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Previdenza complementare e T.F.R.

Il presente elaborato si prefigge l’obiettivo di delineare il sistema della previdenza complementare alla luce delle modifiche introdotte dalla recente riforma attuata col D. Lgs. 252/2005.
Saranno costantemente evidenziate analogie e differenze rispetto alla disciplina previgente, al fine di far emergere in modo chiaro le novità della materia.
Innanzitutto, verranno poste in rilievo le ragioni che hanno portato a tali cambiamenti: è agli inizi degli anni ’90 che una grave recessione economica determinava la crisi dei sistemi pensionistici di gran parte dei paesi industrializzati e spostava l’attenzione sulla necessità di potenziare il settore della previdenza complementare. Proprio in quell’occasione, si sceglieva di affidare alla stessa il fondamentale compito di concorrere con il sistema obbligatorio all’erogazione di trattamenti pensionistici in grado di garantire ai lavoratori prestazioni adeguate al mantenimento del proprio tenore di vita una volta cessata l’attività lavorativa.
Seppur tra opinioni discordanti in dottrina, il fenomeno veniva, quindi, inquadrato dalla Corte Costituzionale nell’alveo dell’art. 38, comma 2, Cost.
In vista di quegli obiettivi, il decreto n. 252 realizza un assetto normativo volto a favorire l’aumento delle adesioni e l’accrescimento dei flussi di finanziamento alla previdenza complementare.
Funzionale al disegno del legislatore è il riconoscimento di più ampie libertà in capo al lavoratore: a quella di adesione, già contemplata dal D. Lgs. 124/1993, si affiancano ora le ulteriori previsioni della libertà di scelta riguardo alla forma pensionistica cui aderire, nonché della possibilità di trasferire liberamente la propria posizione previdenziale da una forma pensionistica ad un’altra. C’è di più: l’accesso a tali forme è ammesso, oggi, anche da parte di soggetti che non sono lavoratori.
Tali libertà trovano il loro fondamento nel riconoscimento del principio di equiparazione delle forme pensionistiche, che consente al lavoratore di sviluppare un programma di previdenza complementare anche esclusivamente basato sulle forme pensionistiche individuali, mediante l’adesione a fondi aperti od a piani pensionistici individuali. Il che finisce per introdurre elementi di forte dicotomia tra autonomia individuale e collettiva e segna la fine dell’egemonia delle forme di matrice sindacale nell’organizzazione e nella gestione dei fondi pensione, nonostante queste mantengano in alcuni ambiti una posizione di privilegio.
Fatte queste premesse, si giungerà all’analisi del nodo principale della nuova normativa, che ha incentrato lo sviluppo della previdenza complementare su una profonda riforma della disciplina del conferimento del t.f.r.: dal 1° gennaio 2007, o dal momento dell’assunzione, i lavoratori hanno sei mesi di tempo per scegliere se destinare il proprio t.f.r. maturando a forme pensionistiche complementari o mantenerlo presso il datore di lavoro. Con un’avvertenza: qualora non esprimano la loro volontà nel termine, è prevista l’operatività di meccanismi di conferimento tacito del t.f.r. ai fondi indicati dalla legge.
In tal modo, i lavoratori, beneficiando anche di un regime fiscale particolarmente favorevole, potranno assicurarsi, al momento del pensionamento, l’erogazione di ulteriori prestazioni pensionistiche, in rendita o in capitale, delle quali potranno giovarsi durante la vecchiaia.
Una volta delineato l’assetto attuale, sarà evidente che il D. Lgs. 252/2005 non si arresta ad una prospettiva solidaristica, ma va incontro anche alle non espressamente dichiarate esigenze economiche: invero, l’investimento previdenziale assume sempre più i caratteri di un investimento rivolto al mercato finanziario e la previdenza complementare finisce per assumere la veste di strumento di approvvigionamento di capitali ad esso destinati.

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CAPITOLO I LA RIFORMA DELLA PREVIDENZA COMPLEMENTARE 1.1: LE RAGIONI DELLA NUOVA PREVIDENZA COMPLEMENTARE La possibilità di costituire forme volontarie di previdenza è risalente. Già gli artt. 2117 e 2123 c.c. avevano previsto, infatti, che l’imprenditore potesse costituire, anche senza contribuzione dei prestatori di lavoro, fondi speciali per la previdenza e l’assistenza, finalizzati all’erogazione di prestazioni all’atto della cessazione del rapporto di lavoro o della sua sospensione, ai sensi degli artt. 2110 e 2111 c.c. Queste forme, istituite al fine di integrare la previdenza pubblica, tuttavia, incontravano ostacoli al loro sviluppo: pochi, infatti, erano i lavoratori che potevano permettersi di aderire a tali fondi e destinare una parte della retribuzione al finanziamento della previdenza privata; inoltre, l’esigenza di una pensione privata integrativa non era, in concreto, avvertita, dato che la pensione pubblica già di per sé consentiva al lavoratore di mantenere il proprio tenore di vita anche dopo la cessazione dell’attività lavorativa. 1

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