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Oriana e l'ossessione per il romanzo

Oriana si è sempre sentita, secondo le sue parole, più a suo «agio nella solitudine della letteratura». «Non a caso i miei anni più felici li ho vissuti non quando giravo il mondo e scrivevo per i giornali ma quando stavo sola con me stessa e scrivevo i miei romanzi». Un giorno, probabilmente troppo a lungo costretta nei limitati e limitanti spazi delle colonne giornalistiche, delle pagine dei settimanali, Oriana divenne consapevole di quel che, in fondo, aveva sempre saputo: «Mi sono accorta che il giornalismo, il mio impegno di raccontare solo cose vere, viste e vissute, era il mio voto di castità, una terribile imposizione contro il bisogno di narrare, di lasciar liberi le invenzioni, i pensieri». E il confine tra giornalismo e letteratura si fece sempre più sottile, per Oriana, tanto da farla definire come «la grande figura scomoda della letteratura giornalistica» dal settimanale tedesco «Der Spiegel».
Lo scrivere, per Oriana, è «un masochismo, come diceva Colette», quasi un sadico atto di ferocia a cui bisognava condannarsi: «Inizio a lavorare al mattino, presto. Vado avanti sino alle 6 o 7 di sera senza interruzioni, senza mangiare o senza riposare. Fumo più del solito, il che significa circa 50 sigarette al giorno. Dormo male la notte. Non vedo nessuno. Non rispondo al telefono. Non vado da nessuna parte. Ignoro le domeniche, le feste. Divento isterica e infelice e colpevole se non produco molto». Certo, c’è forse un poco di divisimo, in tutto questo. Ma è una certezza che allo scrivere, Oriana si dedicò con un rigore e una disciplina inauditi, ammirevoli, incredibili; quasi titanici. «Mi stanco come un facchino, come un minatore, come quelli che fanno un mestiere pesante. Eppure non posso fare a meno di scrivere». A differenza di scrittori come Piovene, Buzzati, Arpino, approdati al giornalismo come «secondo mestiere» (secondo la definizione di Montale), Oriana tentò «di scardinare la porta stretta della letteratura non “malgrado”, ma “proprio” grazie al robusto grimaldello del giornalismo».
Oriana fu scrittrice atipica nel panorama letterario italiano: scrittrice «che usa “un italiano impeccabile” ma è popolare, che conosce le cose dal vero ma le racconta come le fiabe da Mille e una notte, che ha visto tutto da vicino ma ama trasformare la vita in un racconto, che è ossessionata da alcune idee “grandi” […] e lo dice con appassionata irruenza».
Scrivere era dunque l’ossessione di Oriana; ma non giornalismo. La sua ossessione era «diventare scrittore, romanziere». Ed ecco perché, in questa tesi, ho scelto di parlare quei lavori che, a mio parere, più si avvicinano alla forma, e alla sostanza, del romanzo. Opere, ovvero, in cui l’“io-Oriana-Fallaci” è narrativamente mediato; nelle quali sono, com’è ovvio, rielaborate esperienze dirette, vissute ma nelle quali Oriana non figura nella narrazione, come Oriana Fallaci appunto, ma è filtrata, mascherata d’altro: sia un narratore in prima persona (Lettera a un bambino mai nato), sia in terza, onnisciente (Penelope alla guerra, Insciallah), sia che compaia in entrambe le forme, in un continuo intrecciarsi di voci e piani narrativi (Un cappello pieno di ciliege). Perché credo che, in verità, Oriana sia riuscita nel suo intento, che abbia saputo dare, attraverso la sua portentosa scrittura, un compimento alla sua ossessione.
Scrive Gulli: «Giornalisti eravamo noi. Lei era scrittrice, anzi lo Scrittore, ed esigeva che si dicesse così: Scrittore». Proprio come la sua epigrafe recita; per sempre.

