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Infarto del miocardio: ''STEMI'', dal territorio all'ospedale, assistenza e percorso terapeutico

Il soccorso extraospedaliero dell'infarto stemi è una tipologia di soccorso tempo dipendente per una buona riuscita della riperfusione miocardica. Le varie centrali operative in Italia stanno attuando diversi protocolli che mirano a ridurre i tempi di soccorso extraospedalieri, quindi i tempi di diagnosi e trasporto del paziente nel centro HUB più idoneo, e i tempi morti intraospedalieri rappresentati dai tempi di attesa al pronto soccorso e la diagnosi nello stesso. Una mano molto importante viene dalla telecardiologia, direi indispensabile in questo contesto.
La tesi è composta da quattro capitoli così diviso:
Nel primo capitolo ci sono cenni sul sistema 118. Nel secondo capitolo ci sono cenni di anatomia e fisiologia del cuore. Nel terzo capitolo ci sono cenni teorici sull'infarto. Il quarto capitolo riguarda il trattamento extraospedaliero dell'infarto stemi.

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INTRODUZIONE L’infarto miocardico acuto (IMA) rimane una delle affezioni a maggior rischio di morte nei paesi industrializzati. La mortalità è massima nelle prime ore del mattino (ogni anno negli USA, oltre 100.000 mila persone con infarto del miocardio vanno incontro ad arresto cardiaco e morte prima del ricovero in ospedale); è pertanto critico diagnosticare l’IMA rapidamente, soccorrere i pazienti con mezzi idonei all’ACLS, avviarli prontamente in Unità di Cure Intensive e procedere, se è il caso, alla riperfusione coronarica. Le Unità di Cura Intensiva Coronarica (UTIC) hanno cominciato a diffondersi nei paesi industrializzati nella seconda metà del secolo passato. Il loro scopo, alle origini, era quello di ridurre la mortalità per infarto miocardico acuto attraverso il riconoscimento e il pronto trattamento delle aritmie minacciose per la vita, particolarmente frequenti nelle prime ore della mattina. Nonostante che le UTIC fossero rapidamente divenute uno standard di cura irrinunciabile per l’IMA, molti problemi rimanevano aperti e, a distanza di anni, non mancano voci discordi sul loro reale impatto nel ridurre la mortalità per IMA e, quindi, sulla loro utilità. In effetti, ben difficilmente le UTIC avrebbero potuto allora incidere in maniera significativa sulla mortalità per IMA dal momento che, essendo state concepite come unità per la sorveglianza e la terapia delle aritmie, ricevevano solo pazienti nei quali questo rischio era ormai ampiamente superato. Nel 1965 un certo Frank Pantridge di Belfast si era reso conto del fatto che i pazienti con IMA che arrivavano nelle UTIC erano il risultato di una selezione naturale avvenuta fuori dall’ospedale e pensò di risolvere il problema portando sul territorio professionalità e metodi di cura fino ad allora confinati all’interno delle UTIC. L’idea di Pantridge si diffuse rapidamente ad altri paesi e, nel giro di pochi anni, programmi simili vennero iniziati in Europa, in Australia e negli Stati Uniti, dando origine agli attuali sistemi di emergenza medica territoriale dei paesi industrializzati, compreso il nostro. L’interesse per la fase preospedaliera dell’IMA si è ancor più accentuato a partire dalla seconda metà degli anni ’80, quando lo studio GISSI ha dimostrato una significativa riduzione di mortalità ottenibile attraverso la terapia fibrinolitica. Tale mortalità si era dimostrata tanto più evidente quanto prima la terapia era stata iniziata rispetto all’inizio dei sintomi. L’importanza della relazione fra tempo di inizio della fibrinolisi e mortalità è stata 1

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