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Enduring Freedom. Retorica umanitaria e spersonalizzazione nella nuova guerra in Afghanistan

Come si raccontano le “guerre umanitarie” quando a morire sono i civili, le persone in nome delle quali il conflitto è stato intrapreso? E come deve essere gestito lo “spettacolo del dolore” per convincere le opinioni pubbliche occidentali che è necessario intervenire in armi per difendere i diritti umani di popoli oppressi, quando tra quelle stesse persone si conta il numero più elevato di vittime? Dal tentativo di rispondere a tale paradosso nasce la mia ricerca, che analizza le modalità di costruzione narrativa della guerra e dei suoi personaggi durante l’operazione militare Enduring Freedom in Afghanistan.
Attraverso l’analisi degli aspetti comunicativi dei principali conflitti della seconda metà del XX secolo (Vietnam, Golfo, Kosovo), ho delineato gli scenari in cui solitamente si trovano ad operare i giornalisti. Censura delle fonti e forme sempre più accurate di news management hanno allontanato l’inviato dalla guerra e dalle sue conseguenze: i media, cerimonieri dell’evento, raccontano guerre che non vedono e attingono informazioni e immagini quasi esclusivamente da fonti ufficiali governative, senza possibilità di verifica. I canali sono monopolizzati dal racconto di una guerra virtuale, che sembra però capace di soddisfare le attese di informazione del pubblico.
I conflitti sono narrati secondo un insieme costante di framing ed espedienti retorici, utili a polarizzare e rassicurare l’opinione pubblica. Soldati eroici e leader giusti si contrappongono a milizie violente e dittatori sanguinari. Strategie, armi e tecnologie riaffermano miti importanti dell’identità occidentale e contribuiscono a dare un carattere razionale allo scontro. La guerra diventa racconto di azioni senza conseguenze, la sofferenza e la morte sono lasciate ai margini della trattazione: gradualmente scompaiono dalla vista dei soldati, dei giornalisti e dell’opinione pubblica.
Osservare il dolore degli altri può essere un atto di voyeurismo, ma molti hanno creduto e credono nella possibilità di far cessare, mostrandole, le sofferenze causate dalla guerra. A partire dall’elaborazione teorica della “politica della pietà” di Hannah Arnedt, Luc Boltanski sostiene la possibilità di sviluppare sentimenti empatici per i dolori di gruppi lontani e di voler agire a distanza per alleviarli, assolvendo da un punto di vista morale la rappresentazione della sofferenza. La condizione fondamentale è che gli altri siano rappresentati come individui dotati di singolarità, e mai come masse anonime indifferenziate.
Nel corso del Novecento è profondamente mutata la natura dei conflitti e, di conseguenza, la modalità di raccontare il nemico e i suoi civili. Nelle nuove guerre – secondo l’analisi di Mary Kaldor - l’Altro è individuato su base etnica e la sua identità è delineata in opposizione all’identità dell’Uno. Dalla fine della Guerra fredda, inoltre, i Paesi occidentali sono stati sempre più spesso coinvolti in guerre “per fini umanitari”. Ciò ha evidentemente comportato la necessità di individuare il nemico in modo nuovo: si combatte contro dittatori violenti, diabolici, pazzi, e il popolo non solo non è ostile, ma è la prima vittima dei propri governanti e deve essere aiutato.
Attraverso l’analisi delle edizioni del Corriere della Sera e del Foglio dal 12 settembre 2001 al 31 gennaio 2002, questa tesi mette in luce la struttura del racconto di guerra: motivi, nemici, obiettivi. Iniziata per vendicare/fare giustizia degli attentati al World Trade Center e al Pentagono e difendere la libertà occidentale da Osama Bin Laden, dal terrorismo e forse dall’Islam, Enduring freedom è diventata anche una guerra umanitaria, di liberazione del popolo afgano oppresso dai talebani terroristi. I giornalisti hanno parlato di talebani, profughi, donne, vittime che spesso non potevano vedere direttamente: la massa anonima e la dimensione simbolica del racconto hanno prevalso sul tentativo di raccontare le storie della gente e l’identità (spesso stereotipata) del gruppo ha annullato quella individuale.
La guerra è stata però raccontata anche da alcune organizzazioni umanitarie, mettendone in luce il ruolo di agenti di controinformazione, spesso critici nei confronti dei media e della retorica (e dell’azione) umanitaria militare. Assumere il punto di vista della gente e il tentativo costante di personalizzare il racconto comporta una totale ridefinizione dei ruoli. La massa anonima è rifiutata, i casi singoli sono protagonisti e, di fronte alla sofferenza, l’identità di gruppo delle persone diventa irrilevante.
Infine, sulla base di parte dell’ampia letteratura relativa ai temi posti in agenda dopo l’11 settembre e considerando alcuni sviluppi della situazione afgana, ho cercato di delineare delle ipotesi interpretative sul ruolo dei media nella percezione del conflitto, evidenziando soprattutto come le modalità narrative adottate per le persone possano essere collegate a diverse concezioni dei diritti umani.

