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L'occhio che si muove - I movimenti di macchina nel cinema di Stanley Kubrick

Il proposito di questo lavoro è di realizzare un’analisi minuziosa e precisa di tutti i movimenti della macchina da presa (m.d.p.) operati da Stanley Kubrick nei dodici lungometraggi da lui riconosciuti ufficialmente (omettendo, quindi, il primo, disconosciuto, “Fear and Desire”).
Dopo un primo capitolo dedicato ad una problematizzazione dei vari movimenti della m.d.p. che possiamo ritrovare all’interno di un film, verranno esaminati tutti quelli dei singoli lavori del regista americano.
Per ogni opera, dunque, è stata operata una divisione in sequenze ed una ricerca del significato di ognuno dei movimenti della m.d.p. in relazione agli aspetti linguistici e tematici presenti.
Vedremo come Kubrick avesse le idee chiare su quello che doveva essere il suo stile fin dalle prime pellicole, rimanendo sempre attento ad utilizzare le più recenti innovazioni tecniche e tecnologiche, ma anche come egli si preoccupi di interrogarsi sul ruolo e sulla funzione dello sguardo dello spettatore, analizzandone le variazioni di prospettive e distanze.
La complicità della macchina a mano, sempre manovrata personalmente fin da “Killer’s Kiss” (1955), lo zoom all’indietro di “A Clockwork Orange” (1971) e “Barry Lyndon” (1975), le carrellate in avanti e all’indietro, presenti in ampia misura già in “The Killing”, ma soprattutto in “Paths of Glory” (1957) e “2001: A Space Odissey” (1968) e l’ampio uso della Steadycam da “The Shining” (1980) in poi si riveleranno dunque i movimenti cardine del suo far cinema.
Infine noteremo come la principale evoluzione, in questo campo d’analisi, riguardi l’aumento progressivo della mobilità della macchina in ogni film. Nei suoi primi, infatti, Kubrick si rivela assolutamente parsimonioso nell’utilizzo del movimento, con la precisa intenzione di evitare un sovraccarico della sostanza percettiva dello spettatore che doveva essere più propensa verso l’attenzione ai dialoghi. Dagli anni Sessanta, però, comincia un graduale, progressivo passaggio ad un cinema per cui allo spettatore giunga un’esperienza più visiva che verbale, con conseguente riduzione del dialogo e aumento dell’intensità e dell’espressività delle inquadrature e dei movimenti di macchina.

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3 CAPITOLO 1 L’OCCHIO CHE SI MUOVE E’ opportuno, parlando di “movimento” come elemento di “grammatica filmica 1 ” operare subito un’importante distinzione, da valutarsi nell’analisi delle inquadrature, tra movimenti delle figure, ovvero quei casi in cui la m.d.p. resta ferma e adotta un punto di vista unico (inquadratura fissa), che possiamo definire “movimento del profilmico 2 ” e veri e propri movimenti della m.d.p., argomento della nostra discussione. La m.d.p. agisce come uno strumento di registrazione della “continuità dinamica del reale 3 ”, manipolando le apparenze, accelerandone o decelerandone il flusso sullo schermo. Il celebre testo, già citato, di Casetti-Di Chio, “Analisi del film”, individua due articolazioni di dinamicità dello spazio filmico: lo spazio “dinamico descrittivo 4 ”, definito dal movimento della m.d.p. in diretta relazione con quello delle figure atto a rendere meglio il movimento altrui, col compito e l’intenzione di circoscrivere lo spazio a quello di 1 Davide Maggioni, “Professione filmaker”, Mondatori, Milano, 1998. pag. 37. 2 Francesco Casetti, Federico Di Chio, “Analisi del film”, Bompiani, Milano, 1994. pag. 83. 3 Ibidem. pag. 83. 4 Ibidem. pag. 136.

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