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Le geometrie irrequiete di Fleur Jaeggy

Ci sono due modi di leggere un'opera, che essa sia letteraria, artistica o musicale: possiamo leggerla dal di fuori, guardarla, pensarla al nostro cospetto; oppure possiamo leggerla dal di dentro, aderente a noi come una seconda pelle. Leggere Fleur Jaeggy dal di dentro è l'unica possibilità che il lettore ha per comprendere il significato delle sue opere. Fleur Jaeggy ha un grande merito, quello di avere riportato l'attenzione su una letteratura, quella svizzera, troppo spesso relegata agli angoli della letteratura mondiale, pur avendo prodotto scrittori del calibro di Robert Walser, Jacques Chessex, Friedrich Durrenmatt. Una letteratura svizzera fatta da una donna che pur nata a Zurigo, ha vissuto e vive tuttora la sua vita in Italia ma che rimane svizzera perché svizzeri sono gli ambienti, i personaggi, la cultura e le tradizioni. Fleur Jaeggy raschia quella patina dell'immaginario collettivo che vede la Svizzera come staterello pacioso e rassicurante, a tratti persino stucchevole fatto di montagne innevate, pascoli verdeggianti, baite popolate da valligiani sorridenti e bonaccioni. Quella della Jaeggy è invece la Svizzera colta in fallo nella sua umanità, una umanità difficile da vedere perché spesso ben chiusa dentro le mura domestica. La Svizzera sviscerata nella sua cultura, nelle sue tradizioni, e perché no, nelle sue superstizioni. La Svizzera di Fleur Jaeggy è la Svizzera calvinista del dopo Calvino, radicata in una base profondamente cattolica, quella nata a conclusione del Concilio di Trento. Un calvinismo e un cattolicesimo nati a cavallo tra Cinque e Seicento e non così dissimili, entrambi invasivi nella quotidianità del fedele. I precetti morali del calvinismo si uniscono all'ambiente flagellante, punitivo, sofferente del cattolicesimo, che la Jaeggy analizza e stigmatizza attraverso una filologia dell'anima, con l'umanesimo tipico del protestantesimo zwingliano, che mentre rappresenta gli aspetti più sgradevoli e censorii della religiosità, mette in guardia il lettore sui pericoli di una religione che si fa dogma, si ammanta di etica per veicolare pericolosi moralismi custodialistici. Quella della Jaeggy è una vera e propria didattica catartica, una lettura lunga, ardua e difficoltosa perché l'unica maniera possibile per conquistare un significato. Una scrittura geometrica, essenziale, protestante. I suoi sono personaggi terribili, capaci di atti orribili e ingiustificabili. Fleur Jaeggy è una donna ben conscia che, come ricorda Jung (1875 – 1961): “chi va verso sé stesso rischia l'incontro con sé stesso”. Quasi tutti i personaggi jaeggyani sono esseri incapaci di introspezione o malati di ignavia generazionale, ben nascosti dietro maschere sociali e orpelli moralistico – religiosi, terrorizzati dall'idea di accettare la paradossalità naturale dell'animo umano. La vita non è una disgiunzione, bensì una congiunzione, ricorda ancora Jung. Non si può vivere una vita all'insegna della follia o della razionalità; l'unica vita concessa è contemporaneamente folle e razionale ed è questa forse la grande lezione di Fleur Jaeggy.

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Introduzione Oggetto della nostra tesi è la produzione letteraria romanzesca di Fleur Jaeggy, tra le più importanti scrittrici in lingua italiana degli ultimi cinquant'anni. Poco sappiamo di questa riservata cometa della letteratura italiana, scrittrice florida e valida traduttrice, nata a Zurigo, in Svizzera, il 30 luglio del 1940, trasferitasi poco più che adolescente in Italia, a Roma, al seguito della madre, e poi a Milano, inframezzando il suo soggiorno italiano con numerosi viaggi in giro per il mondo. Figlia di svizzeri, nata da padre di famiglia protestante zwingliana, e madre nata da una coppia di italiani, emigrati in Svizzera, di religione cattolica. Apparsa per la prima volta al pubblico nel 1968 con il romanzo Il dito in bocca, la Jaeggy inizia una lunga serie di pubblicazioni, tutte per la casa editrice Adelphi: L'angelo custode (1971); Le statue d'acqua (1980); I Beati Anni del Castigo (1989) che la consacrerà al grande pubblico; La Paura del Cielo (1994); Proleterka (2001); Vite congetturali (2009). Farsi largo nei meandri delle pagine di questa scrittrice è impresa ardua, difficoltosa e lunga. Meandro sembra davvero la parola più adatta in questo caso, non sembrandoci così peregrino il prestito dal linguaggio della scienza idrografica. Se i meandri sono infatti le tipiche anse di fiumi pianeggianti che per la loro debole pendenza sono i più sensibili a rischi di impaludamenti, così è innegabile che la scrittura della Jaeggy scorra lentamente, navigando senza tempo e senza spazio, bloccando inesorabilmente il lettore in un vischioso gioco a più livelli (linguistico, narrativo, tematico) dal quale è difficile emergere e impossibile farlo con una chiave di lettura esauriente in mano. Uno stile unico, la paratatticità estrema, la limatura quasi scientifica dei periodi, l'enigmaticità, la contraddittorietà sintattica, fanno dei testi della Jaeggy un prezioso e irripetibile gioiello di carta e inchiostro, frutto di una cura che ha dell'inverosimile. Difficile persino assegnare un genere a queste curiose storie e se il termine genere è quello che più di ogni altro ha sollevato secolari dibattiti tra storici, comparatisti e letterati in genere, le opere della Jaeggy sono destinate ad aggiungere ulteriore materiale di scontro, a sollevare nuove domande e a spolverarne di vecchie. Come definire infatti i suoi libri? Romanzi o racconti? Poesia in prosa? Teatro senza battute? 1

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