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1 Prefazione Alle 8:45 dell’11 settembre 2001 un aereo di linea si schianta contro una delle Twin Towers, nel centro di Manhattan. Dopo 18 minuti, anche la seconda torre viene colpita, mentre il mondo sta a guardare. Non può essere stato un incidente. Mentre i giornalisti cercano di raggiungere il World Trade Center, un piccolo esercito di passanti digitali racconta al mondo la tragedia di New York, in diretta. “Web-cam, macchine fotografiche, registratori e telefonini cominciarono come d’incanto a passarsi il testimone riprendendo lì dove l’altro staccava, in modo da fornire un unico infinito e dettagliatissimo streaming di documenti, una sequenza di file, dove tutta la tragedia dell’America si raccoglieva nella sequenza binaria di 0 e 1.” 1 Ancora una volta i media sembrano accreditarsi come cronisti della storia, addirittura veicoli di una costruzione collettiva dell’evento in cui il “reporter diffuso” ha soppiantato il giornalista nel ruolo di testimone della storia. I mezzi di comunicazione, palcoscenico abilmente utilizzato dal nuovo terrorismo globale, ripetono ossessivamente le immagini di distruzione e contribuiscono a diffondere paura e desiderio di rivalsa. Si fanno choros degli eventi. Forniscono frames interpretativi, delineano l’evoluzione dei fatti, aiutano la società ad elaborare il lutto per le vittime e lo shock per il crollo di miti fondamentali: l’inviolabilità del territorio, la superiorità tecnologica ed economica, la sicurezza. In pochi giorni, mentre i muri di New York e i media si trasformano in un sacrario post- moderno per i primi caduti della guerra al terrorismo, gli inviati di tutto il mondo assediano l’Afghanistan, costretti ancora una volta a rimanere lontani dagli eventi, prigionieri della miope censura e della rozza propaganda talebane, dipendenti dal raffinato news management alleato. Secondo una logica apparentemente paradossale, la guerra nuova e “invisibile” annunciata dal Pentagono inonda lo spazio mediatico: centinaia di ore e migliaia di pagine raccontano il nuovo conflitto secondo trame, ruoli e framing sostanzialmente identici a quanto visto negli ultimi conflitti che hanno coinvolto la comunità internazionale. In una sorta di assolutizzazione della guerra asimmetrica, l’unica superpotenza mondiale, incarnazione dei valori libertari e dei miti occidentali, si accinge a sferrare il primo colpo della guerra contro “l’asse del Male” in uno dei territori più poveri e 1 Mezza, Michele, “È l’innovazione, bellezza! Sulla professione dopo l’11 settembre”, in Problemi dell’informazione, XXVI, n. 4, 2001, pp. 359-370.

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Informazioni tesi

  Autore: Ilaria Buselli
  Tipo: Tesi di Laurea
  Anno: 2002-03
  Università: Università degli Studi di Siena
  Facoltà: Lettere e Filosofia
  Corso: Scienze della Comunicazione
  Relatore: Enrico Menduni
  Lingua: Italiano
  Num. pagine: 390

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Parole chiave

afghanistan
diritti umani
guerra umanitaria
intervento umanitario
media e guerra
organizzazioni non governative
spettacolo del dolore

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