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Materialismo e libero arbitrio in Daniel Clement Dennett

Come prodotto del nostro cervello, a sua volta modellato dal plurimillenario processo evolutivo, la libertà umana è più giovane della nostra specie ed evolve come ogni altra caratteristica della biosfera. Essa è reale, ma non indipendente dalla nostra esistenza, come lo è la legge di gravità. È reale in quanto è l’idea che fa da sfondo e conferisce senso alle nostre azioni. Solo qualcosa che possiede una mente può essere un candidato a sviluppare un simile concetto rivoluzionario, e questo qualcosa deve vivere in società con altri simili, perché possa avviarsi quel processo di negoziazione che trasforma tanti cervelli in tante menti, tanti agenti razionali in altrettanti agenti liberi. L’idea della libertà è la strategia che ci rende soggetti responsabili – persone, per usare la terminologia di Strawson (1982) – e in quanto tali capaci di controllo e autocontrollo. È l’idea in nome della quale affrontiamo le scelte quotidiane, sotto il cui vessillo assolviamo o condanniamo i nostri simili e noi stessi. Un meccanismo per regolare la condotta e niente di più, dunque? Proprio così. In un’ottica schiettamente utilitaristica, la libertà naturale di Dennett aumenta il benessere dei suoi portatori, fa di noi ciò che siamo: esseri coscienti e autocoscienti che vivono in società complesse. Meravigliose macchine biologiche capaci di stupirsi, dolersi e rallegrarsi per decisioni di cui hanno scelto di addossarci la responsabilità. “Niente di più”? Non si può negare che la tradizione assegni al libero arbitrio delle proprietà che difettano alla versione proposta da Dennett, il quale, interrogato in merito, ribatte serenamente:
“Tanto peggio per la tradizione”
(Dennett, 2004, p.301).


Il contributo di Dennett è stato accolto come uno dei più significativi nel contesto del dibattito contemporaneo sul libero arbitrio. La prospettiva del filosofo americano ha saputo sedurre il grande pubblico dei non specialisti, ha dischiuso nuove prospettive di ricerca e aperto un campo inesplorato di conseguenze e implicazioni da scovare e vagliare con nuovi, promettenti strumenti di pensiero. L’intento e la speranza di questo lavoro è quello di esporre l’opera così com’è uscita dalle mani del suo autore, per rilevarne le note di pregio e sperare di individuarne – laddove ve ne siano – almeno alcune debolezze e imperfezioni.

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- 6 - Presentazione Per una scienza della libertà La riflessione sul libero arbitrio, che impegna Dennett da oltre trent’anni, si concretizza per la prima volta nel 1984, con la pubblicazione di Elbow Room: The Varieties of Free Will Worth Wanting . Il lavoro, di modesta estensione, si pone in continuità di metodi e intenti rispetto al filone di ricerca inaugurato da Gilbert Ryle. Formatosi nell’ambito della filosofia analitica inglese, Ryle volle dimostrare come l’analisi del linguaggio ordinario permettesse di venire a capo di antichi e venerandi dilemmi filosofici. Nel secondo dopoguerra, chiamato a dare un saggio dei nuovi metodi, pensò in un primo momento di affrontare il problema della libertà. Come è noto, scelse infine di indagare il rapporto mente-corpo, e dal progetto seguì la pubblicazione di The Concept of Mind (1949). Dennett dedica Elbow Room alla memoria di Gilbert Ryle, non perché si tratti del libro mancato di questi sul libero arbitrio, ma perché grande – addirittura sorprendente (startling, Dennett 1984, p. VII) – fu l’influenza che Ryle esercitò su Dennett durante e dopo il soggiorno di questi ad Oxford e altrettanto profondi il rispetto e l’ammirazione che legarono il filosofo americano al suo thesis supervisor. La tesi di dottorato fu rivista e pubblicata nel 1969, con il titolo Content and Consciousness 1 . Il testo, che valse a Dennett una rapida promozione a protagonista di prim’ordine del dibattito in filosofia della mente, presenta una prima versione di quella teoria materialistica della coscienza che il filosofo avrebbe modificato e raffinato negli anni a venire. Completati gli studi nel pieno fiorire della filosofia del linguaggio ordinario e forte del bagaglio concettuale ereditato da Quine, Wittgenstein e Ryle, nel 1965 Dennett lascia Oxford e fa ritorno negli Stati Uniti. Nel corso degli anni Sessanta aderisce alla cosiddetta “svolta naturalistica” (e naturalizzante), che coinvolge la filosofia contemporanea – soprattutto di indirizzo analitico – e si propone di impiegare gli strumenti filosofici non solo per svolgere un’indispensabile 1 Dennett, D.C., Content and Consciousness, Routledge & Kegan Paul, London 1969

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