e de- mografiche fu proprio il caso di Milano, la cui popolazione residente passò dai 186.000 abitanti del 1860 ai 441.947 censiti nel 1901. [...] Le inchieste municipali condotte in questo torno di tempo a Faenza, Verona, Firenze, Raven- na, Vicenza, Venezia, Udine, Treviso e soprattutto a Milano avevano messo in piena luce la forte connessione esistente tra industrializzazione ed emergenza abitativa, individuando nel migliora- mento complessivo delle condizioni di vita dei lavoratori nelle loro case il requisito fondamentale per lo sviluppo economico della nazione. [...] Il 31 maggio 1903 la Camera approvò, infatti, il progetto di legge presentato da Luigi Luzzatti un anno prima, con il chiaro intento di agevolare la costruzione di case popolari, destinate, cioè, a tutti coloro che vivevano del loro salario e non di rendite derivanti da posizioni finanziarie o immobiliari. [...] Tale provvedimento legislativo interveniva direttamente anche sui soggetti potenzialmente coinvolti nell’edificazione di stabili di edilizia popolare, rivolgendosi soprattutto a Cooperative, Società di mutuo soccorso, Enti ed Istituti di beneficenza, Banche, Monti di Pietà e Comuni, che si sarebbero potuti consorziare per dare vita ai futuri Istituti Autonomi per le Case Popolari (IACP), dei quali, tuttavia, la legge non specificava esattamente la natura giuridica ed economica. [...] Gli IACP sarebbero diventati degli enti morali pubblici alieni da ogni scopo di lucro e con la possibilità di effettuare delle ope- razioni di credito, istituiti con il contributo diretto dei Comuni, delle Casse di Risparmio, delle Banche ed anche di semplici privati cittadini, secondo un modello organizzativo a mezzadria tra libera iniziativa privata e municipalizzazione. [...] La soluzione abitativa caratteristica della prima fase di attività dell’Istituto fu il monolocale con servizi, in grado di soddisfare la domanda prevalente, che proveniva soprattutto da lavoratori a basso reddito e in molti casi privi di un loro nucleo familiare. [...] Proseguirono, intanto, nel corso del 1920, sia il processo di riorganizzazione aziendale, che condusse all’allargamento a quindici membri del Consiglio di Amministrazione, all’interno del quale fu aumentata la rappresentanza di nomina comunale e trovarono posto gli inquilini de- legati dei neonati Consigli di Quartiere, sia l’intensa attività realizzativa, che culminò nella progettazione di nuovi complessi residenziali nei quartieri Vittoria, Genova, Magenta, Tiepolo e Pascoli, Botticelli, Friuli, Andrea Del Sarto e Monza. Iniziò così, con la pianificazione di questi fabbricati, lostudioperlacreazionediunanuovatipologiadicasapopolare, caratterizzatadalla

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