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Diventare romanziere: un’ossessione «Sono la donna…» «Sono la donna che / fece ridere Khomeini. / Sono la donna che / […] fece piangere Gheddafi e Kissinger. / Sono la donna che / fece togliere a Deng Xiao Ping / i gigante- schi ritratti di Marx / ed Engels e Lenin e Stalin / da piazza Tien An Men. / Sono la donna che / fece gridare Golda Meir: / «È un genio!» / e urlare il re di Etiopia: / «Getta- tela fuori, nel giardino!» / (Lo fecero, e c’era / un leone enorme in giardino. / Siete mai stati faccia a faccia / con un leone enorme in giardino?) […] / Sono la donna che / fuggì alla propria esecuzione in Ungheria / e sopravvisse al massacro di Città del Messico / dove rimase per ore / con tre pallottole nell’obitorio» 1 . Con questa poesia Oriana si divertì a descriversi. Era l’aprile 1997: da Torino Oriana in- viò un biglietto di ringraziamento a Michael W. Homer, sociologo statunitense delle re- ligioni, che l’aveva aiutata a compiere delle ricerche sui mormoni, per il suo ultimo ro- manzo. A Homer Oriana aveva promesso di procurare una copia di Storia di Casa Savoia di Alexandre Dumas; ma non lo fece. Gl’inviò, invece, Apology (a ballad), una poesia che si concludeva, appunto, con le proprie scuse: «E ancora. / E ancora, e ancora, amici miei / sono anche la donna che / non procurò il fottuto “Storia di Casa Savoia” / per Michael Homer. / Chiedo scusa» 2 . Oriana si divertì a identificare, in questo caso, la sua carriera innanzitutto con l’esperienza giornalistica 3 , con le interviste ai capi di stato e ai perso- naggi importanti, ostentati come scalpi da un guerriero pellerossa. Ha sempre ammesso, Oriana, di nutrire un profondo amore per il giornalismo. Si defini- va «un tarlo» 4 , perché grazie al giornalismo aveva potuto vivere la Storia dall’interno: non soltanto contemplandola passivamente, ma documentandola e, in un certo senso, finanche preservandola. «Perché la storia d’oggi si scrive nell’attimo stesso del suo dive- nire. La si può fotografare, filmare, incidere sul nastro […]. La si può diffondere subito […]. Io amo il giornalismo per questo. Temo il giornalismo per questo. Quale altro me- stiere ti permette di scriver la storia nell’attimo stesso del suo divenire e anche d’esserne il testimone diretto?» 5 . Oriana, innanzitutto, individuava nella scrittura un impegno morale, una responsabilità enorme. Perché la scrittura influenza, e lo fa meglio delle bombe, delle baionette. Le bombe deflagrano, le baionette affondano, è vero; ma la scrittura rimane, dura. Indomita 4 1 ? Cfr. ANDREA MORIGI, Oriana segreta. E la Fallaci raccontò se stessa in una poesia, in “Libero”, 2 agosto 2009, p. 1. 2 ? Cfr. ibidem. 3 ? Ecco come Oriana definiva il “giornalista”: «È uno che al mattino arriva in un luogo di cui non sa nulla e la sera stessa sta già scrivendo su quel luogo un articolo piuttosto informato e preciso. Uno che fa do- mande per strada, che squaderna gli archivi, guarda negli occhi le persone, si porta alla bocca i fatti come un bambino fa con gli oggetti, per conoscerne sapore e consistenza. Uno che invitato a casa vostra non vi lascia la biblioteca (e l’anima) così come l’ha trovata» (cfr. TOMMY CAPPELLINI, Dall’inviata fra Terra e Luna con barbecue party e astronauti robot, in “Il Giornale”, 12 luglio 2009, p. 22). 4 ? Cfr. ORIANA FALLACI, Oriana Fallaci intervista sé stessa – L’Apocalisse, New York, Rizzoli Internatio- nal, 2004, p. 209. 5 ? Cfr. EAD., Intervista con la storia, Milano, Rizzoli, 2008 [1974], p. 7.

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